Ultimo aggiornamento25 ottobre 2024, alle 15:38

Marco Uvietta e il suo Wandering per la Fondazione Haydn

di Martina Cavazza - 15 Ottobre 2024

L’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento ha commissionato al compositore Marco Uvietta un brano dedicato a Luciano Berio, che verrà eseguito in prima assoluta il 22 ottobre 2024 a Bolzano e in seconda esecuzione il giorno successivo a Trento.

Il programma stabilito dalla Haydn prevede anche l’Incompiuta di Schubert e Rendering di Berio, brano sorto dalla struttura di un’altra sinfonia che il compositore austriaco, nel 1828, non portò a compimento: la D936A in Re maggiore.

In questo contesto, il titolo dell’omaggio di Uvietta a Berio prende il nome di Wandering, come fusione tra il wanderer schubertiano e Rendering di Berio.

Abbiamo intervistato il compositore per scoprire qualcosa di più sulla genesi di questo e altri suoi lavori e ragionare sui modi in cui l’eredità del passato può prendere forma nella musica di nuova produzione…

Come nasce il suo rapporto con la Fondazione e con l’orchestra Haydn?

Essendo nato e cresciuto a Bolzano, l’Orchestra Haydn ha fatto parte della mia formazione. Mio padre aveva studiato violino, ma poi aveva optato per la medicina. Mia madre era – ed è ancora oggi – appassionata di musica e mi portava ai concerti. Nel 1982 mi sono trasferito prima a Bologna, poi a Milano. Alla fine del 2000, quando lavoravo nella redazione dell’editore Ricordi, ricevetti una commissione di un pezzo per orchestra dal direttore artistico di allora, Hubert Stuppner. A quell’epoca non avevo ancora deciso se volevo fare il compositore o il musicologo. Ho fatto entrambi fino a una decina di anni fa, poi ho deciso di dedicare la maggior parte delle mie energie alla composizione, che è diventata oggetto principale anche della mia ricerca musicologica.

Wandering non è il suo primo omaggio a Berio. Nel 2017 ha scritto un brano, intitolato Dyscrasic Morphing, nato da una trascrizione di Frescobaldi che Berio aveva iniziato e che le aveva suggerito di completare. Può dirci qualcosa di questa composizione?

Pochi mesi prima di morire, Berio mi donò la prima pagina di una trascrizione per orchestra della Toccata V per organo di Girolamo Frescobaldi, che in quel momento attribuì erroneamente a se stesso. Mi disse: «continua tu».

Il 4 gennaio 2003, pochi mesi prima di morire, Berio mi donò la prima pagina di una trascrizione per orchestra della Toccata V per organo di Girolamo Frescobaldi, che in quel momento attribuì erroneamente a se stesso. Mi disse: «continua tu». Solo dopo la sua morte scoprii che in realtà si trattava di una trascrizione di Ghedini, che Berio aveva ricopiato al fine di dirigerla insieme ad altre tre trascrizioni frescobaldiane del suo Maestro (ciò accadde a Saarbrücken nel 1982). Ma poco importava ai fini del mio progetto: infatti nel frattempo avevo maturato l’idea di una composizione originale anziché una trascrizione. Studiando la Toccata V per organo di Frescobaldi constatai curiose analogie con la Toccata VII di Michelangelo Rossi. Cominciai a valutare se da queste analogie fosse possibile trarre del materiale sul quale praticare una trasformazione (un morphing) da una composizione all’altra, passando attraverso autori di epoche più recenti: Verdi, Debussy, Bartók, Stravinskij (naturalmente anche Berio e me stesso).

Nel comporre Wandering come secondo omaggio a Berio, ha avuto un approccio differente rispetto al precedente lavoro?

Wandering è un’operazione molto diversa dalla precedente, forse addirittura concettualmente opposta: se in Dyscrasic Morphing da un materiale modale-tonale coglievo gli elementi per fare un viaggio nel futuro e ritorno, in Wandering da un materiale non tonale – dal mio linguaggio intriso di quello di Berio e di altri compositori della sua generazione – traggo gli elementi per fare un salto nel passato ottocentesco. Essendomi stato richiesto un omaggio a Berio da inserire in un programma che prevede Rendering e l’Incompiuta di Schubert, mi è parso che il filo rosso del concerto dovesse essere il grande classico-romantico viennese. La pulsazione ritmica del Lied Gretchen am Spinnrade di Schubert evoca quasi per assonanza lo Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler (utilizzato da Berio nel terzo movimento di Sinfonia), ma anche Wanderung, n. 7 dei Kerner-Lieder op. 35 di Schumann. E in queste apparizioni si intrecciano frammenti dalle Folk songs di Berio (n. 2 I Wonder as I Wander e n. 7 Ballo). L’intero brano è attraversato da libere proliferazioni del perpetuum mobile della Sonata per pianoforte di Luciano Berio, sua penultima composizione.

Per evitare di ripercorrere traiettorie già tracciate da Berio (il citazionismo postmoderno del terzo movimento di Sinfonia, il restauro conservativo di Rendering, il completamento funzionale e ‘para-stilistico’ di Turandot), era necessario trovare una nuova via. In Wandering non cito e non completo nulla: trasformo, sovrappongo, deformo, unisco, ma soprattutto collego per associazione di idee, senza seguire un percorso logico-lineare: come quando si vaga senza una meta precisa.

In Wandering non cito e non completo nulla: trasformo, sovrappongo, deformo, unisco, ma soprattutto collego per associazione di idee, senza seguire un percorso logico-lineare: come quando si vaga senza una meta precisa.

Nel saggio su Berio Ritratto di un’artista da giovane, Enzo Restagno ha scritto, richiamando Max Weber, che “creare, umanamente parlando, non significa far sorgere qualcosa dal nulla, ma scoprire nuove relazioni in base alle quali riformulare il disegno dell’esistente”. Il rapporto con la storia, il dialogo con le forme tradizionali e i compositori del passato è una riflessione ricorrente tanto nella produzione di Berio quanto nella sua, a maggior ragione alla luce della sua carriera anche di musicologo. In che modo si relaziona all’eredità del passato?

Se il rapporto col passato rappresentava, già a partire dalle poetiche neoclassiche, un problema e un’opportunità al tempo stesso (in un certo senso un amore conflittuale), almeno da un ventennio si avverte, al di sopra del rumore scomposto, un rapporto di continuità fra presente e passato che, accettato o rifiutato, tende perlopiù a non produrre attriti culturali, ideologici, stilistici. In una dimensione più artigianale, noi della generazione degli anni Sessanta abbiamo imparato a far dialogare i linguaggi senza contrasti, senza suture e senza tessuti connettivi neutri, bensì generando gli uni dagli altri. E ciò sostanzialmente perché oggi la continuità interessa più della distanza storica. Non ho mai avvertito l’eredità storica come un ostacolo: il mio lavoro quotidiano mi induce a cercare sempre il perché delle scelte dei compositori del passato, il motivo per cui hanno scelto determinate soluzioni anziché altre. Solo così si può comprendere la pregnanza di un atto creativo: ipotizzando quali strade diverse fossero percorribili in un determinato contesto e perché siano state scartate a favore di altre, che a posteriori ci sembrano le uniche soluzioni possibili. Per questa via si possono “scoprire nuove relazioni in base alle quali riformulare il disegno dell’esistente”.

È d’accordo con l’affermazione di Roland Moser, che sostiene che un musicista del XX secolo è in un certo senso un “architetto di rovine”? E vale lo stesso per un musicista del XXI secolo?

Credo che Moser non volesse dare una definizione apodittica, bensì riferirsi in specifico a questo genere di operazioni ricostruttive. Sicuramente nel XX secolo alcuni compositori neoclassici o neoromantici sono stati “architetti di rovine”. Da musicologo, mi sentirei di dire che soprattutto negli ultimi cinquant’anni la musica del passato è stata oggetto di attenzioni (filologiche, ricostruttive, conservative, esecutive) quanto mai prima. Molti compositori sono quindi diventati anche ottimi “manipolatori di repertorio”, in quanto le opere del passato, custodite e protette in quei confortevoli musei che chiamiamo teatri, auditorium, sale da concerto ecc., sono più solide, sicure e protette della musica del nostro tempo, che invecchia e deperisce molto più rapidamente di quella antica. Da questo punto di vista, capovolgendo provocatoriamente il senso dell’espressione di Moser, il compositore tende oggi ad essere un “architetto” di opere che portano su di sé, fin dalla nascita, i segni della “rovina”. Per citare Berio, tende quindi a “confondere la vita con i segni delle sue malattie”. Personalmente auspico meno “architetti” e più interpreti (critici) dello spirito del tempo.

Parliamo invece ora del futuro. Ha altri progetti imminenti?

Ho in cantiere due intermezzi buffi incentrati sul tema del conflitto generazionale, cui dovrebbe corrispondere anche una dialettica fra linguaggi musicali diversi (in questo caso il passato – soprattutto quello prossimo – trasparirà solo sotto forma di allusioni, non di opere specifiche). Vorrei intercalarli ai tre quadri del mio oratorio Juditha dubitans, già eseguito nel 2022.

Ma l’obiettivo principale è quello di far circolare le mie composizioni già esistenti, onde evitare che si trasformino in rovine…

Martina Cavazza

Responsabile Editoriale

Compositrice diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, vicepresidente dell’Associazione Musica Del Vivo per la promozione della musica di giovani compositori.

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