Anatomia di una rivoluzione – La Sagra della Primavera fra paganesimo e modernità
di Nicola Giaquinto - 29 Maggio 2024
Il progresso, o meglio il bisogno di progredire, è sempre stato pilastro fondamentale della civiltà umana. Tutto quello che noi oggi banalmente diamo per scontato nel quotidiano – dallo schermo sul quale si sta leggendo, al fornello a gas che lentamente porta a bollore l’acqua per la nostra tazza di caffè – è solo un checkpoint di un costante processo evolutivo che, silenziosamente, cambia il modo in cui viviamo. Quando, però, questo bisogno primordiale viene applicato ad un tessuto sociale molto più esteso e stratificato, ecco che si parla di rivoluzione. Se è vero che nel campo della medicina, della scienza e dell’ingegneria il mantra del progresso viene portato avanti con il fine di donare benessere diretto all’essere umano, tramite anni di ricerca e scoperte talvolta folgoranti, è altrettanto vero che nell’arte il termine “rivoluzione” coincide quasi sempre con la necessità di eradicare archetipi vecchi per piantarne di nuovi.
Non vi è secolo migliore per osservare questo fenomeno come quello che ci precede, e non vi è in musica brano che causò terremoto più grande della Sagra della Primavera di Igor Stravinsky.
Un entourage perfetto
La leggenda di quella Sacre du Printemps che tanto scosse le pareti del Théâtre des Champs-Elysées è ancora ben inculcata nell’immaginario comune, ma gli eventi del 29 Maggio 1913 non furono dovuti solamente ad un pubblico parigino particolarmente austero. Come ogni rivoluzione che si rispetti, fu la lenta fermentazione di tutta una serie di fattori storici, culturali e artistici a rendere il processo creativo e il successivo scalpore di questo tripudio dalle proporzioni titaniche ciò che noi oggi riteniamo spartiacque fra quello che era e quello che successivamente fu, spiritualmente sulla falsariga di una tal Nona Sinfonia che neanche novant’anni prima cambiò radicalmente la musica e il rapporto che la società aveva con essa.
Le note selvagge di Stravinsky sono oggi ritenute causa scatenante il grande squarcio, ma la prima della Sagra della Primavera non sarebbe stata così sanguinosa se non per il lavoro di tre figure chiave che collaborarono con il compositore russo, primo fra tutti Sergei Diaghilev.

In una San Pietroburgo estremamente tendente all’occidente e dove addirittura la lingua ufficiale della nobiltà era il francese, il giovane impresario fu uno dei primi pionieri della divulgazione di tutta l’arte che trasudava un’aura intensamente russa, dalla pittura al balletto. Con il suo fiuto per gli affari infallibile, intelligenza sopraffina e fascino da dandy, non sorprende come il giovane Diaghilev si ritrovò nel giro di pochissimo tempo in cima alla piramide del mecenatismo, circondato e adorato da quell’aristocrazia russa che fremeva per qualsiasi mostra o balletto portante la sua firma.
Una serie di controversie – sommate alla tensione politica crescente in madrepatria – lo portarono però ad emigrare a Parigi, città che fu per lui quasi terra santa. Siamo infatti agli albori del multiculturalismo europeo e i parigini erano affamati di qualsiasi forma di arte o artigianato che trasudasse tradizionalismi esotici, specialmente se provenienti dall’estremo oriente. Fu così che l’allora centro del mondo vide la nascita dei Ballets Russes, la celebre compagnia di ballo fondata da Diaghilev con lo scopo sia di soddisfare l’insaziabile voglia di Russia, che di esplorare nuovi modi di fare arte.
Fu così che l’allora centro del mondo vide la nascita dei Ballets Russes, la celebre compagnia di ballo fondata da Diaghilev con lo scopo sia di soddisfare l’insaziabile voglia di Russia, che di esplorare nuovi modi di fare arte.
Per ottenere successo e garantire la sopravvivenza del progetto era importante per l’impresario circondarsi di geni, scegliendo in primis un corpo di ballo competente, capitanato da Vaslav Nijinsky. Nijinsky – ballerino dalla carriera già scritta in Russia, noto per la sua leggiadria nei salti e il suo stile quasi etereo – accettò ben volentieri l’offerta dell’ amico, e si pose come obiettivo sia quello di non deludere l’esigente pubblico europeo che di apportare il suo contributo all’evoluzione del mondo del balletto.
Un altro ingrediente fondamentale per garantire il successo dei Ballets Russes era la musica, fu infatti prima premura dell’impresario russo collaborare con importanti figure del panorama dell’epoca, fra i quali nomi di spicco come Claude Debussy, Manuel de Falla e Maurice Ravel, nonché suoi connazionali come Alexander Glazunov e un ancora sconosciuto Igor Stravinsky.
Diaghilev nutriva un fascino genuino nei confronti della musica del giovane pietroburghese e vide in essa esattamente quello che cercava per narrare al meglio le storie di una Russia fantastica e dai mille colori, diametralmente opposta alla sobrietà delle melodie salon a cui i parigini erano abituati.
I primi grandi successi stravinskiani come l’Uccello di Fuoco (1910) e Petrushka (1911), con le loro storie accattivanti e sonorità nuove, furono infatti commissioni per i Ballets Russes, capitanati dal loro fedelissimo manager, un primo ballerino eccezionale e avvalorati ulteriormente da costumi e scenografie altamente suggestive. Fu in seguito al primo trionfo parigino che Igor Stravinsky venne d’un tratto folgorato da un’idea nata dal profondo, per la quale era necessario rivolgersi all’archeologo e artista Nicholas Roerich.
Il grande sacrificio
Il fascino che Stravinsky nutriva nei confronti delle antichissime tradizioni della Russia pagana può essere in parte attribuito al modo in cui passò molte delle sue estati. Egli era infatti solito spendere i mesi più caldi dell’anno nella Dacha di famiglia ad Ustyluh, un luogo diametralmente opposto alla dinamicità e al multiculturalismo di San Pietroburgo, nel quale il sentimento di appartenenza non era più rivolto ad una nazione e ai suoi usi, bensì si vedeva esteso al ben più cieco e primordiale bisogno di connettersi con le proprie radici terrene. Fu in questo piccolo lembo di terra incontaminato che il compositore venne più volte a contatto con una tradizione musicale che lo incuriosiva morbosamente, ancorata ad un passato ormai quasi dimenticato e incredibilmente variopinta di costumi e strumenti ricavati da ciò che madre natura aveva da offrire.
Nacque così nel giovane Stravinsky l’idea di dedicarsi ad un brano in cui il tema chiave sarebbe stato quello del sacrificio umano in una civiltà pagana, una storia che avrebbe visto come protagonista una giovane vergine scelta dagli antenati come tributo per gli Dei della natura al fine di garantire un’altra stagione prosperosa… una fanciulla innocente che non viene salvata da nessun principe, ma al contrario danza fino alla morte, immolandosi per il futuro del proprio popolo.

Stravinsky, Nijinsky e Roerich spesero mesi di attento lavoro e ricerca per perfezionare gesti, costumi e suoni del balletto che aveva tutte le carte in regola per causare un enorme squarcio nel tessuto artistico europeo; e fu proprio questo il risultato che la prima esecuzione di questo capolavoro a tutto tondo ottenne.
La figura di Roerich, il quale aveva già collaborato con i Ballets Russes e vide nell’idea di Stravinsky qualcosa di estremamente stimolante, divenne quindi chiave per la miglior riuscita della Sagra della Primavera, essendo egli considerato il più grande esperto degli usi e costumi della Russia pagana, oltre che pittore di fama mondiale. L’immenso lavoro dietro Le Sacre du Printemps partì appena dopo la benedizione di Diaghilev e si svolse sin da subito come studio di natura antropologica. Stravinsky, Nijinsky e Roerich spesero mesi di attento lavoro e ricerca per perfezionare gesti, costumi e suoni del balletto che aveva tutte le carte in regola per causare un enorme squarcio nel tessuto artistico europeo; e fu proprio questo il risultato che la prima esecuzione di questo capolavoro a tutto tondo ottenne.
La consacrazione di un mito
Il Théâtre des Champs-Élysées, oggi cuore pimpante della vita culturale parigina, non era in piedi da nemmeno due mesi quando divenne epicentro della più grande rivoluzione culturale e musicale del secolo scorso.
Dopo un’inaugurazione e un primo mese di attività abbastanza mansueti, il teatro ospitò la quinta stagione dei Ballets Russes, iniziando con il tanto amato e conosciuto Oiseau de Feu il 15 maggio 1913, per poi introdurre – con grande anticipazione da parte del pubblico – il nuovo balletto targato Igor Stravinsky: Le Sacre du Printemps: Tableaux de la Russie païenne en deux parties, battezzato il 29 maggio 1913.
Gli aneddoti e le storie riguardanti il caos che pervase le pareti del teatro sin dalla prima nota del fagotto sono innumerevoli e molte di natura solo speculativa, l’unica cosa certa è che il lavoro dei quattro artefici della Sagra ottenne il risultato aspettato.
Il pubblico, per quanto affascinato dalla storia di un rituale pagano incentrato sul sacrificio, rimase a dir poco sconvolto dalle scelte artistiche di Nijinsky e Roerich. È tuttora infatti consuetudine pensare al balletto come un gradevole spettacolo per gli occhi, un tripudio di piroette e salti, di ballerini dai movimenti leggiadri e resi ancora più graziosi dalle calzamaglie attillate e dai tutù, il tutto addolcito dal soavissimo un-deux-trois di un’orchestra che elegantemente accompagna ogni movimento.
La Sagra della Primavera non regalò nulla di tutto ciò.

Il corpo di ballo, vestito con lunghissime, svolazzanti vestaglie e pelli animali ricordanti le antiche comunità sciamaniche degli Urali, era quasi sempre ancorato al pavimento del palco, quasi a rappresentare il forte legame che queste comunità avevamo con la terra e i suoi frutti. Nijinsky creò una coreografia fatta di movimenti legnosi, spasmodici e contorti oltremisura, concepita per ritrarre al meglio l’arcaicità di una tribù all’alba di un sacrificio umano, in un contesto dove l’unica autorità suprema risiedeva nell’infinita forza della natura. Il vero e ultimo chiodo sulla bara venne però posto dall’ideatore del progetto, Igor Stravinsky stesso.
Che suono ha una rivoluzione?
È inutile negare che l’aspetto più innovativo della Sagra della Primavera sia il nuovo mondo sonoro creato dal compositore russo. Stravinsky naturalmente sapeva che descrivere in note un tema così lontano dall’immaginario comune – così visceralmente tabù – avrebbe richiesto una serie non indifferente di compromessi, nonché la rottura di qualche schema.
L’introduzione e la scena iniziale vennero concepiti e scritti nella tanto amata Dacha di Ustyluh – prima sorgente di ispirazione e luogo in cui ebbe di nuovo modo di riconnettersi con le antiche radici musicali russe – ma la maggior parte del lavoro venne compiuto e portato a termine a Clarens, un quartiere della città svizzera di Montreux, dove Stravinsky prese in affitto una minuscola stanza dotata di sole tre cose: una finestra con vista sulle alpi, un pianoforte verticale scordato e una scrivania dove lavorò assiduamente fino alla termine della stesura.
Benché Le Sacre du Printemps sia nata come un’opera in cui più forme d’arte si danno rendez-vous in un rituale orgiastico sensoriale, la musica venne scritta dal compositore come un’entità a sé stante, una pagina incontaminata da qualsiasi fonte di ispirazione che non fosse prettamente di natura fonetica-melodica. Questo stato di totale asetticità mentale diede al compositore modo di esplorare, sperimentare e fondere vari tipi di linguaggio oltrepassando barriere armoniche, ritmiche e timbriche. Il risultato finale fu una Magna Carta musicale dalle proporzioni titaniche, a dimostrazione del fatto che trasformare una raffinata orchestra moderna in un’invasione di suoni preistorici era possibile.

Per ricreare fedelmente l’intensa natura dell’opera e l’arcaismo dei temi trattati, Stravinsky sapeva di aver bisogno di un arsenale di considerevoli dimensioni. Si servì quindi di un’organico di gran lunga più esteso di quello necessario per una più standard tessitura sinfonica.
Strumenti raramente usati come il clarinetto soprano e basso, il controfagotto e persino il güiro spagnolo furono aggiunte fondamentali a quella che era già un’orchestra dalle enormi dimensioni, non tanto per il loro potenziale supporto acustico, bensì per le particolarità che il loro timbro offriva nel creare sonorità nuove e più vicine possibili a quei canti ritualistici che il compositore immaginava. Lo stesso vale per strumenti considerati più standard, i quali vennero spinti da Stravinsky oltre i propri limiti, sempre con l’intenzione di scavalcare la convenzione al fine di creare qualcosa di nuovo e mai sentito prima.
Ne è testimonianza il celeberrimo solo di fagotto iniziale; una melodia tradizionale lituana intonata nel suo registro sovracuto che esterna lo strumento dal suo normale ruolo di supporto, donandogli delle nuove vesti che più lo fanno assomigliare ad un ausilio primitivo. Questa cantilena iniziale annuncia l’inizio disgelo che porterà alla stagione dei frutti e dell’abbondanza, nonché alla prima parte del balletto: l’Adorazione della Terra.
Precede l’apertura del sipario un continuo crescendo di cellule onomatopeiche affidate ai vari strumenti a fiato, a simboleggiare i suoni di una natura che lentamente sta riprendendo il suo corso. Nelle pagine introduttive è possibile infatti percepire canti d’uccello, gracidare di rospi, scorrere d’acqua e tutti quei suoni che quando sovrapposti catapultano l’ascoltatore all’interno di una scena di natura selvaggia. Al raggiungimento del primo picco sonoro (di tanti), il fagotto ritorna solitario riconducendo alla melodia iniziale, questa volta però facendo spazio ad un ostinato in pizzicato degli archi, i quali annunciano ufficialmente l’inizio della narrazione.
Con l’apertura del tendone Stravinsky da il via ad una narrativa musicale basata interamente su impulsi ritmici quasi spasmodici. Il famigerato “accordo della Sagra”, martellato per ben cinquantanove volte, non è infatti da considerarsi rivoluzionario per la sua novità armonica, bensì per l’apposizione irregolare e verosimilmente casuale degli accenti, i quali destabilizzano quello che altrimenti sarebbe un normale ritmo binario. Una musica di questo genere pare meno astratta quando inserita nel contesto che cerca di descrivere: una tribù pagana che, in previsione della neonata primavera, si cimenta in rituali di rapimento e antiche danze sciamaniche con il fine ultimo di scegliere colei che verrà sacrificata in onore della madre terra. Sul palco, i vari gruppi di ballerini si contorcono in balli di vita e di morte, saltano piegando le ginocchia e il collo in posizioni innaturali e si lasciano attraversare dall’energia e l’estasi dei vari crescendi che l’orchestra crea in modo del tutto organico.
La vera overdose sensoriale avviene, però, quando una processione scorta il vecchio saggio del villaggio al centro del palco e quest’ultimo, attraverso breve momento di silenzio seguito da un accordo sterile e privo di colore, benedice la terra con un bacio, dando inizio alla selvaggia Danza della Terra. Il rullare del tamburo introduce una gigantesca fanfara fatta di dinamiche estreme e cellule melodiche interrotte dai tanti spasmi delle percussioni, la quale si interrompe di punto in bianco chiudendo la prima parte della Sagra della Primavera. Nonostante a questo punto il caos creato dalla rivolta del pubblico fosse di gran lunga più rumoroso dell’orchestra, Diaghilev istruì il direttore Pierre Monteux a continuare con l’esecuzione come se nulla fosse, procedendo con la seconda parte del balletto: Il Sacrificio.

Il clima di queste pagine è ben più sacrale e mistico delle precedenti. Nel silenzio della notte – a monte di tutte le danze di festa avvenute durante il giorno – una serie di accordi lunari e frammenti melodici introduce la scena in cui le fanciulle del villaggio attendono con ansia il fatidico momento che deciderà il loro destino. Esse si muovono in cerchio una a fianco all’altra per poi disperdersi e ritrovarsi ancora, la tensione è resa tanto più palpabile dalle note di Stravinsky, il quale gioca con i vari colori dell’orchestra per rendere l’atmosfera ancora più lugubre.
L’energia lievita fino ad eruttare negli undici rintocchi del tamburo, i quali simboleggiano che il destino è finalmente segnato per colei che è stata scelta, dando così inizio ad un’ennesima frenesia musicale, fatta di impulsi ritmici e metriche irregolari in onore della Glorificazione dell’Eletta.
Dopo la brusca fine di questo caos e la solenne Evocazione degli Antenati, la giovane viene accerchiata da un gruppo di sciamani ricoperti di pelli d’orso, i quali le girano attorno con passo cadenzato dal sibilare del tamburello e un lontano ululato del corno inglese. Alla fine del gigantesco crescendo del Rituale degli Antenati e al conseguente ritorno ad una sonorità più contenuta, il clarinetto basso conduce, con un ultimo sprazzo di natura improvvisatoria, alla tanto attesa Danza Sacrificale.
L’eletta inizia a conseguire il suo destino, saltando disperatamente e contorcendosi in maniera disumana, traducendo in movimenti le contrazioni sonore della musica. In queste ultime pagine, Stravinsky abbandona completamente qualsiasi tipo di ausilio melodico e trasforma l’intera orchestra in un grandissimo strumento a percussione. I cambi di metrica ad ogni battuta, le sonorità estreme e silenzi inaspettati sono tutti trucchi usati dal compositore per rendere ancora meglio l’idea di una ballerina che piano piano sta esaurendo la sua coordinazione a causa dell’esaurimento fisico, cosa che sovverte ancora di più l’idea ormai sepolta del balletto “classico”.
Alla fine della danza sacrificale, il cuore dell’eletta – messo brillantemente in musica attraverso l’uso incessante delle percussioni – smette di battere e quest’ultima finalmente si accascia a terra, emanando un ultimo respiro sotto forma di volata ascendente dei flauti. Il sipario si chiude definitivamente in un ultimo impeto d’azione da parte degli sciamani, i quali sollevano velocemente il corpo della giovane spezzandole il collo – suono ricreato grazie all’ausilio del già citato güiro – e concludendo la narrazione con un secco accordo con al basso le note RE-MI-LA-RE… ironicamente “D-E-A-D” in notazione anglosassone.
I libri e gli aneddoti riguardanti Le Sacre du Printemps sono tanti ed è impossibile negare che la rottura creata da essa sia stata la più grande rivoluzione della musica moderna, ma in fin dei conti il modo migliore per capire queste fantastiche pagine è ascoltarle nella loro interezza e lasciarsi pervadere da quel sentimento elettrico e primordiale che ancora oggi, come quel lontano 29 Maggio 1913, non fallisce nel lasciare l’ascoltatore senza fiato.