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In quella parte della mia memoria. Laborintus da Sanguineti-Berio a noi

di Redazione - 9 Dicembre 2020

Laboratorio-Labirinto 1951-1965 / Infosfera, transculturalità, ibridazione 2020

L’arte oggi è fatta di memoria perché si è incaricata di riportare al presente e al futuro il passato dimenticato o rimosso. L’oblio è uno strumento del potere: far dimenticare è controllare una società; ricordare è strumento di libertà
(Aleida Assmann, Ricordare)

Multimodalità, Ekphrasis moderna, arte su arte, musica su musica: l’arte oggi è il racconto di un passato

Ogni reificazione è un dimenticare (Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo)

Dagli anni Novanta una parte crescente di opere d’arte sono state create sulla base di lavori preesistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono, riesibiscono, o usano lavori fatti da altri o prodotti culturali disponibili
(Nicolas Bourriaud, Postproduction)

Dal soggetto al Self: l’io come terza persona


L’idea del laboratorio-labirinto

Fra il 1951 e il 1956 Edoardo Sanguineti lavora sulla sua opera prima: Laborintus. Si tratta di un montaggio-riscrittura di frammenti tratti da vari scritti di Dante e altri, un viaggio intertestuale poi proseguito nel 1965 da Luciano Berio con Laborintus II. Nello stesso periodo, precisamente nel 1955, Claude Levi-Strauss, avvia una battaglia contro ogni forma di egemonia culturale: “L’umanità ha scelto una mono-cultura, e sta attraversando ora il processo di creazione di una civilizzazione di massa”.
Sono due direzioni divergenti: da un lato la concezione del presente carico di una storia profonda continuamente rielaborata (Sanguineti), dall’altro (Levi-Strauss) la necessità di evitare la “monocultura” concepita come una scatola chiusa, e la sollecitazione a un unsettling, una riapertura critica della propria formazione guardando alle culture altre.
Sanguineti con il suo “giudizioso delirio” intendeva riattivare tutto ciò che la ragione illuministico-occidentale ha rimosso, marginalizzato, negato: ma questa forma di liberazione del linguaggio, il ricupero della metafora barocca, l’intreccio intertestuale spiazzante, la ibridazione di fonti e ambiti eterogenei, non ha finalità anarchica. Nel suo laboratorio-labirinto tutto trova un ordine, sebbene rifiutando ogni legge predeterminata, e ogni materiale è posto sullo stesso piano espressivo. È la fine della grammatica, della sintassi, della logica, del senso secondo criteri tradizionali, ma non è affatto un abbandono alla antilogica e al caos, o al gioco postmoderno ante-litteram, bensì una moltiplicazione della varietà semantica: una liberazione della ragione, non dalla ragione.
Sanguineti perciò attinge i suoi materiali dalla storia profonda, risalendo a Dante, per poi giungere alle espressioni a lui contemporanee europee e non-europee. Sono due forme di autocritica: una si muove nel tempo della propria storia, l’altra nello spazio delle diverse culture.
Perché oggi queste posizioni meritano un’attiva riflessione? Soprattutto perché l’uomo del XXI secolo ha a disposizione una gamma di conoscenze e di memorie enormemente ampliata, anzi quasi illimitata in ragione soprattutto di due fattori: la mediasfera, la “connettività continua”, la onlife digitale da un lato, dall’altro il multiculturalismo e la transculturalità: infosfera e globalizzazione, overload di informazione, ipermedialità, multimodalità e permeabilità dei confini culturali. E, dopo le numerose aggressioni decostruttive ai due lati dell’Oceano, la ibridazione è divenuta il nuovo habitus culturale anche quando non dichiarato (si parla persino, oggi, di Deleuzian Turn).
Queste aperture generano tuttavia diversi motivi di preoccupazione, poiché hanno ampliato gli ambiti di esperienza molto al di là dei limiti della memoria umana. Ciò che apprendiamo (nella profondità storica come nell’estensione geografica) eccede la memoria umana, che perde funzionalità, perde qualità critica. Ma se la soggettività non è saldamente poggiata sulla memoria, si può ancora parlare di cultura, di identità, di dialogo, di uguaglianza, di responsabilità e insomma di tutti quei principi costitutivi di una comunità culturale? Zygmunt Bauman ha notato infatti come segno distintivo della società attuali un “bisogno di comunità”, spesso manifestantesi in una forma nostalgica e protettiva, che lui chiama “retrotopia” in un omonimo libro del 2017, con tutti i rischi che ciò comporta.

In questa situazione di debolezza mnemonica dell’uomo davanti alle memorie-archivio digitali e alle aperture transculturali, c’è ancora spazio per una “arte della memoria”, un’arte del laboratorio/labirinto di Sanguineti e Berio? O forse la “postproduzione” che secondo Nicolas Bourriaud contraddistingue l’arte del XXI secolo è pericolosamente prossima a un gioco manieristico postmoderno fuori tempo. L’idea di “catalogo” non rischia di scadere nel citazionismo alienante, reificante?
Come operare una selezione critica su cui costruire una propria storia, attraverso la quale il soggetto possa collocarsi in una “comunità culturale” o una “comunità di sentire” (Barbara Rosenwein)? È ancora valida l’idea di una ars memoriæ? o all’opposto è possibile concepire un’arte senza memoria? la vecchia idea della tabula rasa è un’utopia, una distopia o che altro?
Ecco allora che riflettere sul concetto di “laboratorio/labirinto” musicale, sia pure nella accezione rivoluzionaria e adornianamente anti-illuministica di Sanguineti e Berio, non significa solo muoversi su un piano estetico, ma coinvolge la concezione della sociabilità, della relazione fra individui e fra culture.

Che domande pone oggi il progetto laboratorio-labirinto?

La discussione parte da alcune domande preliminari:

– Come si può trasferire nell’oggi il concetto di “laboratorio-labirinto” che Sanguineti attinse dal monaco medievale Everardo Alemanno?
– Come considerare la “riscrittura” del passato: intermediazione passiva (come fa per esempio Aribert Reimann quando strumenta i Lieder di Schumann, Brahms , Schubert, Mendelssohn non modificando una sola nota; ossia più o meno quello che faceva Bach ristrumentando Vivaldi o parodiando lo Stabat di Pergolesi) oppure mediazione attiva e rinnovante (ossia attiva rivitalizzazione attuale di un “oggetto testuale” del passato di culture altre, come hanno fatto Berio, Ligeti, Rihm, Lombardi e molti altri, o come oggi sta facendo Jörg Widmann con il canone europeo, per esempio nella serie dei Labirynthus ora giunta al n. 4)?
– Nell’epoca della mediasfera (la onlife digitale) e della transculturalità è ancora possibile “giudiziosamente delirare” (come Sanguineti, appunto) unendo frammenti da ogni tempo e da ogni cultura? Come evitare il collage digitale, il meshup desoggettivante  il gioco superficiale che chiunque ormai può realizzare dal proprio computer in pochi minuti? Nell’epoca della connettività continua, la pratica dello straniamento intertestuale può ancora essere intesa come una forma di rifondazione logica della parola, della musica, nei linguaggi?
– E se la risposta è affermativa, come si modifica la pratica intertestuale nel nuovo labirinto di oggi, la rete che come una nuova mente di dio rende tutto il memorizzabile a portata di click?
– E come si modifica tale pratica intertestuale dopo le riflessioni sulla transculturalità di filosofi come Wolfgang Welsch o antropologi come Steven Feld?

Il rischio più comune è quello di un doppio naufragio: da un lato la negazione radicale di ogni possibile memoria culturale, riportando il suono a una sua presunta ontologia eliminando da esso ogni riferimento all’umano, concependo il suono non più come rappresentazione o espressione umana, ma come una entità dotata di autonomia ontologica (Graham Harman, Christoph Cox); dall’altro l’utilizzo del suono memorizzato ed elaborato al computer, senza più legame con la sua produzione (storica, geografica, culturale), un suono quindi senza più legami con il contesto umano che lo ha generato né con la storia che lo ha trasmesso (dal rumorismo acusmatico di ormai antica memoria, al più recente rumorismo computerizzato di Merzbow, fino al meshup di suoni trovati sulla rete, elaborati e decontestualizzati o di suoni creati autonomamente dalla macchina):

a) Il primo è un naufragio dell’umano in senso deleuziano, ossia “ecologico”, per cui le ragioni della terra, del corpo vivente, di Gaia che sopravvive al di là dell’antropocene, hanno di fatto già impostato un inevitabile superamento dell’antropocentrismo, implicante una radicale negazione della storia e della cultura. E in musica questo “al di là dell’antropocentrismo” si identifica con alcune tendenze molto influenti di gran parte delle Sound Arts: basti ricordare la Soundscape composition di John Luther Adams o di Hildegard Westerkamp, o la filosofia del Sonic Flux teorizzata da Christoph Cox, Seth Kim-Cohen, Salome Voegelin e molti altri teorici anglo-americani (Christoph Cox, Sonic Flux. Sound, Art, and Metaphisics, Univ. of Chicago Press 2018)

b) il secondo è un naufragio in senso postumano, altra forma di negazione della storia: l’uomo superato dalle macchine che archiviano, operano scelte statistiche, agiscono autonomamente (il cosiddetto Internet of Things, IoT). E questo accade già ora anche in musica, sia chiaro: molta della computer music va in questa direzione, e la produzione sia pur geniale di un computer visual-sound artist come Carsten Nicolai lo testimonia, con il largo impiego di “griglie algoritmiche” autoriproducentisi nel suono, nello spazio, nelle forme visive (“grid index”).

La soggettività, l’azione critica del soggetto chiamato a prendere una posizione responsabile, rischia di essere annullata, ‘vaporizzata’ nella rete, nella onlife: l’esatto opposto di quel “giudizioso delirio” che portava Sanguineti e Berio e riattivare criticamente una lunga tradizione culturale. Il rischio di questa negazione dell’antropocentrismo, tanto in senso deleuziano quanto in senso postumano, è la fine di ogni possibile teoria critica, la fine della presenza del soggetto critico: non certo in linea con quel lontano esperimento di Laborintus/Laborintus II.

La memoria digitale e la memoria culturale

La memoria artificiale-digitale è additiva e sequenziale, mentre quella umana è selettiva e critica, e agisce ponendo in relazione le diverse memorie accumulate. La memoria umana è retroattiva: ogni nuova acquisizione modifica tutte le memorie passate, le riadatta, le riseleziona, le riconsidera e le rivalorizza. Nella memoria umana ogni nuova acquisizione impone un rimodellamento di tutto il patrimonio mnemonico finallora accumulato; il passato è in continua riscrittura: il presente non è una conseguenza del passato, ma lo ri-crea in continuazione; e la freccia del tempo non è dal prima a dopo, ma nella direzione contraria (è il presente che modifica il passato e non viceversa). In questo senso l’umano è costituto di “tempo ricordato” come sua materia prima. Qualche esempio: dopo Rendering di Berio si ascolta tutto Schubert diversamente; dopo l’esecuzione di Monteverdi fatta da Gardiner o da Alessandrini, non ascolto più i madrigali di Marenzio o di Verdelot nello stesso modo, e colloco lo stesso Monteverdi in una cornice storica rinnovata: un nuovo passato. Ma anche: dopo aver letto Cartesio non posso più ascoltare la “seconda pratica” come un fenomeno solo musicale; dopo aver studiato le dinamiche sociali innescate dalla Rivoluzione dell’89 non posso ascoltare Beethoven come lo ascoltavo prima. Se prendo coscienza di concezioni del tempo diverse da quella lineare europea non posso ascoltare Scelsi, Grisey o Sciarrino nello stesso modo. L’idea del laboratorio-labirinto si identifica precisamente con questo modello di memoria culturale dinamica e retroattiva, opposto a quello della memoria artificiale, per sua essenza additiva, adialettica, acritica.
Un’ammirevole esposizione di questi argomenti si trova in Aleida Assmann, Ricordare (Il Mulino 2002), in particolare l’ultimo capitolo Sulla crisi della memoria culturale, che pone argomenti molto simili a quelli che ho riassunto qui sopra (lei chiama “memoria culturale” o anche “funzionale”, quella che ho sopra chiamato memoria dialettica e critica). O ancora nel recentissimo La fabbrica del ricordo di Felice Cimatti (Il Mulino 2020).

Proposte per la seconda parte della discussione (dopo gli interventi degli invitati)

Riassumendo: nel 1951-1965 Laborintus/LaborintusII di Sanguineti-Berio apre una nuova possibile “ars memoriæ”; poi molti “labirinti” attraversano la musica d’arte europea (Ligeti, Henze, Rihm, Widmann …), fino a oggi, quando il senso del “giudizioso delirio” viene messo a rischio dai due fenomeni indicati nel titolo:

  1. la rivoluzione digitale e la intermedialità ormai pervasiva che essa ha generato; la connettività continua, la vita nella mediasfera e nella infosfera, che Luciano Floridi ha definito onlife
  2. la transculturalità: l’aumentata rete di scambi e ibridazioni fra culture in movimento. Nell’idea di Wolfgang Welsch questo fenomeno ha sostituito quello di “interculturalismo”.

Tenuto conto delle sollecitazioni proposte fin qui, si propone alla comune riflessione questo set di argomenti:

  1. la produzione di nuova musica ha possibilità di conservare l’eredità del laboratorio-labirinto storico, senza chiudere occhi e orecchie alle sollecitazioni della anti-storia provenienti dai Sound artists e dalle nuove tendenze antagoniste all’antropocentrismo (il “deleuzian turn”, come è stato chiamato, e le varie tendenze del postumano)?
  2. come eseguire musica della storia recente? Come progettare una programmazione che realizzi senza preconcetti un dialogo fra musica del passato, del periodo delle avanguardie del secondo novecento, e del presente? Qual è il senso di eseguire oggi musica delle avanguardie tramontate? Si può presentare il canone occidentale criticamente? Come? E perché?
  3. come considerare l’impatto (sulla composizione, sulla esecuzione, sul comportamento d’ascolto) delle new technologies, dei new media e in generale della semplificazione e accelerazione che essi impongono alla memoria e alla logica umana. Questi due fenomeni salienti, semplificazione e accelerazione rappresentano forse una trasformazione dell’umano? Secondo me si; sono le principali cause di una nuova organizzazione del pensiero e della memoria umana, una memoria che perde profondità per uniformarsi ai principi dell’intelligenza artificiale: appunto processo di semplificazione e processo di accelerazione (studiati rispettivamente da Jean-Michel Besnier, L’uomo semplificato, e da Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione). E accettiamo senza riserve queste trasformazioni?
  4. come considerare l’influenza che la transculturalità (ormai inevitabile) esercita sul sistema della musica nella società postcapitalista? Come considerare la ibridazione culturale, l’impiego di elementi da altre tradizioni nella nuova produzione europea? E come la transculturalità genera produzioni autonome in parti del mondo estranee al postcapitalismo (ossia i fenomeni di ritorno)?

La domanda che tutte sussume è quindi: le possibili risposte alla informatizzazione e alla transculturalità sono considerabili nella cornice di una nuova TEORIA CRITICA? oppure concetti come soggettività, cultura, storia sono definitivamente da dismettere?

Sono argomenti che non possono esaurirsi in due ore, d’accordo.

Antonio Rostagno

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Alcune indicazioni bibliografiche

Sulla transculturalità

Giovanni Giuriati, Francesco Giannattasio, Perspectives on a 21st Century Comparative Musicology: Ethnomusicology or Transcultural Musicology? Venezia, Fondazione Cini, 2017

[saggi di Giannattasio, T. Rice, S. Feld, G. Giuriati, W. Welsch]

Sulla rivoluzione digitale e il postumano

Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta cambiando il mondo, Milano, Cortina 2017

Id., Pensare l’infosfera, Milano, Cortina 2020

Marco Revelli, Umano Inumano Postumano, Torino, Einaudi 2020

Sulla memoria come azione del soggetto e come fondamento della nuova soggettività vedi anche:

– Paul Connerton, Come la modernità dimentica, Torino, Einaudi 2010

– Patrizia Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Milano, Bompiani 2014

– Felice Cimatti, La fabbrica del ricordo, Bologna, Il Mulino, 2020 [come si forma la memoria culturale: in base a come il soggetto si prefigura il futuro, il soggetto stesso vive nel presente. E da quel futuro proiettivo il soggetto ri-costruisce a se stesso continuamente il proprio passato, negando quindi che possa esistere il passato. La memoria soggettiva-culturale-critica rende dinamico il passato]

Sulla accelerazione e sulla semplificazione imposte dal digitale

– Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo della tarda modernità, Torino, Einaudi 2015

– Jean-Michel Besnier, L’uomo semplificato, Milano, Vita e pensiero 2013

Miguel Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Trento, Erikson, 2013

RIF STORICI:
George Steiner, After Babel: Aspects of Language and Traslation (1975 e 1992), tr. it.: Dopo Babele: aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 2004

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