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Vestiti, aglio e belletti. Al mercato con Luciano Berio

di Willy Bettoni - 31 Marzo 2017

Le grida di Londra, o meglio, i gridi, perché quasi animalesche e disperate sono le voci che si levano dalla piazza del mercato.

«Cries of London, per otto voci (due soprani, due contralti, due tenori, due bassi) è la rielaborazione di una composizione omonima a sei voci (due contralti, un tenore, due baritoni e un basso) che ho scritto nel 1974 per i King’s Singers. In questa nuova versione i Cries of London sono diventati un breve ciclo di sette pezzi vocali di carattere popolare, dove un pezzo semplice si alterna in modo regolare a un pezzo musicalmente più complesso. Il primo e il terzo «Cry» hanno lo stesso testo. Il quinto «Cry» è l’esatta ripetizione del primo. Il settimo pezzo, «Cry of Cries», è un commento ai «Cries» precedenti: pur usando le stesse melodie e gli stessi caratteri armonici, musicalmente se ne allontana e li ricorda a distanza…

Nell’insieme questo breve ciclo può anche essere ascoltato come un esercizio di caratterizzazione e di drammaturgia musicale. Il testo è essenzialmente una libera scelta delle famose frasi dei venditori nelle strade della vecchia Londra» [Luciano Berio, 1976]

Non stiamo parlando della preoccupazione di parte dei britannici per la cosiddetta Brexit, che proprio in questi giorni inizia il suo percorso, che comunque giustificherebbe le urla, ma dei Cries of London di Luciano Berio. Brano semplice, come egli stesso scrive, un esercizio di stile, eppure in grado di racchiudere nella sua semplicità linguaggi differenti e di abbracciare con uno sguardo l’intera Europa, o almeno parte di essa. Perché pur essendo un brano contemporaneo le sue radici affondano in un passato anche piuttosto lontano. Come osserva giustamente Alessandro Solbiati, è possibile rintracciare una fonte pittorica e una fonte musicale. Tuttavia, la fonte pittorica appare essere piuttosto incerta dato che rappresentare su tela i venditori ambulanti durante il XVIII secolo era cosa abbastanza comune, soprattutto in terra inglese. Esistono infatti numerose testimonianze di questa pratica e numerosi sono gli artisti più o meno noti che si sono cimentati con questo soggetto. La rilevanza del tema del mercato è testimoniata ancora nei primi anni del ‘900 da una serie di riproduzioni dei dipinti originali che alcune marche di tabacco accludevano ai pacchetti di sigarette Tuttavia, la fonte pittorica dalla quale più verosimilmente ha attinto Berio è quella della serie di stampe dal titolo Cries Of London Done From The Life ad opera di Paul Sandby e date 1760. Si tratta di 12 immagini che riproducono altrettanti venditori intenti a vendere le loro mercanzie; ogni stampa è accompagnata da una frase, verosimilmente il loro cry, in inglese e in francese. Tuttavia non è certo che Berio si sia ispirato proprio a questo autore ed è quindi preferibile lasciare la questione aperta.

Più sicura è invece la fonte musicale. Si tratta di una composizione di Clément Janequin dal titolo Les cris de Paris ed evocante appunto i gridi che si alzavano dalla piazza del mercato di Parigi. Questa Chanson fu composta introno al 1528-1530, anche se alcune fonti riportano una datazione più tarda, intorno al 1545-1547. La produzione di Janequin conta più di 250 Chanson, per lo più a quattro voci. In queste composizioni utilizza spesso suoni della natura, o suoni evocanti battaglie o ancora tratti dalla quotidiana vita cittadina, come, appunto, il mercato. Prima di procedere con l’ascolto dell’opera di Berio, consiglio vivamente di avvicinarsi al brillante brano del curato francese di cui è possibile rintracciare qualche eco nei Cries of London, soprattutto per quel che riguarda la struttura. Così come la composizione di Janequin, anche quella di Berio si apre con un prologo il cui testo è scritto dal compositore. Nella chanson questo è rappresentato dalle parole Voulez-vous ouyr les cris de Paris? (Volete ascoltare i gridi di Parigi?), mentre nel brano del compositore ligure sono i versi These are the cries of London town some go up street, some go down (questi sono i gridi della città di Londra, alcuni salgono per le strade, altri scendono). In entrambi i casi il prologo è seguito dal canto dei vari venditori ambulanti.

Riassumendo quanto detto finora, le fonti in mano a Berio sono una pittorica di area inglese, l’altra musicale di area francese. La prima ci riporta nelle atmosfere del ‘700, la seconda ci porta indietro di altri due secoli, nella Parigi del ‘500. Questo dato non è rilevante solo dal punto di vista storico, cioè ci riporta una tradizione, quella del mercato, che unisce tutte le città europee, ma è rilevante anche dal punto di vista musicale; Janequin non fu certo l’unico compositore a sfruttare questo tema e il genere della chanson. Ed è proprio la chanson, genere di chiara origine popolare e legata alla trasmissione orale che crea un collegamento tra questa e la musica d’arte, relazione sempre fruttuosa nel corso della storia della musica e questa crea a sua volta un ponte che collega idealmente il rinascimento e la musica popolare a Luciano Berio. Perché il compositore ligure non fu solo un rappresentante dell’avanguardia italiana, un pioniere della musica elettronica (fondò a Milano con Bruno Maderna lo Studio di fonologia musicale della RAI nel 1954), ma fu anche, anzi forse soprattutto, una persona curiosa, un ricercatore che non si limitò a guardare ai linguaggi tradizionali della musica d’arte, ma si spinse sempre oltre, facendo rientrare nel suo orizzonte conoscitivo le più disparate fonti musicali, dai Beatles ai canti popolari. In proposito vorrei citare le Beatles songs (1967) e le splendide Folk songs (1964). Rilevante da questo punto di vista è il matrimonio con Cathy Berberian, altra artista che non riuscì a sottrarsi alla Beatlemania. Ma l’interesse di Berio per la canzone, per la musica popolare, nasce soprattutto dall’amicizia con alcuni dei maggiori etnomusicologi dell’epoca, tra i quali Simha Arome e Diego Carpitella e soprattutto Roberto Leydi, di cui Berio scrive:

«Roberto Leydi l’ho conosciuto da sempre, prima ancora di incontrarlo negli anni Cinquanta, quando si lavorava, con Jacques Lecoq, a Mimusique. Tre modi per sopportare la vita o, con Bruno Maderna, si lavorava a Ritratto di città nel nascente Studio di Fonologia della RAI a Milano. L’ho conosciuto da sempre perché una parte di me, non so bene quale, è forse cresciuta e nata con lui»

Della collaborazione tra i due è giusto ricordare l’opera Questo vuol dire che… del 1968 composta a partire da testi provenienti da differenti paesi e realizzata grazie alla collaborazione di vari artisti, tra cui è giusto menzionare, oltre alla già citata Chaty Berberian, Edoardo Sanguineti, Sandra Mantovani e Henri Pousseur. Per questi motivi la musica di Berio unisce spesso elementi e tecniche arcaiche e classiche, della tradizione popolare e della tradizione colta, alle più ardite sperimentazioni elettroniche, sempre alla ricerca di quella «commistione di linguaggi, di quella simultaneità del non contemporaneo che dà forma alla cultura moderna»; un linguaggio veramente europeo, in grado di tenere insieme, di comprendere, tradizione e sperimentazione, passato e futuro, musica popolare e musica d’arte. D’altro canto il compositore sosteneva che non esiste musica contemporanea e musica antica perché «la musica è sempre contemporanea di chi l’ascolta». Con questa idea dobbiamo avvicinarci ai Cries of London che ora andiamo a vedere un po’ più da vicino.

Quindi, è con un orecchio aperto e attento che ci si deve avvicinare a questa composizione, ricercandovi elementi della canzone popolare, della chanson francese e del più moderno ‘900. Andiamo ora ad analizzare più da vicino questo breve brano. La prima versione appare nel 1974 ed è dedicata ai King’s Singers; la seconda versione, quella che qui analizziamo, è di due anni successiva ed è dedicata ai Swingle singers. La differenza tra le due versioni risiede nell’aggiunta di un brano conclusivo e nella revisione dei vari cries e nell’aggiunta di un tenore e di un basso. La struttura è molto semplice: i numeri 1, 3 e 5 sono il commento dell’autore e hanno quasi la stessa funzione della promenade dei Quadri di un’esposizione di Mussorgski: il primo funge da introduzione e ci accoglie nell’atmosfera del mercato, il secondo e il terzo ci portano da una bancarella all’altra. Il testo di questi brani è stato scritto da Berio e recita semplicemente These are the cries of London town some go up street, some go down. I numeri pari, 2, 4 e 6, sono i gridi veri e propri e sono basati verosimilmente sulle parole che potevano essere realmente udite attraversando il mercato di Londra. L’ultimo brano, il numero 7, aggiunto nella versione del 1976, è la somma di tutti i precedenti, per cui sentiamo risuonare per le strade il testo del prologo/refrain, che qui diventa una conclusione, mescolato con i vari gridi. Dopo aver presentato tutti gli elementi singolarmente, Berio, con quest’ultimo, crea un vero e proprio mercato sonoro. Torniamo però ad occuparci del prologo. Questo si presenta con una melodia dal sapore antico, rispecchiando la sonorità di Janequin, ma ad un ascolto più attento sentiamo emergere con evidenza delle dissonanze tipicamente novecentesche. Questo primo brano, come il terzo, che è una leggera variazione, e il quinto che è la ripetizione testuale del primo, è costruito su un accordo per quarte: i tenori intonano i versi iniziali a distanza di quarta (si – mi) e su questa si inseriscono i soprani, sempre a distanza di quarta (la – re). Quindi, l’accordo sul quale i contralti intonano la melodia è composto dalle note si–mi–la–re, dalla sonorità decisamente novecentesca. Da Schönberg a Hindemith, a Debussy, tutti i grandi del ‘900 utilizzarono in vario modo le possibilità offerte dagli accordi per quarte. Non bisogna dimenticare, però, che il tetracordo è alla base anche dei modi gregoriani. Così facendo Berio conferisce una sonorità antica al brano, riportando idealmente l’ascoltatore a vivere l’atmosfera di un antico mercato. Per ottenere questo risultato affida alla linea del contralto una melodia basata sulle note, che Solbiati definisce «diatonicissime», mi–fa diesis–sol–la. Interessante è notare che questo tetracordo compreso tra le note mi – la fa parte dell’accordo base si–mi–la-re costruito dalla linea del tenore e del soprano. I bassi, ultimi ad entrare, tengono un fa diesis per le prime battute, per poi iniziare a muoversi cromaticamente, come per creare un contrasto moderno con la melodia del contralto. Prima di passare a vedere come Berio gioca con le parole e con la musica nei tre cries vorrei far notare una particolarità del terzo brano. Qui la linea melodica principale è affidata al basso e viene contrappuntata prima dai tenori e poi dai soprani, come a riprodurre il chiacchiericcio delle vie del mercato. Impossibile non notare come il basso parta da una tessitura medio alta per spingersi sempre più sul grave, fino a far spegnere la melodia in un colpo di tosse. Questo non serve solo per accentuare il significato delle parole, anche perché la parola down non viene più cantata dai bassi nella loro discesa, ma è decisamente un espediente teatrale. Berio ricrea in tal modo l’atmosfera del mercato; per il troppo gridare i venditori ambulanti, stremati e senza voce, finiscono per tossire.

Passiamo ora ad analizzare i gridi dei venditori ambulanti. Se la musica della promenade sfrutta sonorità antiche, quella dei cries suona decisamente più moderna e dissonante. Questo crea un chiasmo tra il testo moderno e la musica “arcaica” del refrain e il testo antico e la musica moderna dei cries. Sono tuttavia convinto che questa non fosse l’intenzione primaria di Berio, ma che il compositore volesse ricreare l’atmosfera del mercato, dove le voci delle persone e i gridi dei venditori non sono certo accordati e si mescolano casualmente, creando così strane combinazioni armoniche e di registro. Il primo cry porta il titolo Where are ye fair maids ed è il grido del venditore di cosmetici:

Where are ye fair maids that have need of our trades?
I sell you a rare confection.
Will you have your face spread
either with white or red?
My drugs are no dregs
for I love the white of eggs
made in rare confection.
Will ye buy any fair complexion?

Il testo è cantato alternativamente da tenori e contralti, mentre soprani e bassi formano intorno una folla stupita e vociante. L’uso delle voci estreme (bassi e soprani) crea acusticamente l’idea di un assembramento di persone che circonda fisicamente i venditori. Inoltre, i soprani rappresentano sicuramente le donne intente ad ammirare i belletti e da essi affascinate, mentre i bassi potrebbero rappresentare, con i loro borbottii, uomini scettici di fronte alla mercanzia. Questo è accentuato dal fatto che le voci esterne non cantano alcun testo, ma Berio affida loro solo alcune vocali, proprio a simulare lo stupore per farci immaginare la scena come in un pezzo di teatro. Il secondo cry sfrutta ancora di più le possibilità onomatopeiche della voce. Il titolo di questo brano è Garlic, good garlic:

Garlic, good garlic
the best of all the cries.
It is the physic
‘gainst all the maladies.
It is my chiefest wealth,
good garlic for the cry.
And if you lose your health
my garlic then come buy,
my garlic come to buy.

Benché possa sembrare strano che in un mercato esista un venditore ambulante di aglio, Berio potrebbe essersi ispirato ad un’immagine simile alla sottostante e raffigurante un venditore di cipolle in un mercato inglese.

Berio scompone la parola garlic in modo da prolungare il più possibile la vocale “a” (ga-aah), proprio a simulare il soffio del venditore (tenore), come se attraverso la musica potesse ricreare fisicamente l’olezzo di aglio che l’ambulante emana. Esso è accompagnato da una voce femminile (soprano) che esalta le proprietà curative dell’erba che è rimedio ad ogni male. Ironico è anche il verso good garlic for the cry, dove la parola cry può essere intesa sia come grido, sia come pianto. Probabilmente l’erba è tanto buona per chi grida, tanto quanto lacrimogena per gli astanti. Vocali aspirate e testo dal chiaro significato ironico fanno di questo secondo grido quasi un pezzo da cabaret più che di musica “seria”. D’altronde questa è una distinzione priva di significato per Berio, il quale riteneva la musica un «fenomeno così incredibile, avvolgente […] enorme, che sta intorno a noi, dentro di noi, prima di noi e davanti a noi». L’ultimo cry, il sesto numero dello serie, è, dal punto di vista vocale il più complesso e porta il titolo di Money, penny come to me:

Money, penny come to me
I sell old clothes.
For one penny, for two pennies
old clothes to sell.
If I had as much money
as I could tell
I never would cry
old clothes to sell.

Questo è il grido del venditore di vecchi vestiti, che più onestamente degli altri, fa sommessamente notare che se avesse soldi non sarebbe costretto a fare questo lavoro, a urlare/piangere. Berio descrive l’eccitazione dell’ambulante e la sua brama per il denaro con un espediente musicale che ha del geniale. Come un mantra le voci intonano le parola money e penny alternativamente (soprani e tenori cantano money – penny mentre contralti e bassi cantano penny – money) ad una velocità impressionante, rendendole quasi irriconoscibili nella tessitura. Questa litania si spegne lentamente e compare così il primo grido intonato dal contralto, contrappuntato dal basso. Questo costituisce una sorta di introduzione, di preparazione per il vero grido, questa volta affidato al tenore, che prorompe improvvisamente nella musica con un acuto di non facile intonazione. Il ritorno della litania money, money, money ci conduce alla fine del brano e arriviamo così all’ultimo numero della serie dal titolo Cry of cries che riassumente sia dal punto di vista musicale che testuale tutti i brani precedenti, come un’eco ancora udibile del mercato che il visitatore si è ormai lasciato alle spalle. Concludendo, questo è un brano dal carattere decisamente folkloristico; infatti, anche la vocalità richiesta non è certo quella di stampo lirico. Per questo Berio lavora prima con i King’s Singers e poi con i Swingle Singers, per la loro capacità di adattamento a differenti tipi di vocalità, da quella classica a quella pop, folk e jazz e, forse, anche per la loro propensione a giocare, a divertirsi con la musica.

Willy Bettoni


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