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Fede e ragione in Igor Stravinskij

di Lorenzo Pompeo - 30 Maggio 2018

La fortuna di chi voglia approcciarsi allo studio di Stravinskij è rappresentata dal fatto che egli stesso, oltre alla sua musica, abbia lasciato una quantità decisamente corposa di scritti che parlano di sé, della sua vita e delle sue composizioni.

Chiunque abbia voluto analizzare il rapporto con Diaghilev o le opere neoclassiche, ha potuto attingere a fonti dirette fondamentali come le Cronache della mia vita, La Poetica della musica, le Conversazioni con Stravinskij di Robert Craft, soltanto per indicare le più famose.

Questo, d’altro canto, ha forse favorito la nascita di direttrici di studio direttamente collegate alle composizioni più celebri di Stravinskij, quelle su cui più aveva scritto, tendendo a tralasciare cose su cui egli stesso si era poco soffermato, vedendovi così un’implicita designazione di marginalità da parte dello stesso compositore.

La questione religiosa nella vita e nell’opera di Stravinskij fa parte degli aspetti meno esplorati dalla critica ma, ciononostante, è d’importanza capitale non solo per quanto riguarda l’analisi di composizioni magari molto meno conosciute rispetto a La Sagra della Primavera, ma proprio per ciò che concerne la comprensione del pensiero e della personalità del compositore russo.

Molti elementi fanno pensare che la quantità inferiore di pagine dedicate a questo tema (anche se si può evidenziare “la qualità”, vista la portata delle affermazioni) siano dovute invece al fatto che Stravinskij lo vivesse come un fatto molto intimo della propria coscienza di cui fosse difficile parlare come d’un qualsiasi dato biografico.

L’esperienza religiosa

Stravinskij attraversò dal 1910 una crisi spirituale che lo portò ad allontanarsi dai riti ortodossi per poi ritornarvi nel 1926 (anno di composizione del Pater Noster, prima delle sue opere sacre), ma non perse mai la fede che si manifestò piuttosto, fino al 1926, come una sorta di teismo aconfessionale.

Sono state numerose le interpretazioni su chi e cosa abbiano fatto sì che avvenisse tale riavvicinamento: sicuramente hanno avuto grande importanza Padre Nicola Podosenov della chiesa ortodossa di Nizza e il circolo di persone conosciute a Parigi tra cui Arthur Lourié, Jean Cocteau e, soprattutto, il filosofo francese Jaques Maritain.

Chiesa Ortodossa russa di Nizza

L’importanza di queste figure non va vista, tuttavia, come un’influenza decisiva, quanto piuttosto come un incontro che accompagna Stravinskij lungo un percorso interiore già imboccato dentro di sé.

Il ritorno all’Ortodossia da parte di Stravinskij non è stato automatico. Con Maritain, filosofo cattolico che aveva riscoperto il tomismo dell’Aquinate, discute probabilmente anche della possibilità di convertirsi al Cattolicesimo, di cui Stravinskij ammirava la prospettiva universalistica. Questo interesse verso la Chiesa cattolica non stupirà se si tiene a mente che in Russia negli anni precedenti già il filosofo Vladimir Solov’ëv aveva aperto un ponte verso l’ecumenismo e il dialogo tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica.
Inoltre, il dialogo tra pensatori russi e francesi dovuto alla grande diaspora dalla Russia rivoluzionaria di pensatori e artisti che vide Parigi e la Francia come una destinazioni privilegiate e che coinvolse lo stesso Stravinskij e altri come Nikolaj Berdjaev o Vladimir Losskij, portò ad una relazione molto stretta e feconda tra la realtà francese e la cultura russa.

Alla fine Stravinskij decise di restare legato all’Ortodossia adducendo come prima motivazione il fattore linguistico, ma ciò era simbolico della voglia di non recidere tutte le radici che lo legavano alla sua terra, forzatamente abbandonata.
Il figlio Theodore, pur di far sì che gli venisse impartita un’educazione religiosa in America, venne educato in scuole cattoliche, e Stravinskij anni dopo appoggiò la sua scelta di abbracciare il cattolicesimo sostendendo che quella ortodossa “è stata, è, e sarà una Chiesa Nazionale”, e questa affermazione va a confermare tutte le analisi precedenti.

Le opere sacre

Pur non molto vasto, il catalogo di opere sacre e liturgiche di Stravinskij possiede caratteristiche peculiari e una rara immedesimazione per un compositore che abbia ad affrontare lavori simili, visti spesso come esercizi di stile che come opere di devozione.

Questo specifico corpus stravinskiano comprende le seguenti opere:

Pater Noster (1926)
Symphonie de Psaumes (1930)
Credo (1932)
Ave Maria (1934)
Babel, cantata per recitante, coro maschile e orchestra (1944)
Messa (1948)
Canticum Sacrum (1955)
Threni (1958)
A Sermon, a Narrative and a Prayer (1961)
Introitus (1965)
Requiem Canticles (1966)

Si tratta di un insieme abbastanza composito, in cui spicca sicuramente la Sinfonia dei Salmi, nella cui dedica compare l’indicazione iniziale “Cette Symphonie composée à la gloire de Dieu…”, esemplificando il contenuto spirituale dell’opera.

Tuttavia, ai fini di evidenziare come Stravinskij si approcci alla composizione di musica sacra, converrà porre l’attenzione su altre composizioni dell’elenco, meno conosciute, ossia la Messa e i Tre cori sacri, cioè Pater Noster, Credo e Ave Maria.

I Tre cori sacri erano scritti in slavo ecclesiastico ed erano esplicitamente pensati per l’ufficio ecclesiastico ortodosso, mentre la versione in latino risale al 1949 (anno seguente alla composizione della Messa). Come naturale conseguenza della destinazione liturgica, i cori sono composti a cappella: la liturgia ortodossa, difatti, non prevede l’uso della componente strumentale, troppo legata alla materialità mundana, a differenza della voce che è l’unico strumento adatto alla preghiera cantata.

Al di là della composizione a cappella, lo stile dei cori intende ritornare direttamente alle antiche tradizioni russe, contrariamente ad altri compositori come Rachmaninov e Čajkovskij che avevano provato a innovare la musica liturgica ortodossa rendendola più vicina ai modelli compositivi occidentali.

Di come Stravinskij intendesse occuparsi della musica sacra è conferma esemplare la Messa del 1948, uno dei pochissimi lavori composti senza nessuna sollecitazione esterna e senza nessuna commissione. Si tratta di una Messa destinata al rito cattolico romano, quindi con il testo in latino e, ad esempio, con l’intonazione del Credo assegnata alla voce del sacerdote, riferendosi alla rituale melodia gregoriana dell’Ordinarium Missae della chiesa cattolico-romana.

Se non proprio una sollecitazione esterna, una spinta pare esserci stata. In Exposition and Developments, spiegando le ragioni che lo spinsero a cimentarsi con la composizione di una Messa cattolica, racconta di essersi sentito sollecitato dall’ascolto di certe messe di Mozart definite da Stravinskij come “rococo operatic sweets of sin”, accusandole, insomma, di peccaminosità.

Rispetto alle canoniche Messe composte dai vari Mozart e Beethoven, Stravinskij compone musica non cercando di produrre un’opera d’arte indipendente, ma, ancora una volta, una composizione adatta all’ufficio liturgico anche nella durata (17 minuti circa). Questa intenzione si evince anche dalla scelta di un corpo strumentale modesto comprensivo di soli dieci strumenti a fiato, e, soprattutto, dalla scelta di voci bianche e maschili escludendo virtuosistiche parti di canto e lasciando emergere voci singole soltanto lungo brevi tratti della Messa.

Nella Messa si infonde un intenso e profondo distacco dalle cose terrene in virtù d’uno slancio di fede umile e sincera, una fede vivificata non solo nel solco dell’Ortodossia, ma anche nelle proprie crisi di fede e, cosa non trascurabile, nel dialogo con la cristianità cattolica.

Per Stravinskij la capacità artistica non è la discriminante fondamentale nella composizione di musica religiosa, anzi, può arrecarvi danno. Sfogliando le conversazioni con Craft si incontra questa domanda che pone a Stravinskij:

«Bisogna essere credenti per comporre in questo modo?»

«Certamente, e non semplicemente un credente nelle “figure simboliche”, ma nella Persona del Signore […] nei Miracoli della Chiesa.»

Il pensiero

La fede religiosa di Stravinskij si intreccia col suo modo di vedere il mondo, la politica, la musica. Non approvava l’ateismo del maestro Rimskij Korsakov, non approvava l’idea di chiudere le chiese durante l’influenza spagnola “adesso che bisogna pregare più che mai, le chiese dovrebbero essere piene e si chiudono, che assurdità!”.

Nello stesso 1926 che portò alla sua riconversione, in occasione del settecentesimo anniversario di Sant’Antonio affrontò un pellegrinaggio da Nizza a Padova, dove nella Basilica del Santo si trovò a pregare con tale fervore da percepire una “risposta”, arrivando a definire quell’occasione come “il momento più autentico della mia vita”.

Questi aneddoti non devono far pensare che per Stravinskij la fede fosse una sorta di slancio mistico e un abbandono all’irrazionale, tutt’altro; l’incontro con Maritain fu decisivo anche nell’indicare a Stravinskij la strada più chiara dove favorire l’incontro di fede e ragione, un bisogno necessario alla sensibilità di Stravinskij che, disprezzando l’emozionalismo in musica, era un fautore di un approccio “intellettuale”, nel senso di un’arte che abbia origine dall’intelletto e alla comunicazione all’intelletto voglia riferirsi, imprimendo nel sonoro materiale di pensiero.

Di molti artisti si è potuto scrivere che furono religiosi ma distanti dalle formule del rito e dai dogmi, ma ciò non può assolutamente dirsi di Stravinskij. Tant’è che, infatti, insorse contro chi dell’arte faceva strumento di sostituzione delle funzioni sacre: il bersaglio principale fu Wagner, anche se alcuni riferimenti nei confronti di Skrjabin ne fanno intravedere un altro possibile destinatario.

Contro il primo l’opposizione è diretta e feroce e nelle Cronache Stravinskij la esprime così, raccontando di un’esecuzione del Parsifal cui aveva assistito:

«Quello che mi disgusta in tutta questa impresa è lo spirito elementare che l’ha dettata, il principio di collocare uno spettacolo d’arte sullo stesso piano dell’azione sacra e simbolica che costituisce il servizio religioso. In verità questa commedia di Bayreuth, col suo ridicolo cerimoniale, non è forse una semplice scimmiottatura incosciente del rito sacro? […] Sarebbe veramente ora di finirla, una volta per tutte, con questa inetta e sacrilega concezione dell’arte come religione e del teatro come tempio.»

L’opera artistica di Stravinskij si muove tutta in direzione non solo di un certo stile compositivo, ma di un vero e proprio ricollocamento della posizione dell’artista nella funzione creativa.

Com’è noto, Stravinskij non ha nutrito molto favore verso la rivoluzione russa e si è sempre smarcato dall’idea di essere considerato rivoluzionario, ponendosi contro la valenza dell’idea stessa di “rivoluzione”.
I suoi tempi gli apparivano confusi e “la trionfante laicità, col degradare i valori spirituali e con l’avvilire il pensiero umano ci conduce a un totale abbrutimento.”
Eppure questo mondo parrebbe accorgersi del “mostro che sta per partorire” e quindi si rende conto che, secondo Stravinskij, “l’uomo non può vivere senza culto. Allora si tenta di raffazzonarne qualcuno ricavato dal vecchio arsenale rivoluzionario, e con ciò si crede di fare concorrenza alla Chiesa!”

Così, ancora una volta, il riferimento di Stravinskij viene riscoperto nel passato, questa volta nel Medioevo dove le “manifestazioni avevano come base la religione e come sorgente la fede. Per il loro spirito non si allontanavano dal seno della Chiesa che al contrario le proteggeva.”

Riproporre la dimensione medievale è funzionale al posizionamento dell’artista moderno nel solco dell’artigiano del Medioevo, l’Homo faber destinato alla costruzione più che all’invenzione, legato alla disciplina, all’ordine e al dogma, che per Stravinskij è necessario per il discernimento del valore.
Il dogma, le regole della proporzione, non rappresentano una prigione per Stravinskij che le vede anzi come la via alla libertà artistica in un campo che potrebbe essere definito “intellettualità estetica”, finendo così per ricordarci il pittore d’icone russo, così legato alla produzione d’opere nel solco della tradizione, e i riferimenti estetici di Arte e Scolastica (1920) di Jaques Maritain, suo amico e filosofo di riferimento.

Ancora una volta, quindi, un ponte tra Oriente e Occidente, nel segno della bellezza prodotta da un’umile operaio che imprime le idee alla materia modificandola e modellandola, in maniera tale da alimentare una “comunione ontologica” nel segno di una prossimità intersoggettiva: “ed è così che la musica ci appare come un elemento di comunione con il prossimo, e con l’essere.”

«Spero di rendere lode a Dio con una piccola arte, se ne ho una.»

Lorenzo Pompeo

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