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Tradizione e innovazione in Bartók

di Gabriele Toma - 15 Febbraio 2018

L’innovazione apportata da Bartók al mondo della musica per così dire “colta” non sarebbe stata possibile senza l’interiorizzazione di elementi mutuati dalla tradizione –  o meglio da diverse tradizioni –  che hanno costituito l’humus della sua sperimentazione stilistico-formale. Tanto lo studio della musica popolare ungherese nelle sue mille sfaccettature quanto quello della tradizione musicale mitteleuropea (da Bach a Beethoven a Strauss, fino ai compositori contemporanei) hanno portato Bartók a sintetizzare grammatiche e sintassi del tutto originali, soluzioni espressive e formali ancora sconosciute, in breve: il proprio stile.

Tale stile, nell’arco della sua evoluzione complessiva, ha rappresentato una delle tante possibili strade per lasciarsi definitivamente alle spalle la pesante eredità del Romanticismo, senza però da un lato rinunciare del tutto ad una concezione “tonale” della musica (divergendo concettualmente dal serialismo e dalla dodecafonia) e dall’altro abbattendo la barriera suono-rumore attraverso l’uso della percussione e delle tecniche estese sugli strumenti tradizionali.

Oltre ad aver aperto nuovi orizzonti musicali, il merito di Bartók è senza dubbio quello di aver valorizzato la ricchezza delle diversità etniche, definendo una metodologia di indagine etnomusicologica, al fine di abbattere i pregiudizi di stampo classista che vedevano la musica popolare come “bassa” e quindi indegna di interesse da parte degli accademici.

Béla Bartók si formò sulla tradizione musicale occidentale presso l’Accademia Reale della Musica di Budapest, come dimostrano le influenze romantiche sul primo stile bartokiano, denominato dallo stesso autore come il periodo della “rivelazione straussiana”. Attraverso le Rapsodie ungheresi di Liszt e le Danze ungheresi di Brahms, Bartók si avvicinò allo stile ungherese: capì presto –  grazie alle sue indagini etnomusicologiche – che quella musica strumentale era assimilabile al repertorio flolkloristico più che a quello folklorico, a quello stile “urbanizzato” e pseudo-ungherese ispirato al verbunkos. Sempre nell’ambito pianistico i suoi riferimenti furono Ferenc Erkel e, con alcune riserve, Ernő Dohnányi, epigoni a loro volta dello stesso Liszt, il cui sapore si ritrova compiutamente, con esito fresco e schietto, nella Rapsodia op.1 per pianoforte e orchestra.

È in ambito sinfonico che emerge l’influsso di Strauss e Brahms, riscontrabile nel poema Kossuth che, con una vena beethoveniana di “pessimismo eroico”, narra la storia dell’eroe nazionale ungherese Lajos Kossuth. Tale influsso è riscontrabile inoltre nelle due Suites per orchestra op. 3 e 4 (1905 – 1907), ma anche, in realtà, nel balletto Il principe di legno del 1915, per quanto quest’opera sia un ibrido stilistico:

[…] inizia con una graduale espansione della triade di Do maggiore (con l’aggiunzione del fa diesis) che, con fare wagneriano, coinvolge l’intera orchestra per continuare con episodi la cui orchestrazione rivela influssi di Strauss, dello Stravinskij dell’Uccello di fuoco e persino del Sacre du printemps (nella scena della lotta del principe con gli alberi), senza ignorare la lezione debussyana.

GIANFRANCO VINAY, Il Novecento nell’Europa orientale e negli Stati Uniti, Torino, edt 1991, (Storia della Musica a cura della Società Italiana di Musicologia.

Questa “lezione debussyana” risulterà ancora più evidente nell’opera di Bartók Il castello di Barbablù (1915), che, sulle orme del Pèlleas et Mèlisande, ripropone i raffinatissimi impasti timbrici del gusto francese fin de siècle, le atmosfere oniriche e un po’ livide del simbolista dramma di Balász e l’utilizzo di linee vocali basate sulle inflessioni del linguaggio, adattate ovviamente alla lingua ungherese.

Le prime indagini etnomusicologiche, condotte con tale rigore metodologico da inaugurare de facto una nuova disciplina, Bartók le svolse tra il 1905 ed il 1906 insieme al suo sodale Zoltán Kodály con il sostegno materiale e morale della Classe Etnografica del Museo Nazionale. Il reperimento in loco di materiale musicale autentico portò alla composizione delle Venti canzoni popolari ungheresi (1906).

Il motivo per cui Bartók si interessò proprio al repertorio più autenticamente popolare, vale a dire alla canzone moderna rurale detta új stílúsú népdal, più ancora che a quello popolaresco e urbanizzato chiamato magyar nóta, è presto detto con le parole dello stesso Bartòk nei suoi “Scritti sulla musica popolare”:

Questo tipo di musica, infatti, è certamente, dal punto di vista formale, quanto di più perfetto possa esistere. Ha poi un’enorme forza espressiva, ed è nello stesso tempo priva di qualsiasi sentimentalismo, come di ogni inutile orpello: a volte, anzi, è così semplice da sembrare addirittura primitiva (non già banale però!).

La scelta di armonizzare delle melodie preesistenti viene paragonata dallo stesso Bartók al metodo utilizzato da Bach per la composizione dei Corali: tale scelta trova così piena legittimazione di fronte alle critiche un po’ snobistiche che consideravano l’armonizzazione di materiale dato come mero esercizio scolastico, privo di alcuna valenza estetica. D’altra parte lo Stravinsky del periodo russo aveva risolto ancor più sbrigativamente la faccenda omettendo del tutto le proprie fonti, senza dare dunque modo di capire quali temi fossero autenticamente folklorici e quali fossero invece di sua invenzione.

Solo due anni dopo, con le Quattordici Bagatelle per pianoforte (1908) Bartók può dirsi emancipato dal Romanticismo, per quanto comunque una sua originale impronta stilistica sia riscontrabile in nuce anche precedentemente, e per quanto la piena assimilazione del linguaggio folklorico richiederà ancora almeno un altro decennio (le Otto improvvisazioni su temi popolari ungheresi sono del ‘20).

Ciò che colpisce dello stile bartokiano è l’ambiguità melodica e armonica, frutto di un calcolatissimo equilibrio tra sistemi scalari differenti: dei segmenti melodici volutamente ambigui fanno da ponte tra scale diatoniche, anemitonali e ottatoniche. Ad esempio nella prima frase della prima Bagatella la melodia disegna, nell’ambito di una quinta, una scala di Do diesis minore, mentre già nella seconda frase la scelta degli intervalli melodici restituisce all’orecchio un colore pentatonico. Il tutto mentre le armature di chiave sono in una finta politonalità (il rigo superiore suggerisce un do diesis minore, mentre quello inferiore un Fa minore), che nulla a che vedere con quella di Stravinsky, ma denota di fatto il modo di Do frigio (Do-Reb-Mib-Fa-Sol-Lab-Sib) “colorato” dai cromatismi che si formano con le note non in comune tra i due modi indicati precedentemente in chiave (Mi naturale, Fa diesis, Si naturale).

Attraverso l’inversione e collocando questi accordi modali in giustapposizione l’uno sull’altro, si ottengono molti differenti accordi e con quelli il trattamento più libero della melodia e dell’armonia dei dodici suoni del nostro sistema armonico contemporaneo… naturalmente molti compositori stranieri, che non si fondano sulla musica popolare, hanno raggiunto risultati simili solo attraverso una via intuitiva o speculativa, il che naturalmente è egualmente legittimo, la differenza è che noi creiamo attraverso la Natura…

B.BARTÓK, Scritti sulla musica popolare, in ELLIOTT ANTOKOLETZ, The Musical Language of Bartók’s 14 Bagatelles for Piano, “Tempo (New Series)”, 137, giugno 1981″

Il principio compositivo bartokiano è basato sull’elaborazione di cellule intervallari: nella seconda bagatella ad esempio l’intervallo centrale è la seconda maggiore, nella n.6 è la quinta vuota, nella n. 9 l’unisono, nella n. 11 la quarta. Questo espediente, da cui germinano cellule tematiche di beethoveniana memoria, sarà ancor più ampiamente e scopertamente adoperato nei Quartetti, di cui addirittura il primo (1908) sembra citare il contorto inciso cromatico del Quartetto op. 131 di Beethoven.

Dal punto di vista ritmico, le inflessioni della lingua ungherese hanno aperto a Bartók prospettive altrettanto interessanti: dal momento che le parole ungheresi hanno sempre l’accento sulla prima sillaba, si vengono a creare numerosissime sincopi, paragonabili alle “sincopi scozzesi”, che conferiscono vitalità alla musica. Un po’ il contrario di quanto avviene nella musica “colta” occidentale, definita da Bartók, forse non senza una punta di ironia, “musica seria”. Anche la ripetizione della stessa nota a valori progressivamente diminuiti della Bagatella n. 12 (richiamata anche nell’attacco dello xilofono nella Musica per corde, percussioni e celesta del 1936) ha una funzione ritmico-timbrica rimarchevole: evoca infatti lo strumento a percussione tipico della musica popolare ungherese noto come cimbalom.

Al discorso ritmico si accompagna anche quello timbrico poiché la dissonanza in Bartók è usata simultaneamente “come sferza ritmica e accento timbrico” (Vinay, 1981): è il caso del motivo “barbarico”. Nell’Allegro barbaro del 1911 il compositore afferma un nuovo modo di intendere il pianoforte, decisamente antiromantico, esaltandone la natura percussiva.

Nella Suite op. 14 (1916) si ha la prima sintesi in ambito pianistico (che è poi l’ambito entro cui, nel suo primo periodo, Bartók raggiunge l’apice di innovazione del linguaggio musicale) delle sue diverse e coerenti soluzioni espressive: il primo tempo (Allegretto) è infatti una danza rumena stilizzata, il secondo ed il terzo (Scherzo e Allegro molto) esaltano l’aspetto ritmico-percussivo del pianoforte mentre il quarto (Sostenuto) è invece una sequenza di clusters statici su cui aleggiano frammenti melodici quasi sospesi in un’atmosfera plumbea e spenta. Quest’ultimo mood fatto di atmosfere “notturne” troverà piena maturazione espressiva e tecnica nell’ultimo brano della Suite All’aria aperta (1926), chiamato appunto Musica della notte, e nell’Adagio religioso del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra (1946).

Bartók non era un fervente religioso, ma doveva amare la Natura “in tutte le sue manifestazioni” – come testimoniano le memorie di suo figlio – se arriva a farsi vanto di comporre “secondo Natura”.  Forse è anche da questo che muove la sua indagine etnomusicologica, l’esplorazione cioè delle produzioni musicali di quei popoli contadini, profondamente radicati nel territorio e dunque in armonia con la Natura: sappiamo che Bartók viaggiò molto per reperire in loco canti ungheresi, slovacchi, romeni, ruteni, serbi, bulgari, zingari.

Secondo Bartók il canto popolare era un “fatto di natura”, e conteneva “tesori spirituali quasi inaccessibili all’uomo civilizzato. Questa concezione è frutto di un’impostazione “che oggi appare quasi ingenua” alla studiosa Maria Grazia Sità, ma spesso sono proprio i concetti più semplici, quelli che appaiono quasi ingenui, a celare importanti verità: oggi, nell’epoca della società “liquida” nella quale viviamo, in cui la logica del capitalismo globalizzato produce estrema mobilità sociale e finanziaria, impone ritmi di vita frenetici e causa profonda alienazione individuale, il tutto spacciato come “civiltà” e “progresso” dagli operatori della “videosfera”, la presa di posizione bartokiana appare tutt’altro che ingenua. Appare, al contrario, profetica e di un’attualità disarmante sia che per “civilizzato” si intenda il semplice cittadino occidentale immerso nelle condizioni di cui sopra, sia che si intenda – come purtroppo spesso si intende, anzi si sottintende – l’occidentale etnocentrico e snob nei confronti di ciò che attiene ai “popoli”.

Ebbene sì, determinati tesori spirituali risultano quasi inaccessibili tanto ai primi, per le condizioni di alienazione cui loro malgrado sono sottoposti, tanto ai secondi, semplicemente perché non hanno alcun interesse ad accedervi. Quest’ultimo è poi il tipico atteggiamento delle élites che, chiuse in sé stesse, determinano nei propri alti consessi cosa debba essere “ufficiale” e cosa no, tanto da giungere, oggi più che mai, a demonizzare il popolo e ogni tentativo di tutelarlo. Proprio contro questa mentalità ha avuto a suo tempo la meglio il nostro Bartók, che pure fu a lungo osteggiato dai rappresentanti della musica “colta” di tradizione occidentale.

L’unica parentesi “urbana” di Bartók è il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, quando dovette interrompere le proprie indagini etnomusicologiche e si confrontò con l’espressionismo europeo: nacque il balletto Il mandarino meraviglioso (1918-19). Quest’opera si discosta nettamente dai precedenti lavori per teatro, avvicinandosi maggiormente agli stili di Stravinsky e di Schönberg. Il tema, la violenza dell’impulso sessuale, è trattato musicalmente con un selvaggio parossismo di percussioni e dissonanze, con una saturazione sonora ottenuta attraverso glissandi pianistici, trilli dei legni e armonie quartali, con sonorità tanto più aspre quanto più suadente risulta il motivo della seduzione, un sinuoso arabesco affidato al rotondo timbro del clarinetto.

La censura moralistica di questa storia a tinte forti di  Melchior Lengyel, che parla di prostituzione, furto e omicidio, ha impedito la rappresentazione dell’opera fino al 1926. Anche la scelta di una trama realistica e simbolica allo stesso tempo, con la presenza addirittura di elementi fiabeschi, non trovò grande sostegno tra i contemporanei, ad eccezione di Ferruccio Busoni.

Con la maturazione del proprio stile, Bartók sentì ad un certo punto la necessità di volgersi verso strutture di ampio respiro, che potessero contenere e arginare la straripante vitalità delle sue intuizioni ritmiche e timbriche, ormai consolidate. Nella Sonata e nel Concerto per pianoforte e orchestra del 1926 le cellule melodiche divengono più concise, e l’architettura formale assume un impianto più razionale, sulla scia del Neoclassicismo di quegli anni. La percussività pianistica dell’Allegro barbaro viene sperimentata nel Concerto sugli archi, dei quali Bartók inizia ad esplorare le possibilità espressive attraverso tecniche estese (pizzicati, suono simultaneo di corde tastate e vuote, colpi con il legno dell’archetto).

La sperimentazione ritmico-timbrica trova il suo apice espressivo nella Musica per archi, celesta e percussioni (1936) e nella Sonata per due pianoforti e percussioni (1937), in cui la frenesia parossistica viene controbilanciata da un adeguato sistema di proporzioni architettoniche: le entrate dei temi, le tonalità, i tempi sono disposti tutti secondo rigidissimi principi di simmetria.

Invero già con il terzo Quartetto (1927) la macrostruttura rispecchia l’ideale di simmetria già osservato nelle microstrutture, poiché il materiale tematico del primo movimento viene richiamato nel quarto mentre le cellule del secondo vengono elaborate nel terzo. Nel quarto Quartetto (1928) Bartók perviene ad una struttura simmetrica in cinque tempi, detta “a ponte”: A-B-C-B’-A’, laddove A è un Allegro, B un Prestissimo, C un Non troppo lento, B’ un Allegretto pizzicato, A’ un Allegro molto. Dal punto di vista della disposizione dei tempi lenti e di quelli veloci, si può chiaramente individuare l’ossatura della forma-sonata classica, adombrata già nella Sonatina del 1915. Nel Quinto Quartetto questa disposizione risulta invertita: A (Allegro), B (Adagio molto), C (Scherzo), B’ (Andante), A’ (Finale).  Proprio come i maestri barocchi, Bartók ricerca meticolosamente, nell’accostamento di tempi lenti e veloci, di atmosfere statiche e concitate, l’equilibrio formale,

l’organizzazione di una materia sonora così vitale che, se non viene imbrigliata in una forma complessa, quasi organismo vivente, tende ad affermare un proprio carattere, rendendo il compositore irresponsabile del proprio atto creativo.

È in questo aspetto, ancor più che nella scrittura contrappuntistica, alquanto libera, che si esprime al massimo grado il Neoclassicismo bartokiano, che non intacca minimamente l’anima pur sempre “barbarica” del compositore, ma anzi ne convoglia l’energia in direzione della maggiore fruibilità possibile. Le proporzioni auree individuate da Lendvai nelle architetture musicali bartokiane – che tanto successo riscossero presso la critica nel secolo scorso, suffragate dall’amore di Bartók per la Natura – sembrano, alla luce degli studi di Somfai, essere frutto più che altro di procedimenti inconsci, di un istinto naturale tendente all’equilibrio. Dopotutto, negli scritti, appunti e studi preparatori lasciatici da Bartók, non c’è traccia di specifici sistemi aritmetico-geometrici secondo cui strutturare i brani.

La conoscenza della musica popolare spinse perfino Bartók ad utilizzare note estranee al sistema temperato: nel Sesto Quartetto (1939) compaiono sfasature di quarti di tono che ricordano il satanismo stravinskyano e anticipano la micropolifonia di Lygeti, il quale amerà tanto il compositore ungherese.

L’avvicinamento alla tradizione europea si fece ancora più netto nel “periodo americano” di Bartók, forse proprio per la nostalgia della terra natìa: nel terzo Concerto per pianoforte (1945) viene scopertamente citato il Quartetto op. 132 di Beethoven con straziante commozione. Più ironica è invece la citazione del tema della Settima Sinfonia di Shostakovich nel famoso Intermezzo interrotto.

La figura di Bartók ha saputo coniugare la tradizione colta e quella popolare, ha saputo ricorrere alla totalità cromatica non attraverso le elucubrazioni di un Webern o di uno Schönberg ma attraverso una via empirica, ha abbattuto la barriera tra suono e rumore. Interprete di un nuovo classicismo, Bartók – proprio come Beethoven – vede nel musicista un individuo eticamente impegnato, realizzatore di un contenuto morale di interesse sociale, che esprime con sincerità i propri sentimenti e i propri ideali. Notevole è anche l’impegno didattico di Bartók, che con il metodo progressivo Mikrokosmos ha formato ad oggi almeno tre generazioni di pianisti, e continua a formarne. Pur incasellato sbrigativamente nell’etichetta di “nazionalista” per aver promosso la musica ungherese, Bartók ha in realtà lottato sempre per abbattere i pregiudizi razzisti legati al concetto di “etnia” e quelli classisti legati al concetto di “popolo”, tanto da portare all’attenzione del mondo una scienza, l’etnomusicologia, tesa a scandagliare e comprendere le connessioni che sussistono tra i diversi popoli e le rispettive musiche. Perché è nell’espressione artistica di sé che l’essere umano conosce la più alta forma di vita e trova il proprio posto nell’universo della Natura.

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