Arnold Schönberg, gli anni della crisi e l’impossibilità di una musica “socialista”
di Willy Bettoni - 8 Marzo 2017
«Il mio obiettivo: liberazione totale da tutte le forme. Da tutti i simboli, del contesto e della logica. Così: lontano dal “lavoro motivico”. Via dall’armonia, come fosse cemento o un blocco di un’architettura […]. Via dal pathos […]. La mia musica deve essere breve. […] in due note: non costruita, ma “espressa!”»
Uno dei momenti più affascinanti della produzione schoenberghiana è sicuramente quello legato ai cosiddetti “anni della crisi”, indicativamente il periodo tra il 1908 e il 1912. Il compositore austriaco si era già lasciato alle spalle composizioni elefantiache in tipico stile wagneriano/mahleriano come i Gurrelieder e si avviava inesorabilmente vero gli anni del mutismo, cioè quel periodo compreso tra la composizione del Pierrot Lunaire (1912) e quello che è generalmente indicato come il suo primo lavoro dodecafonico, il valzer dei Fünf Klavierstücke op.25 (1922). Dieci anni di silenzio. Dieci anni per elaborare un nuovo sistema che potesse garantire “ancora cent’anni di gloria alla musica tedesca”. Le problematiche musicali ed estetiche che emergono in soli quattro anni sono sufficienti per impegnare le pagine di numerosi libri e non possono certo essere trattate in modo esaustivo nello spazio di un articolo. Tuttavia, prima di passare ai quattro brani che secondo me meglio rappresentano questo periodo, credo sia necessario spendere due parole su il concetto cardine di “atonalità”. «Volendo per forza trovare dei nomi si potrebbe pensare ai termini “politonale” o “pantonale”: ma prima di tutto bisognerebbe stabilire se questa musica non è semplicemente tonale» Così si esprimeva Schönberg nel suo Manuale di Armonia. È interessante segnalare che questa riflessione terminologica occupa lo spazio di una nota a piè di pagina e parte dalla premessa per cui “atonale” è:
«un termine da cui devo tenermi lontano, perché sono un musicista e non ho nulla a che fare con l’atonale. Il termine «atonale» potrebbe solo indicare qualcosa che non corrisponde affatto alla natura del suono. Già il termine «tonale» è usato impropriamente se lo si intende in senso esclusivo e non inclusivo: esso può avere un senso solo se si ammette che tutto ciò che deriva da una successione di suoni […] costituisce la tonalità. È evidente che in base a questa definizione, che è l’unica giusta, non è possibile creare un’antitesi ragionevole che corrisponda alla parola «atonale». […] Un pezzo di musica dovrà sempre essere tonale almeno per il fatto che da suono a suono vi deve essere una relazione in base alla quale i suoni, […] diano una continuità accettabile come tale. […] ma qualsiasi rapporto di suoni non potrà mai essere chiamato «atonale», così come un rapporto di colori non può essere definito «aspettrale» o «acomplementare», perché questo tipo di antitesi non esiste».
Questa lunga citazione (Manuale di Armonia, p.509, Net, Milano, 2002) è necessaria per comprendere la confusione che nasce intorno ad ogni tentativo di definizione di questa Nuova Musica. Da una parte i detrattori sostenevano che questa non potesse essere considerata tonale; pensare che la Seconda Scuola di Vienna potesse essere messa sulla stessa linea evolutiva in cui sono presenti Bach, Mozart o Beethoven e che, quindi, si dovessero ritenere quest’ultimi responsabili di tale scempio, pareva una sorta di incubo genealogico. Dall’altra parte gli esegeti di questo nuovo orizzonte musicale cercavano di difenderlo giustificando la sua esistenza proprio con il legame stretto tra questo e la musica tonale. Insomma, cercavano di combattere il fuoco con il fuoco. Da qui scaturisce una confusione terminologica di cui sopravvive solo il termine “atonale”, anche se, al giorno d’oggi, privato della sua accezione negativa (?). Senza scendere troppo nel dettaglio vorrei proporre ancora qualche riflessione in proposito. Tralasciando i termini “pantonale” e “politonale” suggeriti dallo stesso Schönberg e che mai furono presi in seria considerazione dalla musicologia, vorrei sottolineare che Hans Heinrich Eggebrecht, ancora nel 1991, sente il bisogno di problematizzare il concetto cardine di questa musica: «La musica atonale è musica non tonale, che in quanto tale non ha alcuna tonalità. […] Ma cos’è che questa musica atonale non ha? Cosa significa, e cos’è, la tonalità, la musica tonale?». La coppia tonale/tonalità, risponde Eggebrecht, «non è affatto intesa come la relazione tra suono e suono tout court (come intendeva Schönberg), bensì il rapporto con un centro di riferimento». L’essenza della tonalità è quindi la relazione alla tonica, mentre per Schönberg e i suoi allievi, e qui risiede il principio della fallacia, è la relazione tra i suoni; ed è la prima, e non quest’ultima, che nella loro musica viene sacrificata rendendola atonale. Non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista strettamente musicale, la atonalità affonda le sue radici nel periodo di massimo sviluppo ed espansione della tonalità. Eggebrecht sostiene l’esistenza di una spiegazione strettamente musicale circa la sua origine. Questa evoluzione deve essere rintracciata proprio nella musica di uno dei massimi maestri del secondo ‘800, Richard Wagner. Questa Nuova Musica non nasce come naturale conseguenza, in senso evoluzionistico, dal superamento del cromatismo wagneriano, che aveva portato ad esaurimento le possibilità di sfruttamento dell’armonia tonale, ma dall’impossibilità di mantenere una coesione strutturale dell’opera attraverso il sistema tonale, che ha perso, per dirla con Adorno, la sua funzione, non perché «quegli accordi siano invecchiati o inopportuni, ma perché sono falsi». Quindi, esiste un rapporto tra tonalità e atonalità; anzi, come scrive Eggebrecht, «si può dire che il principio della tonalità è contenuto nel principio della musica atonale allo stesso modo che il termine “tonalità” è contenuto nel termine “atonalità”». L’obiettivo di Schönberg era comunque quello di legare la atonalità alla stessa radice a cui era stata legata per “nascita” la musica tonale, la natura. I critici, però, lo accusarono di voler sostituire un sistema meramente artificiale a un altro tramandatoci affinché fosse usato in ossequio alle leggi della fisica. Nel “sistema” schoenberghiano elaborato nella fase atonale, tutti gli armonici di un suono dovevano essere considerati naturali, da quelli più vicini al fondamentale a quelli più lontani:
Quindi, dal punto di vista fisico, la teoria di Schönberg si avvicina maggiormente alla natura, dal momento che anche quelli che sono considerati suoni estranei dall’armonia “classica”, fanno parte della serie di armonici naturali di un suono fondamentale. L’unica differenza tra un compositore tonale e uno atonale può essere riassunta ancora con le parole di Eggebrecht, quando sostiene che «il compito del compositore atonale, anzitutto, consistette nell’escludere la tendenza per così dire “innata” [o almeno “indotta”] di suoni e accordi a porsi come fondamentali o a stabilire collegamenti con un suono fondamentale», ponendosi così sulla stessa linea di Schönberg quando affermava che «il compito del compositore atonale consiste nel paralizzare le tendenze tonali del materiale sonoro». Questo perché le triadi tonali avanzano delle pretese su ciò che nella musica le precede e le segue. Quindi, l’obiettivo è l’eliminazione della forza centripeta che fa ruotare le composizioni intorno ad una tonica; è da vedere se la musica atonale sostituisce alla tonica un nuova forza intorno a cui far ruotare tutti i suoi elementi. Quindi, l’atonalità si pone come forza liberatrice del materiale sonoro e della musica dalle decisioni prestabilite («libera il suono dalla illibertà naturale […] della determinazione prestabilita»). La tonica, oltre a porsi come forza centripeta, costringe ad una gerarchia per cui, per esempio, la dominante vuole la tonica, le dissonanze devono essere risolte, ecc., che imbriglia i suoni in strutture stabilite a priori. Intrapresa, quindi, la via che porta all’estremo limite la contraddizione, la ricerca di un nuovo stile compositivo, che possa ridare senso all’opera musicale, porta ad un risultato di cui Schönberg e i suoi allievi inizialmente non si accorgono, l’annullamento stesso della musica, il silenzio. Ed ecco quindil’impossibilità di una musica priva di ogni centro, senza gerarchia, nella quale non esistono centri funzionali, proprio perché ogni elemento può diventare centro funzionale; si scontrano, appunto, con l’impossibilità di una musica “socialista”. Questo perché non si possono più sfruttare le strutture armoniche; non si può sfruttare la tensione del rapporto tonica – dominante e nemmeno le categorie di forma e connessione, unità e consequenzialità e neppure i generi compositivi come la sonata o la sinfonia, un tempo garantite dalla tonalità. Così, la atonalità, non elevandosi a sistema conchiuso, come ogni innovazione distrugge nello stesso momento in cui crea. Glenn Gould afferma che Schönberg era «così immerso nell’elaborazione di un sistema innovatore da sfiorare più volte la catastrofe tecnica». Potremmo riassumere la situazione in cui si trova Schönberg citando Nietzsche; il compositore austriaco è nel pieno di una metamorfosi e, paziente come il cammello, «tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé […]. Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto […] Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone». E infine, il fanciullo, con innocenza e quasi per gioco creerà un nuovo inizio: la dodecafonia.
Zweites Streichquartett op.10 (1907-08)
Lo Zweite Streichquartett op. 10 in fa diesis minore, composto tra il 1907 e il 1908 è importante per almeno due motivi: in primo luogo è uno dei primi brani in cui l’indicazione della tonalità perde quasi completamente di significato; in secondo luogo perché negli ultimi due tempi è inserita una linea dedicata alla voce di soprano. L’inserimento di un testo cantato in un quartetto, oltre ad essere inusuale, è un segnale della trasformazione del linguaggio musicale di Schönberg. L’opera 10, visto anche il suo inquadramento cronologico, può essere intesa come il ponte che collega la fase della tonalità allargata alla fase atonale. Nel corso del brano la tonalità perde via via di importanza. Il primo movimento sembra essere un tempo di sonata nel quale la tonalità si impone ancora come perno su cui ruota la forma; benché si possa parlare di una tonalità allargata incentrata su una duplice polarità di tritono (do/fa diesis). Il secondo movimento, nella tonalità di re minore, presenta frequenti sconfinamenti nella atonalità, sfruttando passaggi cadenzali contenenti armonie per quarte, che rendono ambigua la tonalità di impianto; l’individuazione delle armonie per quarte è diventata norma. Il terzo movimento, in mi bemolle, prosegue nell’opera di indebolimento del centro tonale, benché si presenti armonicamente meno articolato del secondo. Fin qui la sospensione tonale operata da Schönberg sembra portare alla nascita di una nuova prassi, perfettamente inserita nell’evoluzione del linguaggio. Il quarto movimento, benché si chiuda con un accordo di fa diesis maggiore, manca di armatura in chiave e si muove ormai libero nella atonalità; anzi, per dirla con Gould, «la trama musicale dell’ultimo tempo è così irta di none e settime da far escludere qualunque ipotesi di riferimento a un unico centro tonale». La linea del canto presenta già gli elementi tipici della vocalità delle opere successive. Alla cantante è richiesta grande agilità e capacità di passare rapidamente dal registro acuto a quello grave e viceversa, con salti di settima o nona. Nel trattamento della linea del canto si nota già la ricerca di una vocalità nuova, che al pari della ricerca timbrica nella musica strumentale, porterà ad una concezione vocale incentrata sul timbro e sulle sfumature di sonorità. Siamo così giunti ad un primo assaggio della completata emancipazione della dissonanza, e tutto sembra essere fatto in modo programmatico, come per non voler sconcertare troppo l’ascoltatore, che in questo modo si trova accompagnato “per mano” dalla certezza della tonalità, e poi, attraverso il suo progressivo indebolimento, alla pura atonalità.
Erwartung op.17 (1909)
Con Erwartung Schönberg tocca l’apice della sua esperienza drammatica. Quest’opera, come scrive Paul Bekker, è «il riassunto più concentrato di tutto ciò che l’epoca posteriore a Wagner ha fatto e di quanto tende a fare […] è, per così dire, un saggio critico scritto non in parole e in concetti, ma in suoni, e soverchiante ogni trattazione concettuale per la forza dell’intuizione e della penetrazione creatrice». Non si può qui parlare esaurientemente della relazione individuata da Bekker tra Erwartung e il Tristan di Wagner. Il tema dell’opera 17 non è certo nuovo; anzi, esso si riallaccia proprio al tema wagneriano di Isotta, al tema del desiderio femminile, istintivo e irrefrenabile, il cui sbocco non può che essere la follia o la morte. La composizione di questo monodramma inizia con l’incontro tra Marie Pappenheim e Schönberg. Il compositore chiede alla giovane poetessa un libretto, che gli viene presentato tre settimane dopo, ma ritenuto dall’autrice del tutto inadatto per il teatro. Schönberg non le lascia il tempo per correggerlo, e in preda ad un’eccitazione febbrile, compone la sua opera in soli diciassette giorni. Il testo presentatogli dalla poetessa risulta essere il più adatto agli scopi prefissi: una poesia istintiva, priva di lacci formali, che potesse essere fusa direttamente nel calore bruciante della sua ideazione musicale. Erwartung è un monodramma psicanalitico, in cui solo un personaggio è presente sulla scena: la donna. Alla luce fredda e crudele della luna, ella cerca disperatamente il suo amato, che troverà solo sul far del giorno, privo di vita, nei pressi della casa della rivale in amore. La donna si guarda le mani ricoperte di sangue e invoca aiuto; ma il dubbio di essere stata proprio lei ad uccidere l’uomo, per quanto provi a scacciarlo, si è insinuato nella sua mente torturandola. Fa la sua comparsa qui il «dolore non trasfigurato dell’uomo», quell’angoscia che già era percepibile nella Kammersymphonie op. 9, e che qui esplode con tutta la violenza di quel Ur-schrei, che non è più interiore, ma si è concretizzato nell’urlo di disperazione, di solitudine [L’urlo di Munch]. Il patologico è entrato nella musica. Il movimento della linea melodica del canto, nel suo continuo altalenare tra il registro grave e quello acuto, ben mima il dramma psicologico descritto dal testo. Dal punto di vista musicale, Erwartung si innalza a paradigma della musica espressionista. È la prima opera totalmente atematica mai scritta, e rappresenta l’atto più rivoluzionario fin qui compiuto da Schönberg, la rinuncia alla forma tematica stessa. Dall’inizio alla fine la musica oscilla seguendo il flusso del testo e cambiando per ben centoundici volte indicazione metronomica. Tuttavia, è possibile rintracciare anche in Erwartung una Grundgestalt basata su degli accordi composti da sei note (generalmente composti da due accordi di tre note, per esempio una quarta sovrapposta ad una quarta aumentata). Oltre alla dissoluzione del Leitmotiv nasce qui l’idea di una vocalità fredda e distaccata, che porterà all’individuazione della tecnica della Sprechstimme, inserita a partire dalla successiva esperienza drammatica, Die glückliche Hand. Inoltre, qui si ritrova la sonorità tipica della Klangfarbenmelodie, segno che la ricerca timbrico-espressiva di Schönberg si sta avviando ad una conclusione, in cui tutti gli elementi finora emersi si fondono in una sintesi perfetta. L’indicazione di «Monodramma in un atto» posta sotto al titolo, rinvia alla tradizione del melologo, una forma intermedia nella quale la declamazione si alterna alla pantomima ed alla musica, il cui atto di nascita è generalmente fissato con il Pygmalion di Jean Jacques Rousseau (1762), con musica di Horace Coignet. Con Erwartung Schönberg si confronta con il melologo, genere che è alla base del Pierrot Lunaire.
Sechs Kleine Klavierstücke op.19 (1911)
Con i Sechs kleine Klavierstücke opera 19 Schönberg raggiunge l’apice del periodo espressionista, almeno stando alle intenzioni espresse nella lettera inviata a Busoni e citata in apertura, e per quel che riguarda la musica strumentale. Il pezzo breve rappresenta una delle caratteristiche più evidenti dell’espressionismo. Questa idea è derivata direttamente dalla negazione dell’ornamentale teorizzata dall’architetto Adolf Loos, grande amico di Schönberg, il quale, nel celebre articolo Ornament und Verbrechen, scrive: «Noi abbiamo superato l’ornamento […] La mancanza di ornamenti è un segno di forza intellettuale». Questi sei brani sono di una brevità estrema, aforistica (la loro durata complessiva oscilla tra i cinque e i sette minuti a seconda delle esecuzioni), e toccano punti di estrema astrattezza dei quali si potrebbe dire che il materiale sonoro giunge a rarefarsi a tal punto da essere quasi impercettibile. Non a caso Gould parla di «romanzo condensato in un sospiro» e di «nuova Augenmusik», rifacendosi alla prefazione che Schönberg scrive per le Sechs Bagatellen für Streichquartett op.9 di Webern in cui si può leggere: «Si consideri quale sobrietà occorra per esprimersi con tanta decisione. Di ogni sguardo si può fare poesia, di ogni sospiro un romanzo. Ma chiudere un romanzo in un sol gesto, una gioia in un unico respiro – una simile concentrazione è possibile solo in ragione inversa alla tendenza al sentimentalismo». Questa citazione può essere considerata una descrizione a posteriori proprio di questi sei piccoli pezzi per pianoforte. Inoltre, qui la Klangfarbenmelodie trova la sua applicazione più radicale; Schönberg pone, al di sopra sopra delle note tenute, dei crescendo e dei diminuendo, i quali sono impossibili da ottenere sul pianoforte, e che sono solo indicazioni delle intenzioni. In questi brani tutti gli elementi musicali, le pause, il ritmo, il silenzio e il suono sono in un rapporto di costante tensione, quasi alla ricerca di un nuovo mondo sonoro che vada al di là della concretezza fisica. Con l’opera 19 Schönberg comprende che la atonalità, con tutti i suoi elementi, porta alla «polverizzazione metafisica del suono», come fa ben intendere l’ultimo dei sei brani, un insieme di accordi disposti in dieci battute, che si chiude con l’indicazione “come un soffio”. Qui la ricerca di un nuovo modo di espressione è pienamente in atto, e si mostra con tutta la sua forza distruttiva. Non vi sono più legami armonici, tematici o melodici; quello che rimane sono una serie di accordi apparentemente isolati (soli), deboli e soffusi, oltre ai quali «non vi può che essere la negazione del suono nella sua stessa natura fisica».
Pierrot Lunaire op.21 (1912)
L’elemento principale del Pierrot è sicuramente l’ironia. Il protagonista delle liriche è una buffone, trasformato in una parodia di se stesso, tanto da poter essere considerato il clown del romanticismo tedesco. Non è un caso che il primo poema musicato da Schönberg sia proprio Gebet an Pierrot, che si apre con i versi «Pierrot! Mein Lachen/Hab ich verlernt!/Das Bild des Glanzes/Zerfloss – Zerfloss!» (Pierrot! Il mio riso/ho disimparato!/L’immagine dello splendore/si è dissolta – dissolta). Qui giace una delle maggiori incomprensioni della letteratura critica sull’opera 21 di Schönberg. L’assunzione, cioè, secondo la quale quest’ultima sarebbe il prodotto di un’arte “decadente”. Questa idea si basa su una valutazione che prende i testi per il loro valore letterale. La musica, in quest’ottica sottomessa al testo, si configurerebbe come semplice specchio del significato delle liriche. Un modello di analisi differente prende come punto di partenza la suggestione di Bekker, che definisce il Pierrot con l’epiteto di Romantik in Zerrspiegel (romanticismo in uno specchio deformante), intendendo indicare che l’opera 21 dovrebbe essere vista come un commentario ironico del passato. A sostegno di questa tesi si trova anche un’affermazione dello stesso Schönberg, il quale, in vista della registrazione negli studi della CBS, avvenuta nel 1940, scrive alla Stiedry-Wagner che «dobbiamo anche rivedere a fondo lo Sprechstimme – perché questa volta il mio obiettivo è di far emergere il tono leggero, ironico-satirico in cui quest’opera è stata originariamente concepita». L’ironia è quindi un elemento fondamentale nelle opere d’arte dei primi anni del Novecento. Thomas Mann, che nel suo Faustus si cala nei panni del musicista che fonda la sua stessa creazione artistica sulla parodia, è ben consapevole che questa «emerge, come necessità storica, ogniqualvolta una certa tradizione artistica giunge alla sua fine». Da questo punto di vista, Schönberg e Adrian Leverkühn («Perché quasi tutte le cose mie si devono affacciare con la loro parodia?»), il protagonista del romanzo thomasmanniano, condividono la stessa Weltanschauung. Seguendo questa suggestione, possiamo parlare del Pierrot Lunaire come di un’opera in cui l’elemento di parodia non è solo la vicenda del clown di Bergamo, ma è anche la musica di Schönberg. Se prendiamo come punto di partenza una delle idee centrali del testo Philosophie der neuen Musik di Adorno, per cui il materiale musicale invecchia, il maestro viennese ha avuto sicuramente il merito di essere riuscito a cogliere sempre il momento in cui questo materiale diventava inutilizzabile. Dalla “tonalità allargata” alla atonalità; quest’ultima già intorno al 1912 si presenta come “invecchiata” a tal punto che Schönberg pensa più volte che il suo genio creativo si sia esaurito. Unendo i vari punti di vista si può sostenere che nell’analisi dell’opera 21 è necessario tenere presente la coesistenza di elementi diversi. Da una parte l’elemento espressionista; dall’altra la parodia di questo stesso elemento.
La scelta dei poemi operata da Schönberg non rispecchia nessun intento programmatico. Probabilmente l’idea era quella di riassumere le vicende narrate dai versi di Hartleben. Tuttavia, l’ordine in cui furono composti i melologhi non coincide con l’organizzazione finale dell’opera. La composizione può essere divisa in tre gruppi, evocanti tre diversi immaginari, nei quali la luna, immagine fondamentale nelle liriche, cambia via via il suo aspetto. Nella prima parte, Pierrot è mostrato come il poeta della disperazione, incantato da una luna intossicante dei cui raggi è sommerso, fonte di fantasmagoria erotici e blasfemi, che lo conducono inevitabilmente all’autodistruzione. Nel corso della prima parte, l’atmosfera si incupisce, fino a chiudersi con il melologo Der kranke Mond, che ben esemplifica il cambiamento di scenario mostrando una luna malata e preparando le terribili immagini evocate in Nacht, il poema immediatamente successivo. La seconda parte presenta Pierrot come sottoposto ad un martirio; qui la sua mente è affollata da visioni orribili che lo vedono protagonista di atroci punizioni, per chiudersi con le grottesche allucinazioni di Enthauptung e di Die Kreuze. Le prime due parti del Pierrot sono tra loro legate per l’atmosfera blasfema e di violenta allucinazione, in cui appaiono solo due personaggi, il dandy di Bergamo e la luna. Quest’ultima si tramuta da fonte di ispirazione poetica della prima parte, a lama tagliente (ein blankes Türkenschwert) e fonte di allucinazioni della seconda parte. Nella sezione conclusiva troviamo la via d’uscita dall’incubo che Pierrot si è creato. Abbiamo così un aumento del sentimentalismo, trasformato in farsa grossolana, e il ritorno del dandy verso il suo paese natale, che sta a significare il ritorno ai tempi antichi, più felici, ma che, proprio perché passati non possono più tornare. Un discorso generale sulla musica che accompagna le liriche del Pierrot è impensabile. Ognuno dei melologhi rappresenta un caso a sé. In linea generale si può sostenere che il pianoforte è lo strumento principale e costituisce quella che potremmo chiamare la spina dorsale della composizione. È presente, infatti, in diciassette melologhi e svolge anche una funzione fondamentale nelle sezioni di transizione tra un numero e l’altro. La linea di Sprechstimme svolge una duplice funzione; da una parte ricopre sicuramente il ruolo di narratore; dall’altra è perfettamente integrata nell’ensemble strumentale. Il quintetto di strumenti viene trattato da Schönberg in modo da non ripetere due volte lo stesso organico. La caratteristica principale del Pierrot Lunaire riguarda proprio la sonorità. Ogni melologo è composto usando un organico strumentale differente, non tanto per una varietà di strumentazione, ma per creare ogni volta un mondo sonoro differente. Con il Pierrot il compositore austriaco porta all’estremo limite tutti gli elementi individuati negli anni della crisi. Ormai neanche il testo poetico può più essere considerato un valido sostituto delle concatenazioni armoniche, ormai così annichilito nella sua parodia.
Willy Bettoni