Ultimo aggiornamento17 giugno 2025, alle 12:39

Berio e il tempo: Ipotesi di meteorologia musicale

di Redazione - 26 Maggio 2025

QPArena è il primo spazio online pensato per dare ai professionisti della musica l’opportunità di esprimersi in prima persona: un intervento, sotto forma di lettera aperta, che permetta ad artisti di tutte le generazioni e le sensibilità di esprimersi e rivolgersi in prima persona al loro pubblico, che in questo caso è anche il nostro pubblico. Oggi possiamo contare sulla riflessione di Marco Uvietta, nato a Bolzano nel 1963, è un compositore e musicologo italiano. Docente di Musicologia e Storia della Musica presso l’Università di Trento, ha curato edizioni critiche di opere di Verdi e Bellini. La sua produzione spazia dalla musica corale a quella sinfonica, con opere come l’oratorio Juditha dubitans e il brano Wandering (Omaggio a Luciano Berio), commissionato dall’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento.

Marco Uvietta

In un breve saggio della metà degli anni Ottanta intitolato Che tempo fa Berio rispondeva al quesito in questo modo:

“Mi si domanda di parlare del tempo ma, sinceramente, non so che tempo fa. Oggi le probabilità del tempo musicale sembrano infinite ed è per questo che se ne parla poco ed è difficile fare previsioni o attendersi conferme. Il tempo, ieri come oggi, è sempre là. È come l’aria e la musica vi è totalmente immersa. Ma questo suo tempo la musica lo usa, lo prevede e ce lo descrive in maniera sempre indiretta, parlando d’altro.”

Neppure oggi si sa che tempo fa. Il problema della gestione del tempo musicale, della qualità dell’esperienza temporale è sempre lì ad aspettarci, generosa, ospitale, ma esigente. Berio ci dice in sostanza che il primo e ineliminabile materiale di cui dispone un compositore è il tempo, nel quale mettere in atto quegli orizzonti d’attesa – o eluderli – che da sempre costituiscono la dimensione della forma.

Berio ci dice in sostanza che il primo e ineliminabile materiale di cui dispone un compositore è il tempo, nel quale mettere in atto quegli orizzonti d’attesa – o eluderli – che da sempre costituiscono la dimensione della forma.

Ecco, forse si potrebbe tentare una prima risposta in negativo: quello che stiamo vivendo non sembra essere il tempo della forma. È possibile che questa sia un’impressione personale dovuta alla mia ferma convinzione, forse in controtendenza, che oggi ci sia più spazio per la ricerca formale che per altri aspetti della composizione. Questo mi hanno insegnato i miei Maestri: Valdambrini, Dionisi, Castiglioni, Rimoldi, Corghi e… Berio. E questo continuano a insegnarmi i grandi Maestri che non ho conosciuto, di cui non sono stato allievo, ma che continuo a studiare assiduamente: Maderna, Stockhausen, Ligeti, Kurtág, Grisey e molti altri. Si avverte oggi una sorta di negligenza nei confronti della forma, come se fosse un contenitore burocratico che impedisce e inibisce il manifestarsi della sorpresa. Haydn non sarebbe d’accordo: senza un orizzonte d’attesa, l’effetto sorpresa è irrealizzabile, come dimostra ad esempio il finale del Quartetto in Mi maggiore op. 33 n. 2 (“Joke”) o il secondo movimento della Sinfonia n. 94 (“La sorpresa”).

La percezione del tempo dipende dalla forma: la vogliamo orientata a un obiettivo, ad arco, a sviluppo, oppure statica, rapsodica, episodica, a blocchi, rettilinea, ciclica, labirintica? Per ognuna di queste scelte, e molte altre ancora, si avrà una percezione diversa del tempo. Anche l’archetipo della ripetizione ipnotica, che finisce quando finisce (per esaurimento delle energie? per conclusione di un rito o di una danza? per abbandono da parte del pubblico?), è di fatto una scelta formale. Un tempo l’ingenua e oggi obsoleta fiducia nell’opera aperta, e nella possibilità del pubblico di chiudere il cerchio formale lasciato volutamente aperto (negli anni Cinquanta anche Berio era ancora convinto di ciò) aveva indotto alcuni compositori al mero azzardo, che nel tempo ha generato e sdoganato una sorta di incuria formale, nella semplicistica e opportunistica convinzione che la dimensione formale fosse in realtà sopravvalutata. Siamo forse nell’epoca in cui la comunicazione non passa attraverso scelte formali bensì si affida a ‘trovate’, a espedienti estemporanei, la cui validità si estingue nel momento stesso in cui si manifestano, senza lasciare alcuna traccia nel processo formale? Oppure è il tempo in cui la comunicazione si avvale di linguaggi talmente scontati che la forma è divenuta un optional? Oppure, meno si comprendono le intenzioni del compositore, più il compositore si guadagna la patente di contemporaneità? Bisogna ammettere che in questo momento la meteorologia musicale ha le armi piuttosto spuntate, anche perché tutto ciò avviene contemporaneamente nello stesso luogo, nello stesso concerto e talvolta anche nella stessa composizione.

L’espressione “formare la forma”, ricorrente negli scritti di Berio e tratta (attraverso Eco) dalla teoria della formatività di Luigi Pareyson, che è quel “fare” che, mentre si realizza, inventa il proprio “modo di fare” (ossia, le regole si stabiliscono nel processo stesso), è stata probabilmente fraintesa e declinata nei termini di abdicazione al controllo della forma. Troppo spesso si ha la sensazione che le nuove generazioni di compositori confondano la forma da una parte con il “progetto”, dall’altra con la struttura: in altri termini, che non ne afferrino il senso come forma di pensiero che si sviluppa dinamicamente nel tempo, cioè come processo. Parole come “progetto”, “struttura”, “materiale”, rovine linguistiche di una ‘avanguardia accademica’ (mi si conceda l’ossimoro) che ha ormai esaurito le proprie funzioni storico-estetiche e identitarie, tradiscono un’attitudine quasi feticistica per i fattori statici del comporre, a discapito di quelli dinamici.

E per questa via, tentando un’altra risposta al quesito “Che tempo fa”, potrei forse azzardare un’affermazione in positivo: oggi è il tempo dell’algoritmo. È anche il tempo di altro, probabilmente, ma se devo individuare una parola d’ordine della musica ‘contemporanea’, senza la quale un compositore è fuori dai giochi, la parola è questa. Considerato che anche la dodecafonia, ormai ultracentenaria, e il serialismo integrale sono sostanzialmente algoritmi (istruzioni per risolvere problemi di organizzazione di uno o più parametri), possiamo anche arrivare a dire che tutte le regole, anche quelle autoimposte dal compositore, sono algoritmi. E possiamo anche affermare che la parola ‘algoritmo’ favorisce, anche terminologicamente, associazioni col mondo dell’informatica, della composizione assistita e dell’intelligenza artificiale.

È stupefacente che il fondamento di un metodo che ambiva in un certo senso all’autosufficienza possa essere oggi demandato a meccanismi automatici. Si sarebbe tentati di ipotizzare che se la funzione combinatoria e algoritmica di una composizione (diciamo, di un certo tipo di composizione) potrà essere espletata da una ‘macchina’, il compositore avrà più tempo ed energie da dedicare alla parte più creativa. Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato che nell’ultimo mezzo secolo tutto ciò che è stato automatizzato ha finito per essere ‘ipostatizzato’, ha assunto valore in sé con una conseguente confusione fra mezzi e fini: il mezzo è diventato il fine. Mi si perdoni se pessimisticamente tendo a immaginare che l’automatizzazione di processi di elaborazione, permutazione e proliferazione del ‘materiale’ musicale assumerà valore in sé, come fine anziché come mezzo, e che tutto ciò non favorirà affatto l’autonomia creativa e di pensiero, bensì alimenterà una produzione di routine funzionale a un mercato musicale di nicchia dove l’originalità non è più una conditio sine qua non.

In una recente intervista mi è stato chiesto se a mio avviso un progetto deve essere inteso come un sistema di coordinate generali non vincolanti. Per me sì, ma comprendo anche chi ritiene che derogare al progetto sia un atto di disonestà intellettuale. Naturalmente questo dipende dalla natura del progetto: se gli algoritmi sono rigidi, non rispettarli è un fallimento. Preferisco i sistemi duttili e flessibili, cioè quelli dinamici, che non prescrivono proprietà univoche e denotative del suono (altezza, durata, dinamica ecc.), bensì comportamenti musicali variabili atti a subordinare il “cosa” al “come” e al “quando”. Per fare un esempio semplice, applico con molta soddisfazione il criterio della sostituzione: note sostitutive, accordi sostitutivi, come nel jazz più evoluto. In questo modo le altezze si trasformano da dimensioni fisiche a funzioni.

Lo stesso principio dei “comportamenti musicali” può essere applicato anche nell’ambito della progettazione macroformale: su ampie dimensioni offre soluzioni ancora più soddisfacenti, permettendo il controllo formale complessivo e al tempo stesso la più ampia libertà. Si tratta di un principio organico, antropomorfo, non scientista. Un principio basato su comportamenti musicali, quindi umani. Probabilmente la storia mi darà torto, perché è un’idea in controtendenza, ma mi sembra che l’unica via per una rinascita, anzi per un nuovo Rinascimento, sia una sorta di umanesimo musicale.

tutti gli articoli di Redazione