Mass di Bernstein: elogio del dubbio e della crisi
di Luca Cianfoni - 16 Luglio 2022
Dubbio. Crisi. Rabbia. Odio. Speranza. Pace. Impegno. Questo è Mass di Leonard Bernstein, un’opera contraddittoria, contrastante, un “hodgepodge” (guazzabuglio) come scriveva Harold Schonberg, sulle colonne del New York Times: “Ovunque c’è un miscuglio di tutto. Si può sentire rock, Broadway, melodie che riecheggiano West Side Story e Fancy Free, raga, Beatles, ballate, Copland, corali, inni, revivalismi, bande itineranti”. Giudizio negativo? Tutt’altro, forse la più lucida analisi di quest’opera. “Eclettismo” era l’accusa, una medaglia che Bernstein si affisse volentieri sul petto:
“Appartengo ad un’area musicale altamente eclettica – questa parola “eclettico” mi viene lanciata addosso di tanto in tanto con accezione negativa, […]. Non riesco a pensare ad un compositore che amo, nella storia della musica, che non sia in un modo o nell’altro eclettico. […] Accetto con orgoglio l’epiteto “eclettico”, perché questo mi mette nella compagnia più grande di tutti, quella di Stravinskij e Beethoven e di tanti altri.”
(“High FIdelity”, febbraio 1972)
D’altronde, come avrebbe potuto un compositore non eclettico mettere in scena un’opera contemporanea che contemplava, tra le altre cose, la rappresentazione della società americana e, per estensione, occidentale, così piena di contraddizioni?
Una società in cui da pochi anni si era concluso il Concilio Vaticano II – che abdicava al latino nella liturgia e andava incontro alle istanze di rinnovamento giovanili – e in cui allo stesso tempo perdurava la Guerra del Vietnam – che tanto aveva sconquassato e lacerato il tessuto sociale americano; una società nella quale era nato il movimento hippie, in cui veniva approvato il Civil Rights Act (1964), che poneva finalmente fine, almeno sulla carta, alla disparità razziale negli Stati Uniti e una comunità internazionale in cui si cominciava a denunciare come crimine internazionale l’apartheid in Sud Africa. Insomma, in un mondo che iniziava a globalizzarsi, come poteva un compositore decidere di scrivere un’opera di impianto fortemente sociale, che descrivesse in parte anche tutto questo, non essendo propriamente un eclettico?
La sorpresa, nell’ascolto di Mass, è vero, si percepisce ancora oggi, a 50 anni dalla prima esecuzione, anche per il direttore di questa première italiana al Teatro dell’Opera di Roma, Diego Matheuz:
“Quando apri per la prima volta la partitura e vedi tutto quello che c’è scritto, è capitato anche a me lo confesso, ti viene da dire: ha messo insieme il pomodoro con il cioccolato, qualcosa che non si combina.” (Intervista a Diego Matheuz, ad opera di Pierachille Dolfini, Programma di sala, p. 131)
Al contrario però, già dalle prime battute dell’opera, pardon, della messa, pardon, del pezzo di teatro per cantanti, attori e ballerini, il fluire senza soluzione di continuità della musica tra le diverse sezioni sinfonica, blues band e rock band, propone una commistione originale che vede sposarsi allo stesso tempo arpa e chitarra elettrica, violini e batteria rock, flauti e clarinetti con il basso elettrico. In questo si palesa chiaramente la scrittura sapiente di Bernstein, ma anche la grande capacità del direttore d’orchestra venezuelano, figlio di quel El Sistema che ha rivoluzionato la musica in Venezuela, nel plasmare e amalgamare i diversi organici strumentali.
A rendere ancora più efficace l’unione di differenti universi sociali e musicali presenti in Mass è la magistrale messinscena del regista Damiano Michieletto, che coglie in pieno lo spirito dell’opera, facendo iniziare questa Messa come una vera e propria festa di una società, che si riunisce per compiere un rito sacro. Lo spirito di comunione e fratellanza iniziale, che si ritroverà poi nel finale, è ben sottolineato dai disegni coreutici di Sasha Riva e Simone Repele, che per tutta l’opera riescono a dominare il grande palco delle Terme di Caracalla attraverso una coreografia tanto narrativa quanto poetica ed emozionante.
L’eccezionale Markus Werba, il Celebrante, entra in scena deponendo sul palco delle fascine di grano, come a evidenziare la sua venuta in pace, in un primo dei tanti paragoni, che ne farà una simbolizzazione cristologica. E difatti subito dopo l’etereo canone triplo Dominus Vobiscum, la scena si trasforma richiamando l’Ultima Cena davinciana, con tavoli da pranzo collocati sul fondo del palco, a costituire un moderno altare.
È proprio qui che le cose iniziano a incrinarsi e gli elementi di contrasto iniziano ad emergere, anche in orchestra, dove la sezione sinfonica e la big band iniziano a battagliare.
Paillettes dorate, atteggiamento di sfida e autoritario, così si presentano gli Street Singers, e non è un caso che la sezione dell’opera in cui appaiono si chiami proprio “Epiphany”. Questi giovani rivoluzionari – che sul palco, da indicazioni di Bernstein, dovevano essere accompagnati anche dalla big band, probabilmente spostata in buca per esigenze di regia e di coreografia -, distruggono la scena costruita e ribaltano l’altare celebrativo, richiamando la cacciata evangelica dei mercanti dal Tempio. Da possibile ondata rivoluzionaria positiva dunque a torba di persone portatrice di violenza che nient’altro sono che:
“la rappresentazione del potere, eccentrico e dorato: coloro che impongono dogmi dall’alto, che dettano le regole senza indugi, incarnando ambizione e sopraffazione. Sono gli stessi che a un certo punto decideranno di lanciare il primo mattone della discordia” (Intervista a Sasha Riva e Simone Repele, a cura di Azzurra di Meco, Programma di Sala p. 142).
Su quest’ondata di ribellione (che lascia interdetto il Celebrante) si innestano i primi tropi, costruiti musicalmente e vocalmente come vere e proprie canzoni rock e blues. I don’t know ed Easy sono un atto di accusa dei giovani all’ipocrisia agli ideali tradizionalisti della società borghese dell’epoca:
“It’s easy to shake the blame for any crime / by trotting out that mea culpa pantomime: / “Yes, yes, I’m sad. / I sinned, I’m bad.” Then go out and do it one more time”;
Allo stesso tempo però, la direzione da intraprendere non è chiara:
“what I need I don’t have, / what I have I don’t own, / what I own I don’t want, / what I want, Lord I don’t know.”
Ed è proprio durante il canto di questi primi tropi che inizia la costruzione di quello che sarà l’elemento portante della scenografia e della regia dello spettacolo: il muro. I mattoni vengono portati in scena dagli Street Singers – vocalmente e attorialmente all’altezza dell’eccezionale Markus Werba -, e andranno a costruire una parete che contrapporrà da qui in avanti i due tipi di società rappresentate sul palco.
“Let us pray”.
I costanti e fiduciosi richiami alla preghiera del celebrante fanno rimbalzare la trama di Mass tra la struttura della canonica messa latina di rito tridentino e i continui tropi di denuncia sociale degli Street Singers, in una sorta di continua onda che avanza e si ritira, in un perpetuo scontro tra società borghese e giovanile.
Il muro continua a crescere e una volta completato e su di esso appare:
“Corea del Nord – Corea del Sud, 1953, 250 km”; “Belfast cattolica – Belfast protestante, 1969, 13 km”; “Stai Uniti – Messico 1994, 1000 km”; “Marocco – Ceuta e Melilla, 1999, 20 km”; “Polonia Bielorussia, in costruzione, 186 km”.
Un vero e proprio wall of shame, a denuncia dei muri eretti ancora presenti nel mondo, che rappresentano divisione e odio; ad intensificare la sensazione di sgomento sono le scritte razziali, omofobe e d’incitamento alla violenza, sicuramente riprese dalle strade delle nostre città, che appaiono subito dopo, sempre sulla stessa parete.
La tensione è ormai alle stelle, e nelle sezioni “XI Meditation No. 3 (De profundis, part 1)” – “XII Offertory (De profundis, part 2)” – “XIII The Lord’s prayer” – “XIV Sanctus”, Markus Werba viene crocifisso, proprio su quel muro della discordia, mentre declama:
“Remember, o Lord, thy servant and handmaids and all here present, whose faith is known to Thee, and for whom we offer up this sacrifice. We beseech Thee, in the fellowship of communion, graciously to accept it and grant in peace to our days.”
Ma l’oggetto del sacrificio non è altri che il Celebrante stesso, immolato sull’altare della mediazione, del dialogo e della ricerca di conciliazione di due mondi.
Una riflessione sul comportamento degli Street Singer, può trovarsi nella canzone coeva Sogno numero due di Fabrizio De André, tratta da Storia di un impiegato (1973). La storia qui raccontata è quella di un borghese, impiegato, che dopo aver compiuto il suo attentato a suon di tritolo viene giudicato in tribunale e il giudice gli rivolge le seguenti parole:
“E se tu la credevi vendetta
Il fosforo di guardia segnalava la tua urgenza di potere
Mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
Quello che non protegge
La parte del boia
Imputato
Il dito più lungo della tua mano è il medio
Quello della mia è l’indice
Eppure anche tu hai giudicato
Hai assolto e hai condannato al di sopra di me
Ma al di sopra di me, per quello che hai fatto, per come lo hai rinnovato
Il potere ti è grato”
La volontà di cambiare la società in meglio, dunque, trova nell’azione violenta il suo peggior vettore, giustificando così il potere nella sua repressione. Ma in quest’opera non si concluderà in questa maniera e così si arriva a uno dei momenti più intensi di tutta l’opera, la sezione “XV Agnus Dei: Dona Nobis Pacem”. Sono queste tre parole ad essere il punto di rottura di tutta l’opera. Gli Street Singers le cantano mentre si dirigono verso il muro – che ora sembra trasformarsi nel Muro del Pianto -, le gridano contro il Celebrante ed infine, giunti sul proscenio le urlano verso il pubblico. Un sussulto nel cuore di tutti, un grido straziante di una generazione che chiedeva pace, una richiesta accorata che alla sua prima assoluta al JFK Center di Washington, avrebbe avuto in prima fila uno dei più contestati presidenti USA: Richard Nixon.
“Let us pray”.
Stavolta la preghiera di Markus Werba sembra incoraggiare più se stesso che la comunità. Questa ennesima prova di forza spirituale del Celebrante corrisponde sul palco alla caduta del muro; da questo iniziano a fuoriuscire come superstiti, a dimostrazione che le barriere in realtà sono fragili e permeabili, e mentre il coro continua ad incalzare il protagonista principale dell’opera cantando “Dona nobis”, Markus Werba risponde “Panem” o “Calix”, come se fosse incapace di dire loro “Pacem”. La posizione del Celebrante è scomoda e rappresenta la situazione di imbarazzo di alcuni preti di allora che si trovarono in contrasto con alcune gerarchie ecclesiastiche americane (vedi le posizione dell’allora cardinale cattolico arcivescovo di New York Francis Spellman, a favore della guerra).
“Pacem!” grida infine il Celebrante, in una commistione tra l’effettivo tempo liturgico e l’accettazione della richiesta degli Street Singers; il corpo di ballo, uscito dai buchi creatisi nel muro, ora sembra trasformarsi in una massa di zombie. “Pa…cem!” e nella sezione “XVI, Fraction”, anche il protagonista sembra entrare in crisi: “How easily things get broken”, ”I means, it’s supposed to be blood… / I mean, it is blood”; “Our Father, who art in Heaven, / haven’t you ever seen an accident before?”. Qualcosa si è rotto, il sacro sembra aver perso tutto il proprio valore; tutto il corpo di ballo cade a terra: “God is very ill…”.
Mentre l’orchestra sempre puntuale e perfetta nelle dinamiche sale di intensità, sul palco si stende un pesante velo nero, come a ricoprire la lotta presente finora. Il celebrante sembra aver perso quella capacità di mediazione che lo ha contraddistinto fino a questo punto e anche lui lancia un grande j’accuse contro l’ipocrisia della fede borghese:
“Why have you stopped praying? / Stopped your Kyrieing? / Where is your crying and complaining? / Where is your lying and profaning? / Where is your agony? / Where is your malady? / Where is your parody / of God…”.
Nel pieno della sua crisi personale riprende le parole dei primi tropi degli Street Singers: “It’s so easy if you just don’t care, / Lord don’t you care”; ma il Celebrante crede ancora in Dio nonostante questo momento di smarrimento e questo gli consente di guardare al futuro con fiducia.
“How fine it would be to rest my head, / and lay me down, / down in the wine, / which never was really red… / but sort of… / …brown… / and let not…another world… / be spoken…/ oh… / how easily things get broken”, “lasciamo che un altro mondo non sia solo parlato”, creiamolo sul serio, sembra voler dire il Celebrante, mentre sul palco si innalzano dei sacchi neri altissimi, a perenne ricordo dell’intolleranza e dell’odio che facevano parte del vecchio mondo e che, senza la memoria del passato, potrebbero essere parte anche della nuova società in costruzione.
Gli Street Singers, accompagnati dal Coro del Teatro dell’Opera (che è stato disposto su degli spalti neri ai lati del palco, ha delimitandone i confini), ora cantano sempre più forte e convintamente, insieme anche al Celebrante e una bambina del Coro delle Voci Bianche: “Lauda laudate deum”, in segno di una rinnovata unità trovata in un dio, per la ricostruzione di una nuova società.
Almighty Father, incline thine ear:
Bless us and all those who have gathered here.
Thine angel send us,
who shall defend us all;
and fill with grace
all who dwell in this place.
Amen.
La preghiera universale del Celebrante è rivolta a tutti, anche agli Street Singers che lo hanno crocifisso, non solo a coloro che erano con lui o alla sua comunità, ha un carattere ecumenico, e, nel giorno della prima assoluta, avrebbe incluso anche il presidente Nixon.
Il messaggio di pace finale infine è simboleggiato anche dalla Love Couple (Susanna Salvi e Michele Satriano), una coppia di ballerini vestiti di bianco, che per tutto lo spettacolo hanno rappresentato una storia nella storia, quella della società che prima era unita e poi si sfaldava, ma anche quella personale di Leonard Bernstein e di sua moglie Felicia Montealegre, rimasti uniti fino alla morte, nonostante l’omosessualità del compositore. I due ballerini dunque, negli ultimi istanti dell’opera, scendono dal palco, si pongono davanti alle prime file e sulle ultime note dell’orchestra porgono verso il pubblico le fascine di grano, in simbolo di pace, di una messa che nonostante tutte le difficoltà ha riunito una comunità sotto il segno della pacificazione e della convivenza.
“The Mass is ended; go in peace”