100 anni di Mikis Theodorakis, il canto della Grecia contemporanea
di Mauro Masiero - 17 Febbraio 2025
Mikis Theodorakis (1925-2021) è il compositore che ha contribuito alla formazione di una cultura greca contemporanea autoctona e decolonizzata, unendo elementi del linguaggio musicale eurocolto a tradizioni popolari elleniche. Figura ingombrante e controversa, incontenibile e ribelle, Theodorakis è stato autore di una produzione musicale del tutto originale, alternativa tanto all’esoterismo delle avanguardie del dopoguerra, quanto alla musica commerciale: una terza via capace di sintetizzare la danza popolare, la musica delle bettole, la letteratura da Nobel e la musica sinfonica. Estremamente prolifico, nella sua lunga carriera compone sinfonie, oratori, suite orchestrali, musica da camera, balletti, opere liriche, musiche di scena, colonne sonore e circa un migliaio di canzoni; vale la pena di ripercorrerne la vita e la ricerca musicale.
Teodo chi…?
In Italia si ricorda Theodorakis principalmente a proposito della resistenza al nazifascismo e alla dittatura dei Colonnelli in Grecia, in riferimento ai letterati che ha intonato, alle canzoni tradotte e reinterpretate da cantanti come Milva, Iva Zanicchi, Albano, Edmonda Aldini. Ma principalmente è noto al pubblico internazionale per il celeberrimo sirtaki, il ballo di sua invenzione che fa danzare allo stupendo Zorba di Anthony Quinn nel film del 1964, diventato un ballo tradizionale e, suo malgrado, colonna sonora di una certa Grecia da cartolina. Theodorakis, però, è stato prima di tutto un compositore che ha speso la sua lunga vita tra musica e impegno politico. Già negli anni Settanta, all’apice della popolarità, constatava come critici e musicologi tendessero perlopiù a ignorarlo; oggi le cose non sembrano particolarmente cambiate, soprattutto nel nostro paese, dove la musicologia continua a guardarlo in tralice come un fenomeno prettamente vernacolare, confinandolo nei settori del pop o della world music. In questo articolo proviamo a rendergli giustizia come compositore e a contestualizzarlo nella storia della musica del secondo Novecento.
La famiglia e gli anni di formazione
Mikis Theodorakis nasce nell’isola di Chios il 29 luglio 1925, figlio di Aspasia Poulakis, esule della catastrofe dell’Asia Minore, e di Yiorgos, avvocato cretese e impiegato pubblico alle prese con continui trasferimenti. La provenienza geografica dei genitori non è secondaria, perché evoca due importanti tradizioni musicali elleniche: la grande catastrofe microasiatica del 1922 di cui era reduce la madre – la pulizia etnica dei turchi di Atatürk ai danni dei greci dell’Asia Minore – è legata allo sviluppo del rebetiko nelle zone suburbane delle città portuali greche; il padre vantava invece un lignaggio di combattenti cretesi, essendo l’isola da secoli terra di resistenza pervicace ai domini stranieri – prima veneziano, poi turco, quindi nazifascista – e culla di ballate e canzoni eroiche sin dal XVIII secolo, oltre che di una straordinaria tradizione strumentale.

La famiglia Theodorakis non è agiata: lo stipendio del padre basta appena al sostentamento e l’interesse per la musica di Mikis non può essere soddisfatto con facilità. Del resto, la musica è un’attività quotidiana, economica e spontanea nelle giornate di lavoro, nei momenti di riposo e convivialità; che Mikis vi sia interessato non lo fa apparire un individuo eccezionale. Alla musica si dedica nei molti momenti solitari perché, difficile crederlo, Theodorakis è stato un bambino introverso a causa del suo corpo, ben più alto e robusto rispetto alla media dei suoi coetanei. La musica appresa instintivamente, su strumenti d’occasione o col solo canto e con la danza inizia a diventare per lui qualcosa di più di una comune attività quotidiana.
Durante uno dei frequenti trasferimenti del padre, a Patrasso, Mikis prende le prime lezioni di musica, acquista un libro di solfeggio e, al ginnasio, inizia a familiarizzare con il linguaggio della musica tonale grazie a un docente che gli dà lezioni di violino. Uno dei giorni più belli della sua vita, ricorderà da adulto, fu a quattordici anni, quando i genitori gli regalarono un vero violino tutto suo. Inizia così uno studio più regolare della musica, con la promessa di applicarsi anche nello studio scolastico per intraprendere, un giorno, una professione meglio riconosciuta e retribuita rispetto a come veniva considerata la carriera musicale.
La guerra civile, la militanza giovanile, due incontri decisivi
Siamo però in anni in cui la Storia sembra intromettersi prepotentemente nelle vite delle persone e Mikis inizia ad appassionarsi alla politica. Tra il ’36 e il ‘42 il regno di Grecia è governato da Ioannis Metaxas, che instaura una dittatura di stampo fascista. Theodorakis, quindicenne solitario e idealista, trova compagnia e condivisione nell’Organizzazione Nazionale Giovanile (EON) che, con una struttura paramilitare e il culto per la frugalità, si pone l’obiettivo di forgiare una nuova generazione di spartani. Mikis si rade il capo e inizia a marciare nei ranghi dell’EON, nonostante la contrarietà della famiglia. Dove non arrivano i divieti genitoriali, però, arriva la cultura: saranno decisivi a questo proposito gli incontri con un insegnante e con un amico. Il primo è Evangelos Papanoustos, educatore progressista che negli anni ‘60 sarà ministro dell’educazione e tenterà di modernizzare il sistema educativo greco; il secondo è Grigoris Konstantinopoulos, di qualche anno più grande di lui, figlio di un dotto cantore ecclesiastico dalla ricca biblioteca.
Frequentando casa Konstantinopoulos e le lezioni di Papanoustas, Mikis viene in contatto con la filosofia greca e illuministica, nonché con alcuni tra i grandi poeti ellenici antichi e moderni, iniziando così a incanalare il suo idealismo verso un umanesimo utopistico che caratterizzerà il suo pensiero politico e le sue ambizioni compositive, creandogli costanti problemi di “collocazione”. La razionalità del pensiero greco lo convince, come lo affascina l’austera sensualità della Chiesa, in cui Mikis riconosce un’autentica missione umanitaria, oltre che un contesto storicamente intriso di musica. In questo periodo la famiglia Theodorakis è di stanza a Tripoli, città principale dell’Arcadia dove, caduto Metaxas, arrivano gli eserciti occupanti. A quest’epoca fa risalire una delle sue più potenti epifanie musicali con l’ascolto della Nona di Beethoven grazie al disco portato da un soldato tedesco; arrivano anche i primi tentativi di composizione: un oratorio a quattro voci e archi su un poemetto dell’amico Konstantinopoulos e l’inno Kassianis, con cui vince il concorso indetto dalla chiesa di Santa Barbara a Tripoli.
La sua formazione musicale è ancora discontinua e fortuita, con qualche occasionale lavoro come direttore di coro e, a diciassette anni, le prime e inevitabilmente frustranti lezioni di pianoforte; non ci mette molto a scoprire che la rigorosa tecnica pianistica non fa per lui e ricorderà come, nei tentativi di suonare una scala, le dita gli scivolassero inevitabilmente in canzoni. Contro l’occupazione nazista, nel 1943 Theodorakis si arruola come riserva nell’ELAS, l’esercito di liberazione greco e si iscrive al Partito Comunista (KKE), in cui inizia una lunga e sofferta militanza, costellata di polemiche e controversie.
Militanza e prigionia
Il 1943 è un anno cruciale per Theodorakis, che inizia a conoscere la militanza e la galera, anche se inizialmente vi scampa perché un carceriere delle SS, melomane, scopre che è studente di musica e lo lascia andare; aveva infatti iniziato a studiare, con alterne fortune, al conservatorio di Atene sotto la guida di Philoktidis Ikonomidis, che diviene il suo mentore e contribuirà a lanciare la sua carriera in Grecia negli anni Cinquanta. In questo periodo scopre, grazie a un amico impiegato alla biblioteca americana, le partiture di Stravinskij, da cui è fortemente impressionato, e di Schoenberg, iniziando così a sperimentare tecniche compositive d’ispirazione modernista e dodecafonica. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Grecia sprofonda nella guerra civile che vede contrapporsi i comunisti del KKE in cui milita Theodorakis e le forze conservatrici, monarchiche e post-fasciste.

Il KKE è dichiarato fuori legge e le sue attività si svolgono in clandestinità; Theodorakis vive ad Atene in incognito ed è perseguitato dalla polizia, sino all’arresto durante una manifestazione nel 1947. Seguono anni di carcere duro prima a Ikaria e in seguito ripetutamente a Makronissos dove, non fosse stato per quel corpo che da ragazzino lo metteva a disagio, sarebbe certamente morto di stenti e torture. Nell’inferno petroso di Makronissos, il carcere per gli incorreggibili al largo della costa attica, un giovane detenuto del Pireo addetto alle vivande gli porge un bicchiere di acqua e limone; si chiama Grigori Bithikotsis e una dozzina di anni dopo darà voce alle composizioni più rivoluzionarie di Theodorakis.

Dopo la prigionia, alla fine del ’49, trascorre alcuni mesi dalla famiglia a Creta per riprendersi, ma non mette radici, insoddisfatto della vita musicale che percepisce scarica e asfittica. Desideroso di concludere il suo percorso di studi, torna ad Atene e l’anno successivo e consegue l’agognato diploma di conservatorio. Finalmente il titolo gli permette trovare qualche lavoro più stabile e meglio retribuito come insegnante, ma soprattutto di ottenere una borsa di studio che nel ‘54 lo porta a stabilirsi a Parigi per studiare al conservatorio. Nel frattempo aveva sposato Mirtò Altinoglu, medica radiologa che dovrà rinunciare alle sue ambizioni di carriera scientifica per diventare la signora Theodorakis, lei che non avrebbe nemmeno voluto assumere il cognome del marito dopo il matrimonio.
Lo studio a Parigi, la prima suite per pianoforte e orchestra
Al conservatorio di Parigi Theodorakis segue per un breve periodo il corso di analisi musicale di Olivier Messiaen e studia direzione d’orchestra con Eugen Bigot. Oltre che con l’esigua borsa di studio si guadagna da vivere scrivendo musiche per balletti e per una casa di produzione cinematografica londinese. Si immerge nello studio delle partiture di Stravinskij e Bartok ed è soprattutto quest’ultimo che lo entusiasma per l’impiego di materiale di provenienza popolare nelle sue composizioni colte. La ricerca di Bartok lo ispira a tal punto da far nascere in lui l’ambizione di rivitalizzare la cultura musicale greca componendo musica sinfonica nel solco della tradizione europea contaminata di elementi musicali autenticamente ellenici, desunti dai ritmi di danza popolari e dal canto della liturgia bizantina.
Risalgono a questi anni alcuni dei suoi principali lavori sinfonici, tra cui spicca la prima suite per pianoforte e orchestra, insignita nel 1957 del primo premio al Festival per giovani compositori di Mosca da una giuria presieduta da Dmitri Shostakovich. Nella sua prima suite, ne comporrà quattro, Theodorakis dichiara apertamente la sua fascinazione per Stravinskij e Bartok e ne assimila le influenze in un lavoro originale che si rifà a ritmi di danza cretesi, energico sino al parossismo, dall’orchestrazione fitta, dominata dalle percussioni. Nel ’59 il balletto Antigone debutta al Covent Garden e suscita l’interesse di Darius Milhaud, che lo propone per l’American Copley Music Prize ma questo successo, come vedremo, gli lascia più di qualche perplessità.
A Parigi Theodorakis condivide parte del suo percorso artistico con un altro esule greco: Yiannis Xenakis, e incontra un illustre connazionale della generazione precedente: Dimitri Mitropoulos, che anni prima ad Atene si era interessato al giovane Mikis e si era impegnato, senza successo, a introdurlo negli USA. A Parigi Mitropoulos lo incoraggia a tornare in Grecia e contribuire al progresso della cultura musicale greca direttamente da lì.

Il ritorno in Grecia e la svolta di Epitafios
Negli ultimi mesi a Parigi, alla fine degli anni Cinquanta, Theodorakis incontra il poemetto di Yiannis Ritsos Epitafios (Ἐπιτάφιος), che gli lascia una profonda impressione. Ritsos lo aveva scritto nel 1936, durante la dittatura di Metaxas, all’indomani di un fatto di sangue avvenuto a Salonicco: la polizia reprime uno sciopero e uccide dodici lavoratori; un fotografo immortala l’immagine-simbolo della strage cogliendo il cadavere di uno degli operai morti steso sulla strada e compianto dalla madre. Ritsos elabora lo shock in versi, che si diffondono e diventano un emblema della resistenza a Metaxas, tanto da venir bruciati pubblicamente ai piedi dell’Acropoli. Theodorakis nel 1960 vi riconosce un mito contemporaneo, uno Stabat Mater reale e condiviso; la memoria della dittatura e della guerra civile era acerba e quella storia poteva diventare universale: un mito, appunto. Decide di intonarne alcuni passaggi, ma come? Con quale musica?

Il rebetiko: la musica degli ultimi
Per Epitaphios ci voleva una musica che riprendesse quella trasversalità popolare e interclassista che il testo di Ritsos ispira, e questo non poteva essere lo stile della musica colta occidentale, che Theodorakis iniziava a percepire algido e distante dalla gente, esclusivo ed esoterico. L’impressione si consolida proprio dopo il successo di Antigone, balletto accuratissimo dal punto di vista compositivo ed elaborato sulla base di sofisticati calcoli matematici e proporzionali, ma che gli sembrava non avevesse emozionato il pubblico, lasciandolo freddo. Decide allora, per intonare Epitafios, di volgersi alla musica del suo paese, quella dei locali saturi di fumo del Pireo, la musica che, dalla catastrofe microasiatica del 1922, dà voce al kaimos, il dolore che brucia e accompagna la consapevolezza di una condizione ai margini della società. Questa musica, chiamiamola genericamente rebetiko, si basa sui ritmi scaleni dello zeibekiko o su quelli squadrati dello hasapiko e accompagna una danza solitaria e mesta, come sospesa. Una legge non scritta impone di lasciare libera la pista da ballo per il danzatore solitario di turno, consuetudine condivisa dagli esuli storditi dall’hashish nei tekedes, le bettole negli slum dei rifugiati microasiatici e del sottoproletariato portuale.

È una musica fatta di un ritmo sghembo con influenze turche e di un testo triviale, breve e ripetitivo, in uno slang condiviso dalla società dei manges, dei venditori di fumo, delle prostitute e che di questo, fondamentalmente, parlava: amori fatali, paradisi artificiali, amicizia solidale, vita precaria. Il ritmo prevale sul testo, nel rebetiko, insieme con la componente melodica; e di questo si occupa lo strumento più di tutti associato alla musica popolare ellenica: il bouzouki, il cordofono che dà il nome ai primi locali musicali (i buzukia, appunto) che aprono man mano che il rebetiko esce dagli slum e diventa appetibile anche a un pubblico borghese, oltre che per il crescente sfruttamento turistico. Questa è la musica che vuole Theodorakis per Epitafios: una musica autoctona e popolare, cui rendere dignità associandola a un testo profondo e trasversale, che nobiliti il kaimos della gente e aiuti a elaborare i recenti traumi collettivi.

La scelta è radicale: il bouzouki è associato, dalla buona borghesia greca, a quanto di più sconveniente; basti pensare che, anche dopo il successo di Epitaphios, i musicisti dei nobili strumenti sinfonici si rifiuteranno talvolta di condividere il palco con i rebetes e i loro bouzouki, guardati dall’alto in basso. Il rebetiko inoltre spiace tanto dalla destra quanto dalla sinistra, come espressione immorale e decadente di un popolo arreso. Ma Theodorakis, forte del suo umanesimo ecumenico e letteralmente laico, va avanti per la sua strada e trae otto canzoni dal poemetto di Ritsos. Da Parigi, le invia ad Atene al compositore Manos Hadzidakis che, senza consultarlo, si affretta a farli incidere con la voce di Nana Mouskhouri. Il disco non piace a Theodorakis: manca il bouzouki e la scelta della voce femminile favorisce un’identificazione diretta tra l’interprete e l’io lirico – la madre che piange il figlio assassinato dalla polizia fascista –, creando una mimesi e un pathos alla lunga sentimentali. La linearità e l’apparente serenità delle canzoni produce invece un effetto straniante.

A distanza di poche settimane, Theodorakis torna in Grecia e realizza una seconda incisione: una versione scarna che privilegia il ritmo, con il bouzouki di Manolis Chiotis e la voce di Grigoris Bithikotsis, il vecchio compagno di prigionia a Makronissos che all’epoca fa l’idraulico e la sera canta nelle taverne del Pireo; Bithikotzis diventa l’interprete d’elezione di Theodorakis, memore e testimone della sofferenza cui quella musica ambisce a dar voce. Le otto canzoni di Epitafios si aprono con l’apparente sorniona serenità di un taxim di bouzouki, il tipico preludiare virtuosistico dei rebetes, esattamente come si sarebbero aperte decine di canzonι di quel genere; ma, anziché il consueto languire sugli occhi neri dell’amata crudele o l’indugiare sul torpore da hashish, ecco la poesia di Ritsos, i suoi disciplinati versi di quindici sillabe con una forte cesura dopo l’ottava, dove il compositore inserisce le idiomatiche fioriture del bouzouki, versi sufficientemente regolari per adattarsi ai ritmi di danza popolare. Per questo nuovo genere di canzone, consolidato e portato al successo principalmente da Hatzidakis e Theodorakis tra gli anni ’50 e ’60 gli studiosi parlano di έντεχνο λαϊκο τραγούδι /entechno laiko tragudi/, letteralmente (e problematicamente, in italiano): canzone d’arte popolare.
Il successo e la concezione metasinfonica
Negli anni Sessanta si apre il periodo più florido della carriera compositiva di Theodorakis. Pubblica numerosi cicli di canzoni: a Epitafios segue, tra ’61 e ’62 Epifania (Επιφάνεια) sui versi di Yiorgos Seferis, Nobel per la letteratura nel 1963, il cui primo brano è considerato alla stregua di un secondo inno nazionale greco: si tratta di Arnisi (Άρνηση, Rinuncia), tra le sue canzoni più note e amate, conosciuto anche come Στο περιγιάλι το κρυφό (/Sto periyiali to krifo/ Sulla spiaggia nascosta), dal primo verso. La canzone accompagna, nel ’71, il corteo funebre di Seferis; questi, politicamente un conservatore, si era espresso aspramente contro i Colonnelli e aveva rifiutato di pubblicare le sue poesia in Grecia durante il regime, così Arnisi diventa un amaro inno di disillusione e speranze tradite, simbolo della resistenza contro l’autoritarismo. in Italia la canzone è stata reinterpretata, tra gli altri, da Edmonda Aldini, con una traduzione abbastanza fedele al testo di Seferis, con il titolo Sulla spiaggia.
È il decennio della consacrazione artistica e del successo di pubblico, in anni di piombo per la Grecia: tra ’63 e ’64 Theodorakis è impegnato a costituire e dirigere il gruppo giovanile dedicato a Grigoris Lambrakis, medico e politico comunista assassinato a Salonicco dal terrorismo nero nel ’63, adottando una semplice Z come slogan, iniziale di Ζει: [Lambrakis] vive; la sua storia verrà raccontata qualche anno più tardi da un romanzo e nel film Z, in tempi se possibile ancor più tetri, su cui torneremo. Nel ’64 riceve fama internazionale con la colonna sonora di Zorba, il film di Mikalis Kakoyiannis basato sull’omonimo (e splendido) romanzo di Nikos Kazantzakis, sintetizzando nel celeberrimo sirtaki danze di svariata provenienza: ancora lo hasapiko e il sirtos cretese, di cui sirtaki è il diminutivo. L’opera più ambiziosa e innovativa è però To Axion Estì sui versi di Odisseas Elitis, Nobel per la letteratura nel 1979, il capolavoro metasinfonico cui lavora tra il ’60 e il ’64.

In To Axion Estì Theodorakis sperimenta e concretizza quel che aveva teorizzato come musica metasinfonica: una creazione musicale che vada oltre le convenzioni formali e sociali della musica sinfonica di matrice eurocolta e che sia appetibile a un pubblico quanto più possibile ampio e trasversale. Quattro sono i suoi elementi essenziali: la melodia (sia essa originale, derivata dalla tradizione rebetica, dal pop o dal canto bizantino), l’integrazione nell’orchestra sinfonica di strumenti popolari (bouzouki, baglamas, santouri, lira e altri), il testo poetico elevato che crei una mitologia contemporanea autoctona e al contempo universale, l’integrazione di vocalità diverse, che tengano conto della tradizione colta ma anche di quelle popolari.
La concretizzazione dell’ideale metasinfonico: To Axion Estì
Anzitutto il titolo: To Axion Estì (Το Άξιον Εστί) è una formula della liturgia bizantina che si può rendere con l’equivalente latina Dignum est la quale, nella liturgia cattolica uscita dal Vaticano II, viene tradotta come È cosa buona e giusta. Si tratta dell’opus magnum di Odisseas Elitis che aveva colpito Theodorakis già negli anni di Parigi; poeta e compositore ne selezionano a quattro mani una silloge destinata all’intonazione. Il lungo e complesso poema, definito dalla critica una solare e lirica liturgia dei sensi, rientra nelle intenzioni di Elitis e dei poeti della sua generazione di cantare il vero volto della grecia finalmente liberi dagli stereotipi rinascimentali e colonialistici, non più attraverso il filtro degli europei. Per un’introduzione consona al poema si rimanda al volume Poesie di Odisseas Elitis edito da Crocetti nel 2021 e curato da Filippomaria Pontani, che contiene anche una selezione dell’Axion Estì in traduzione italiana. Un’altra versione italiana si può trovare in questo sito, a cura di Gian Piero Testa.
La composizione di Theodorakis può essere accostata, dal punto di vista dei generi della musica colta europea, a un oratorio: un ambizioso lavoro per voci soliste, coro e strumenti, ma è il materiale musicale a rivelarsi innovativo e sorprendente: all’orchestra sinfonica si integrano gli strumenti popolari (il bouzouki e il santouri) e gli strumenti della musica pop (chitarra, batteria, pianoforte); al coro sinfonico a voci miste inoltre si affiancano un salmista (un cantore ecclesiastico che intona dei veri e propri inni laici desunti dalla tradizione bizantina) e un cantante pop, chiamato a dar voce ad alcune delle canzoni più belle e ispirate di Theodorakis; per il debutto, la scelta cade nuovamente sulla voce di Grigori Bithikotsis, la cui interpretazione contribuisce in non piccola misura al successo dell’Axion Estì. Lo si può ascoltare e guardare — gli aspetti performativo e fisico sono tutt’altro che secondari — in una storica esecuzione integrale al teatro del Licabetto ad Atene nel 1977 con la direzione del compositore e una grande, vitale partecipazione di pubblico.
La composizione, come il poema, è divisa in tre parti: Genesi, Passione e Gloria. La Genesi ( Ἡ Γένεσις) è piuttosto breve: sei minuti, come i sei giorni della creazione del mondo. Tutto inizia dal caos, rappresentato degli strumenti sinfonici che si producono in un breve incipit atonale, da cui emergono il santouri (la variante greca del salterio, quello suonato da Zorba nel romanzo e nel film) e la voce monocorde e ieratica del salmista: «Allora parlò, e nacque il mare». Il coro, voce collettiva dell’umanità, riprende, commenta e continua con una martellante danza dionisiaca, sull’incalzare percussivo dell’orchestra. Segue l’articolata Passione (Τὰ Πάθη), che prende le mosse dal recente travaglio dello stato ellenico, funestato da due guerre mondiali, dittatura, occupazione, guerra civile e che deve ancora conoscere l’estremo rigurgito dell’autoritarismo fascista con l’incipiente dittatura dei Colonnelli (1967-’74). La Passione, la sezione più corposa, vede l’alternanza di inni bizantineggianti, narrazioni in prosa e canzoni, variamente distribuiti. L’innovazione più radicale è proprio l’inserimento delle canzoni, cinque in totale, che circoleranno ampiamente come singoli nella discografia e nei concerti, diventando tra i brani più noti e amati di Theodorakis. Prendiamo ad esempio le prime due.
Una la rondinella (Ἕνα τὸ χελιδόνι /ena to helidoni/), di cui riportiamo solo la prima strofa e il ritornello. I testi sono tratti dalla prima edizione del poema di Elitis, che separa gli emistichi con un fiorellino stilizzato, ed è seguita dalla traduzione di Filippomaria Pontani.
Ἕνα τὸ χελιδόνι ❀ κι ἡ ἄνοιξη ἀκριβή
γιὰ νὰ γυρίσει ὁ ἥλιος ❀ θέλει δουλειὰ πολλή
Θέλει νεκροὶ χιλιάδες ❀ νά ‘ναι στοὺς τροχούς
Θέλει κι οἱ ζωντανοί ❀ νὰ δίνουν τὸ αἷμα τους.
Θέ μου Πρωτομάστορα ❀ μ’ ἔχτισες μέσα στὰ βουνά
Θέ μου Πρωτομάστορα ❀ μ’ ἔκλεισες μὲς στὴ θάλασσα!
Una la rondinella ❀ cara la primavera
Perché si volga il sole ❀ ci vuole un gran lavoro
Ci vogliono migliaia ❀ di morti sulle ruote
Ci vogliono anche i vivi ❀ che diano il loro sangue.
Mio Dio Primo Architetto ❀ mi hai fatto in mezzo ai monti
Mio Dio Primo Architetto ❀ mi hai chiuso in mezzo al mare!
Gli strumenti gravi e le percussioni introducono lo squadrato e implacabile ritmo di hasapiko; quella che era stata la danza dei macellai diventa un invito a muoversi sui versi di una poesia misteriosa e concreta allo stesso tempo. Theodorakis sceglie un’intonazione strofica e prevalentemente sillabica, con un evidente accento a metà del verso, in corrispondenza alle parole-chiave rondine e sole, e di quelle che prendono il loro posto nelle strofe successive. L’immagine della rondine è lirica e simbolica: l’uccellino araldo della primavera è uno solo e preannuncia una speranza difficile, che richiede un immane impegno collettivo. La necessità del sacrificio (migliaia di morti) e del dovere di tutti (anche i vivi) è intonata con la medesima sottolineatura musicale, ma in modo maggiore: non una grave imposizione, ma un impegno positivo cui assolvere con fierezza. Il ritornello invoca un dio primo architetto, riferimento a una ballata popolare in cui, per far sì che il ponte di Arta non crolli, il capomastro è costretto a murarvi la moglie. La vittima sacrificale, immagine popolare di Gesù, è ora il popolo intero: l’Ellade fatta tra i monti e chiusa in mezzo al mare. Una continua ambivalenza tra speranza e dolore, meraviglia e terrore, cui la vigorosa intonazione di Theodorakis infonde un ottimismo da realismo socialista. Questa e le altre quattro canzoni nell’Axion Estì sono diventate patrimonio comune e portano su milioni di labbra, grecofone e no, i versi di Elitis considerati da Theodorakis «la bibbia della nazione greca».
La canzone successiva sta al centro di Axion Estì ed è forse l’immagine più rappresentativa della ricerca poetica di Elitis, seguace di Elouard e dei surrealisti animato da un’inaspettato slancio socialista: la poetica solare, di «quel sole sfacciato, che denuda ogni cosa con impudenza», per usare le parole di Kazantzakis. Sole intellegibile della giustizia (Τῆς δικαιοσύνης ἥλιε /tis dikeosìnis ìlie/), altra formula liturgica e definizione di Dio propria dell’innodia bizantina, che diventa un appassionato inno alla Grecia dei monti, del mare, dei villaggi, dei lutti, del sangue, degli amici; della gente.
Τῆς δικαιοσύνης ἥλιε νοητέ ❀ καὶ μυρσίνη σὺ δοξαστική
μὴ παρακαλῶ σας μή ❀ λησμονᾶτε τὴ χῶρα μου!
Ἀετόμορφα ἔχει τὰ ψηλὰ βουνά ❀ στὰ ἡφαίστεια κλήματα σειρά
καὶ τὰ σπίτια πιὸ λευκά ❀ στοῦ γλαυκοῦ τὸ γειτόνεμα!
Τὰ πικρά μου χέρια μὲ τὸν κεραυνό ❀ τα γυρίζω πίσω ἀπ’ τὸν καιρό
τοὺς παλιούς μου φίλους καλῶ ❀ μὲ φοβέρες καὶ μ’ αἵματα!
Sole intellegibile della giustizia ❀ e tu mirto glorificatore
non dimenticate, ve ne ❀ scongiuro, la mia terra!
Ha alti monti in forma d’aquila ❀ e filari di vigne sui vulcani
e le case più bianche ❀ in prossimità dell’azzurro!
Le mie mani amare con il fulmine ❀ le volgo dietro il Tempo
e chiamo i vecchi amici ❀ con minacce e con sangue!
I mezzi sono più o meno i medesimi della canzone precedente, con cui il compositore raggiunge una vetta di efficacia musicale e una temperatura emotiva che non si fanno indagare facilmente per via razionale. A metà del primo verso i bouzouki sono chiamati a solennizzare l’appellativo divino con un arpeggio ascendente e discendente, che sfocia in un’idiomatica fioritura; il verso viene chiuso dalla melodia che l’aveva introdotto e lo collega al secondo. Qui la preghiera rivolta al Dio-sole e al mirto sacro a Venere nata dal mare di non dimenticare il proprio paese viene ripetuta tre volte nell’intonazione di Theodorakis, iterazione che accumula tensione e attesa sino a sfociare, finalmente in modo maggiore, nel finale del verso che canta “il mio paese”.
In uno stato di paeselli, spesso funestati da spopolamento ed emigrazione come la Grecia, queste parole hanno la quotidianità della gioia, del dolore, della rabbia, della nostalgia; la nobilitazione poetica di Elitis e l’intonazione di Theodorakis le fanno arrivare dritte a colpire dove fa più male. L’identità tra il mondo piccolo dell’esperienza personale e il mondo grande grande dell’alta visione poetica è realizzata. In alcune performance dal vivo la ripresa della strofa iniziale, che prevede il raddoppio da parte del coro, innesca la partecipazione del pubblico che canta all’unisono, realizzando quell’abbattimento tra pubblico e palco auspicato dal Theodorakis compositore popolare, che si trova a condurre, come in una gioiosa manifestazione, una massa eterogenea di persone.
To Axion Estì si conclude con il Doxastikon (Δοξαστικόν), inno di gloria della liturgia bizantina: un’articolata liturgia dei sensi e delle cose del mondo come illuminate da quello stesso sole, reso ora presente e percettibile da una musica al contempo fissa dal punto di vista armonico e in continuo, instancabile movimento ritmico, scintillante di percussioni, di tremoli aguzzi dei bouzouki, della chiarezza ancestrale del santouri. Questi, insieme con l’orchestra a pieno organico, accompagnano un coro di voci bianche, alternato dall’invocazione di venti, isole e ragazze da parte del salmista, in una declamazione ora estatica, ora selvaggia. Scrive Filippomaria Pontani in Elena d’Algeria che «il pensiero greco […] non ha negato nulla, né il sacro, né la ragione» e ha «tenuto conto di tutto, equilibrando l’ombra con la luce»; lo studioso si riferisce alla Grecia classica ma non è fuori luogo ravvisarvi assonanze in Elitis; il Gloria che conclude l’Axion Estì dà voce grandiosa a questo panteismo mediterraneo e solare.
In anni di crescente cupezza per la Grecia, esce nel 1966 uno dei suoi cicli di canzoni più significativi, pietra miliare nella storia culturale greca: Theodorakis torna a Yiannis Ritsos e intona parte del suo Romiosini (Ρωμιοσύνη, Grecità), poema che dà voce all’indipendenza e alla resistenza del popolo greco in versi vigorosi e sanguigni, epici e concreti, modellati sui generi e sui metri popolari, per esempio, dei canti cleftici, i canti dei briganti cretesi contro il gioco ottomano. Theodorakis vi compone nove canzoni con sapiente coerenza melodica, potentemente espressive, inneggianti a una rivoluzione segnalata dai continui riferimenti alle campane, urgente in un periodo in cui lo stato greco torna a tingersi di nero.
Theodorakis durante la dittatura dei Colonnelli
La storia è ancora ingenerosa con la Grecia, riservandole sette anni di dittatura con la famigerata giunta dei Colonnelli, tra il ‘67 e il ‘74. Theodorakis, comunista eterodosso e strenuo oppositore delle politiche repressive della destra, è braccato dalla polizia, nuovamente imprigionato nel ‘67 e la sua musica viene proibita. In carcere, quando non è stordito dalle torture, scrive poesie e canzoni, anche con mezzi di fortuna, e riesce a far uscire clandestinamente le musiche per il film Z l’orgia del potere, che esce in Francia e racconta l’assassinio di Lambrakis, minimizzato e censurato dalla destra al governo. Theodorakis è convinto che dietro la giunta dei Colonnelli vi sia la longa manus degli USA con l’assenso del re di Grecia, ma confida nel fatto che «gli americani non hanno ancora inventato dei carri armati che uccidano le canzoni», così la sua musica circola abusivamente Grecia e trova ampia diffusione nel mondo.

Circola anche una petizione internazionale per la liberazione di Theodorakis, promossa, tra gli altri, da Shostakovich e Bernstein, che suscita clamore e raggiunge il suo scopo. Theodorakis è infatti una presenza ingombrante per i Colonnelli: ammazzarlo in carcere scatenerebbe uno scandalo mondiale e costringerlo al silenzio in galera porterebbe alla luce l’autoritarismo che la giunta preferisce tacere alla comunità internazionale, così nel ‘70 viene liberato e condotto in segreto a Parigi, dove sarà avventurosamente raggiunto da Mirtò e dai loro due figli. Da qui Theodorakis inizia un’intensa attività di resistenza a distanza contro la dittatura, diramando regolarmente messaggi rivolti ai greci e impegnandosi in tournée internazionali. Nel ‘71, invitato in Cile da Salvador Allende, scopre la poesia di Pablo Neruda, di cui intona il Canto General. Neruda ne è tanto impressionato da chiedergli di musicargli altri versi.
Ultimi decenni d’impegno e ritiro
Nel ‘74 cade finalmente la giunta dei Colonnelli e Theodorakis è libero di ritornare in Grecia, che sembra finalmente avviarsi verso un’epoca, se non di stabilità, perlomeno di pace e democrazia. Star celebrata star a livello internazionale, anche se perlopiù dal mondo socialista, Theodorakis fonda movimenti, tiene lezioni e interventi pubblici, riceve nel 1983 il premio Lenin per la pace. Nel segno della distensione e di quell’umanesimo trasversale che da sempre coltivava, a inizio anni ‘90 accetta di diventare ministro in un governo di centro-destra, cosa che, nonostante le dimissioni, gli viene aspramente contestata. Per Theodorakis sono anni di impegno e attivismo su vasta scala: tiene interventi e concerti per le questioni umanitarie che più gli stanno a cuore: la fame nel mondo e lo sfruttamento dei minori, l’ambiente e il nucleare, impegnandosi anche per la pacificazione del conflitto israelo-palestinese.
Erano le parole di un uomo libero, genuinamente desideroso di una concordia trasversale a fazioni e ideologie, e pertanto a queste inevitabilmente inviso.
Tiene il suo ultimo concerto pubblico a Berlino nel 1997, dove dichiara il suo ritiro per motivi di salute. Tra le sue ultime fatiche compositive sono degne di nota le tre opere liriche Medea (1991), Elektra (1995) e Antigone (1999), in cui il lavoro sulla musica popolare e la rilettura dei classici antichi si sposa con l’apprezzamento per i romantici tedeschi, di cui Theodorakis ammira lo slancio ideale disciplinato dal rigoroso lavoro formale. Vi si scorgono influenze wagneriane non solo nelle fluviali lunghezze, ma anche nell’uso dell’orchestra per la creazione di dense campate sonore e nell’ambizione sacrale attribuita alla musica, ma anche sonorità eterogenee, ora magniloquenti e retoriche, ora di discendenza minimalista.
Theodorakis ha la ventura di vivere molto a lungo e quando muore, novantaseienne, ad Atene il 2 settembre 2021, il governo greco proclama tre giorni di lutto nazionale; nel 2025, per il centenario della nascita, il Ministero della cultura ellenico ha dedicato l’anno alla sua celebrazione. Gli ultimi anni di Theodorakis sono segnati da controversie sortite da alcune dichiarazioni rilasciate alla stampa che, puntualmente strumentalizzate da antiche faziosità, hanno rischiato di proiettare un’ombra screditante su una carriera gloriosa e storicamente rilevante dal punto di vista musicale. Erano le parole di un uomo libero, genuinamente desideroso di una concordia trasversale a fazioni e ideologie, e pertanto a queste inevitabilmente inviso.

Mikis Theodorakis nella storia della musica
Già, la storia della musica. Tra i compositori attivi nel secondo dopoguerra, Theodorakis è tra i primi ad accorgersi che il formalismo spinto sino alla massima astrazione delle principali avanguardie avrebbe condotto a uno iato sempre più ampio tra musicisti e pubblico. Compositore di formazione accademica e consapevole della tecnica dodecafonica, del serialismo e della loro importanza storica, Theodorakis sceglie già negli anni Cinquanta di non imboccare quella strada perché l’avrebbe allontanato dalla gente, forte della convinzione che la musica deve avere una funzione sociale.
La sua musica nasce dall’impegno ma non vi si trovano slogan, né propaganda: Theodorakis canta la libertà e la bellezza con schiettezza icastica, con mezzi musicali diretti e familiari al suo pubblico, pregni di un’indefinibile convinzione e originalità del tutto peculiare e riconoscibile.
Per la stessa ragione guarda con sospetto all’intrattenimento fine a sé stesso che il benessere e l’imperialismo culturale statunitense stavano importando in Europa durante la ricostruzione, né sceglie di trincerarsi in un estetismo nostalgico e decadentistico. La resistenza di Theodorakis si manifesta in primo luogo nei confronti del colonialismo culturale: solo sviluppando un linguaggio musicale autoctono, teorizzava, i compositori si sarebbero resi utili al proprio paese, quindi interessanti e innovativi agli occhi del mondo; ed è quel che realizza in decenni di carriera senza compromessi, riuscendo a superare barriere linguistiche e culturali e puntando a quell’universalismo che tanto ammirava in Beethoven.
Nei suoi diari dal carcere, nel suo manifesto per il rinnovamento musicale greco e in numerosi articoli che scrive tra gli anni ‘40 e ‘70, Theodorakis torna continuamente sull’importanza del lavoro di compositori e cantanti popolari capaci di far maturare nella cittadinanza una coscienza critica attraverso la bellezza e l’emozione suscitata dalla musica. La sua musica nasce dall’impegno ma non vi si trovano slogan, né propaganda: Theodorakis canta la libertà e la bellezza con schiettezza icastica, con mezzi musicali diretti e familiari al suo pubblico, pregni di un’indefinibile convinzione e originalità del tutto peculiare e riconoscibile.
Una figura a tal punto eterodossa e trasversale ci porta a interrogarci anche sui confini che spesso, convenzionalmente o dandoli per scontati, tracciamo tra le esperienze musicali, convinti che concorrano a una maggior comprensione della musica: dove poniamo il confine tra musiche d’arte e musiche d’uso? E tra musiche colte e popolari? Alte e basse? C’è, da sempre, osmosi. E come si bilanciano i fattori di queste e altre dicotomie nella musica che ascoltiamo e studiamo con venerazione? Il secondo Novecento ha dimostrato che i compositori continuatori del filone eurocolto, percependo la necessità di fare tabula rasa e ricostruire da zero, si sono diretti verso una sempre maggior astrazione e smaterializzazione della musica; nell’intento di purificarla sono giunti a escluderne le componenti affettive. Un parallelismo si lascia tracciare proprio con la questione della lingua greca: la lingua purificata, artificiosa e arcaizzante propugnata dalla destra, la katharevousa, era pressoché ignorata dal popolo, la cui lingua, il greco demotico, è diventata, caduti i Colonnelli, quella ufficiale della repubblica ellenica. La musica di Theodorakis è ancora oggi, per molti aspetti, la musica dei greci.
Ha dunque senso occuparsi di musica esclusivamente in virtù della sua qualità intrinseca e in base all’originalità di un compositore nel maneggiare e portare avanti forme, linguaggi e istituzioni ereditati, per continuità o contrasto? La musica si comprende non solo scrutandoci dentro, ma anche esplorandovi intorno, nei contesti, negli atteggiamenti musicali delle attività umane, nella sua recezione; «una vera scienza della musica non può essere che un’antropologia della musica», scrive Jean Molino. Theodorakis ci porta a estendere il nostro ragionamento in orizzontale attraverso generi ed etichette e a porci in rapporto critico sulle funzioni della musica e del suo studio. Per l’originalità, nel panorama occidentale, dei risultati cui perviene e per la quantità di domande che la sua attività riesce a sollevare, Mikis Theodorakis, a cent’anni dalla nascita, merita di essere (ri)scoperto e annoverato tra i principali compositori del secondo Novecento.