Intrecci – intervista a Giacomo Susani
di Marco Surace - 5 Marzo 2025
Da sempre una delle mission fondamentali di Quinte Parallele è raccontare la grande musica d’arte, spaziando dai capolavori “al di sopra del tempo” alle proposte più interessanti del nostro tempo. In questa seconda categoria rientra l’album Intrecci. New compositions and arrangements for Guitar del chitarrista e compositore Giacomo Susani (con cui abbiamo già avuto il piacere di dialogare qualche tempo a proposito del Festival Homenaje, del quale cura la direzione artistica).
Il nuovo disco dell’artista padovano, pubblicato recentemente e distribuito sia in copia fisica che sulle piattaforme digitali, è stato realizzato con il sostegno del MIC e di SIAE, essendo risultato vincitore del programma “Per Chi Crea” 2024, nato per finanziare produzioni inedite di giovani musicisti under 35.
Susani propone un itinerario d’ascolto di notevole pregio, che mette in dialogo e crea un intreccio, per l’appunto, tra i due poli d’interesse intorno ai quali la nostra rivista orbita. Il progetto si articola infatti in quattro coppie di brani: uno di repertorio, da lui arrangiato per le sei corde, al quale viene affiancata una composizione originale.
Per l’occasione, lo scorso 10 febbraio sono stato in grado di rubare a Giacomo una mezz’ora del suo tempo e, tra una chiacchiera e l’altra, sono riuscito a dispiegare alcuni degli intrecci che si celano dietro questo percorso musicale e che ne costituiscono la linfa vitale.

Ciao Giacomo, intanto grazie ancora per avermi mandato il CD, che ho ascoltato molto volentieri. Personalmente è sempre bello per me avere a disposizione la copia fisica, dove si possono leggere le note dell’autore nel booklet e quindi sviscerare ancor più in profondità il contenuto, musicale e non, del lavoro discografico!
Come è nato questo progetto, anche in relazione all’ambito del programma SIAE “Per Chi Crea”?
Ciao Marco, grazie a te! Come hai già detto tu, si trattava di un bando della SIAE in collaborazione con il Ministero della Cultura, i quali hanno stanziato fondi per la realizzazione di album di nuova musica. Questi fondi erano rivolti a giovani compositori e interpreti (under 35). Secondo la dicitura del bando, musica “nuova” era da intendere soprattutto come musica “inedita”, ovvero brani che non fossero stati eseguiti pubblicamente, o più genericamente presentati in contesto pubblico prima dell’uscita del bando. Per cui l’idea di questo mio CD è partita innanzitutto dal cercare di usufruire di questa occasione per fare un CD di musiche mie; poi mi è venuta l’idea di associare ad ogni brano originale delle trascrizioni fatte da me. La SIAE ha accettato, in quanto gli arrangiamenti per chitarra sola che avrei realizzato, sarebbero stati inediti.
Ho quindi cercato di produrre un CD di musica nuova che presentasse questi due aspetti, quello della composizione e quello dell’arrangiamento. I brani di repertorio che ho scelto sono assolutamente riconoscibili nella loro versione trascritta, che è naturalmente fedele alla fonte, però sono stati realizzati con l’obiettivo di renderli più possibile idiomatici per il nuovo strumento, per cui sono frutto di un processo creativo importante. Ogni coppia esplora diversi aspetti estetici, espressivi e tecnici della chitarra attraverso queste due lenti.
Parlando di ‘trascrizione’ e ‘arrangiamento’, penso sia interessante approfondirne le possibili definizioni. Concepisci l’idea di arrangiamento come una trascrizione che reinventa in maniera più libera? Come definiresti questi due poli?
Come dici tu sono due approcci diversi a un’operazione simile. Quando parlo di trascrizione intendo un’operazione il più possibile letterale rispetto alla fonte. Per arrangiamento intendo, sempre nel rispetto dell’originale, un nuovo prodotto che tenga conto della resa strumentale della nuova formazione per cui si va ad arrangiare, in questo caso dello strumento chitarra. Parlo proprio di idiomaticità, pertanto di resa poetica del contenuto musicale dell’originale quando incontra un nuovo strumento; più che assecondare la mia immaginazione, che è un veicolo per arrivare a questo obiettivo, io ho voluto nobilitare la resa strumentale, senza però travisare determinati aspetti fondamentali dell’originale.Diciamo che il mio approccio sta a metà strada tra queste due definizioni, e, in base alle caratteristiche di ogni singolo brano, si avvicina di più alla trascrizione o all’arrangiamento. Nella versione che propongo di Moon River compare chiaramente la melodia, però intorno c’è tanta musica, quasi un pezzo nuovo; nel caso dei brani di repertorio, come per esempio Haendel [la Fuga per organo tratta dal Voluntary X], l’approccio è molto più vicino alla trascrizione perché è quasi letterale rispetto all’originale, c’è solo qualche trasposizione delle voci verso la fine. Tchaikovsky [June, per pianoforte] forse è il brano che rappresenta al meglio il mio modo di lavorare, perché sta a metà strada tra una vera e propria trascrizione – il brano dalla prima all’ultima nota si riconosce – e un arrangiamento, perché comunque è riadattato, a volte semplificato, a volte ampliato. È un’operazione che, appunto, passa attraverso il filtro dello strumento.
Ho deciso di prendere in considerazione le due anime paganiniane del virtuosismo estremo solitamente associato al violino e dell’introversione più intima della chitarra e cercare un punto d’incontro tra questi due mondi attraverso la mia sensibilità.
Molto stimolante la tua riflessione! Ci tenevo ad approfondire questo dualismo anche perché il sottotitolo del tuo CD è New compositions and arrangements. Ma a proposito di titoli, il tuo disco si chiama Intrecci e penso di averne scovati di diversi tipi, però partirei al momento dalla cosa più lampante. È infatti anche il nome del tuo brano che omaggia Niccolò Paganini in una duplice veste, violinistica e chitarristica, con soluzioni interessanti che vanno dall’uso quasi tematico di intervalli di quinta a momenti che richiamano le doppie corde dello strumento ad arco, e tecniche più proprie delle sei corde (dalle campanelle all’enfasi sulle timbriche). Com’è nata l’idea di omaggiare Paganini in questo modo? E perché scegliere proprio Intrecci come titolo del disco?
Il brano nasce da una commissione del Paganini Guitar Festival, che mi ha dato carta bianca nella creazione di un pezzo che avesse un legame con la figura di Paganini. Ci sono molti modi in cui un compositore può affrontare questo lavoro e una parte importante della mia ricerca negli ultimi anni ha avuto a che fare con l’uso di materiale preesistente: selezionare materiale, melodico molto spesso, ma anche ritmico e armonico di brani precedenti e inserirlo all’interno del tessuto di un brano nuovo l’ho fatto spesso. In questo caso, con Paganini, ho voluto fare qualcosa di un poco diverso. Quest’occasione mi è sembrata ideale proprio per via della personalità artistica duplice di Paganini, che sappiamo bene essere associato al violino come suo strumento principe, ma che è stato anche un importantissimo chitarrista. Quindi ho deciso di prendere in considerazione le due anime paganiniane del virtuosismo estremo solitamente associato al violino e dell’introversione più intima della chitarra e cercare un punto d’incontro tra questi due mondi attraverso la mia sensibilità. In questo brano non c’è effettivo materiale di Paganini, ma ci sono delle idee di Paganini che esistono nell’immaginario collettivo dei musicisti. Il mio approccio si esprime attraverso l’utilizzo di gesti idiomatici associabili ai due strumenti; come hai detto tu, ci sono delle figure di arpeggiidiomatiche del violino che utilizzano inizialmente gli intervalli delle corde a vuoto dello strumento e che successivamente danno vita a contesti armonici più complessi. Questo contrapposto a tecniche idiomatiche come le campanelle o le legature chitarristiche. C’è poi la ricerca di una forte cantabilità. Ho cercato di sviluppare un lirismo che porti all’estremo la voce della chitarra: ci sono dei lunghi gesti melodici su una corda sola che sulla chitarra si spingono ai limiti della tensione emotiva e puntano ad evocare l’espressione romantica della cantabilità violinistica.

Sono tanti, dicevo, gli intrecci che si intravedono nel tuo itinerario d’ascolto: quello tra tradizione e innovazione – accostare un brano preesistente a un tuo brano -, un intreccio tra strumenti – attraverso la chitarra dài una nuova voce a brani del mondo violinistico (il Caprice n.4 di Pierre Rode), pianistico (June di Tchaikovsky), organistico (la Fuga di Haendel tratta dal Voluntary X); c’è poi una dimensione di intrecci con le altre discipline artistiche. In Dialogo (Omaggio a Lauro) l’elemento di ispirazione di base è la poesia Venimos de la noche y hacia la noche vamos… di Vicente Gerbasi, mentre i tre quadri di Frederic Leighton sono trasmutati nei tre movimenti del tuo Leighton Triptych.
Tutti i miei brani all’interno di questo album hanno un’ispirazione esterna. Intrecci è quello più astratto perché, come abbiamo appena detto, ha a che fare coi gesti degli strumenti. In ogni caso, questa è una caratteristica propria del mio stile, che ricorre spesso nei miei lavori. Ad esempio, il Concerto per chitarra a dieci corde e orchestra Lungo il Po che ho composto e ho diretto in prima assoluta a dicembre in Colorado insieme a Nicolò Spera e la Boulder Chamber Orchestra, è ispirato a un libro di architettura e usa materiale musicale preesistente di Monteverdi. Questo è un intreccio che, come dici tu, esiste all’interno dell’album, ma includere brani che avessero un’ispirazione altra dalla musica non è stata una decisione presa volutamente. Nel Dialogo l’ispirazione esterna è una poesia di Gerbasi e il brano si fonda sull’utilizzo di intervalli che derivano dalle corde a vuoto del Cuatro, strumento tradizionale venezuelano. Tutto questo sempre comunque nasce, come nel caso di Intrecci, da una necessità pratica, cioè dalla commissione che mi era stata fatta per la realizzazione di un brano che omaggiasse il Venezuela e Antonio Lauro. Nel caso del Leighton Triptych una mia allieva privata, e ormai anche amica molto cara, che vive a Londra di nome Ekaterini (Nina), ha festeggiato recentemente un compleanno importante e per l’occasione mi ha chiesto di comporre un pezzo per lei. Le ho scritto quello che ora è il primo movimento, Flaming June, ispirato a un quadro di Leighton che le piace molto. Poi, per espandere il brano e poterlo includere all’interno del CD, ho composto altri due movimenti, rispettivamente collegati a due altri quadri dello stesso autore (Study at a Reading Desk e Winding the Skein).
Com’è stato il processo di creazione musicale a partire dal quadro? Che tipo di elementi hai tratto, se l’hai fatto in maniera conscia? Spesso in questo tipo di situazioni interviene una componente di ispirazione inconscia o quantomeno al limite del conscio.
Questo è un aspetto molto interessante a cui io penso spesso. Come ritengo sia il caso di quasi tutti i compositori, il mio lavoro si muove tra il conscio e l’inconscio e ogni tanto trae ispirazione più da una parte che dall’altra. Sono uno che ha sempre riconosciuto il grande potenziale creativo dell’inconscio: ritengo altresì che questo necessiti di essere nobilitato da un rigoroso lavoro di studio, dalla riflessione, dalle conoscenze che una persona accumula durante la sua vita; però non sono un compositore che desidera pianificare e organizzare tutto razionalmente prima della scrittura.
Questo CD è forse un omaggio alla parte più inconscia, più liberamente ispirata della mia produzione. L’unico brano che ha degli aspetti più razionalmente costruiti è l’Omaggio a Lauro, perché prende ispirazione da intervalli precisi e li utilizza in un modo specifico all’interno del brano. Gli altri sono tutti ragionati, tutti frutto di riflessione importante, però sono nati molto naturalmente dal mio far musica con lo strumento in mano. Io sono convinto che lo strumento chitarra sia, fra tutti gli strumenti, se non il più evocativo in assoluto, uno dei più suggestivi e che quindi abbia una forza poetica particolarmente spiccata, che può essere una grande risorsa compositiva. Allora, per rispondere alla tua domanda: quest’idea del quadro musicale è a metà strada tra il prendere ispirazione dal quadro e assecondare il quadro al mio pezzo. Nel caso di Flaming June, avendo scelto il quadro in anticipo per fare il regalo a Nina, guardavo il quadro e avevo delle sensazioni, reagivo in un modo istintivo, sceglievo certi ambiti sonori, un’atmosfera, certi modi, certi accordi; seguiva poi una fase improvvisativa, esplorativa dello strumento, che si allontanava dal quadro. Perciò non è tanto l’idea di rappresentare il quadro, quanto di rappresentare il legame che c’è tra il mio sentire il quadro e il mio rappresentarlo. Per me, il fare musica ispirata a un’arte così astratta come un quadro è sempre sia una rappresentazione esteriore sia un’esperienza interiore. Fosse un romanzo, una pièce teatrale, sarebbe una cosa diversa. Quando si parla di poesia, piena di simboli, e quando si parla di pittura, ecco lì regna l’influenza dell’inconscio.
In qualità di compositore, quando mi trovo a pensare a ciò che mi guida nel creare musica, mi confronto con due diverse sfaccettature del mio carattere di artista: la prima è una dimensione puramente ispirata che trova la sua identità più profonda nel confronto col suono della chitarra, l’esplorazione del suo potenziale espressivo e l’astrazione della sua natura evocativa. A questa si affianca un’esigenza di rigore e ordine razionale che è figlia del pensiero che va oltre lo strumento ma che non lo rifugge e, anzi, tenta di sublimarlo.
(Giacomo Susani, note dell’autore in Intrecci)
La tua splendida riflessione mi slancia verso un’altra questione. Ciò che fai emergere in questo CD è un intreccio tra il te chitarrista – artista sonoro e artigiano dello strumento – e l’artigiano della composizione.
All’atto pratico, come si estrinseca questo dualismo del tuo artigianato compositivo, cioè con quale modus operandi nasce effettivamente poi il lavoro?
Mi interessa anche perché, come spieghi tu nelle note introduttive del Cd, il secondo e il terzo movimento del Leighton Triptych non erano scritti o annotati al momento della registrazione. Questo probabilmente è un caso anche che merita anche un cenno più specifico.
Questi due brani del CD non avevano forma scritta e non ce l’hanno ancora, per colpa di tanti impegni, e rappresentano proprio un estremo del mio modus operandi, che si ricollega a quello che dicevo prima: una vena ‘improvvisativa’, forse è più giusto definire esecutiva, che è molto legata al mio lato di interprete. Da una parte c’è un pensiero in dialogo con il gesto strumentale e dall’altra c’è un gesto strumentale che suggerisce nuove idee al pensiero, che è sempre all’erta. Questo è un estremo, appunto, ed è quello che mi ha permesso di iniziare a scrivere ai miei esordi. La composizione, giustamente, è un’arte del pensiero e viene insegnata attraverso l’analisi e la conseguente interiorizzazione di tecniche compositive del passato più o meno recente. Questo va benissimo, è una cosa fondamentale. Però io sostengo che la musica, alla fine dei conti, sia suono, si debba concretizzare attraverso degli esecutori, siano questi gli stessi compositori o meno.
Un compositore “puro” che non suona uno strumento o suona il pianoforte perché lo ha fatto come studio complementare durante gli studi di composizione, ragionerà in un modo diverso da colui che invece ha la sua psicologia modellata da un lungo rapporto con uno strumento dal punto di vista esecutivo. Io sono chitarrista e lo sono da sempre. Il momento in cui ho cominciato a esercitare professionalmente come compositore è stato quando la mia sensibilità di esecutore aveva raggiunto un certo livello, quando mi sentivo di avere una confidenza con lo strumento tale da far nascere un’intesa per cui potevo cominciare a dialogare creativamente con questo strumento. Per esempio, il mio primo pezzo per chitarra (che si chiama The Blue Madeleine) è nato senza che scrivessi neanche una nota, ma questo non vuol dire che un giorno mi son svegliato ed è venuto fuori il pezzo! Ci ho messo giorni, durante i quali suonavo continuamente. Ecco, questo è un estremo che è stato anche il mio primo modo di scrivere, proprio perché era, per me, il più naturale; questo trittico, che invece è un pezzo molto recente, è stato fatto allo stesso modo e infatti mi ha riportato indietro, con un po’ di malinconia. Mi sono sentito molto libero, fino al punto da concluderne la composizione in studio di registrazione.
Ritornando al discorso di prima, il compositore però deve avere una forma mentis di un certo tipo, perché questa forma di creazione così estemporanea è difficile da controllare, sviluppare e nobilitare; infatti nei miei lavori più recenti sento sempre di più l’esigenza del pensiero razionale che citavi tu. Adesso che sto lavorando a progetti importanti e di largo respiro con l’orchestra e senza chitarra, sto ragionando molto al di fuori di questa dimensione strumentale; però, nel momento in cui comincio a scrivere, tengo conto sempre della realizzazione sonora e del fatto che comunque rimango un esecutore. Questo per me è un valore aggiunto e sento che ha un impatto notevole sul mio lavoro.
E a proposito di nuovi progetti, cos’altro hai in cantiere come compositore, esecutore e direttore artistico? Insomma, dove possiamo incrociarti (o dovrei dire a intrecciarti) prossimamente?
Come esecutore gli impegni più immediati sono un po’ di concerti: questo venerdì, 14 febbraio, suonerò in trio con due bravissimi musicisti Eleonora Matsuno e Cosimo Carovani, che sono rispettivamente primo violino e violoncello del Quartetto Indaco. Abbiamo fondato il Trio De Chirico poco tempo fa e fatto il nostro primo concerto in Svizzera a fine gennaio; adesso suoniamo a Milano, poi saremo in concerto anche a Barco Teatro a Padova il 29 marzo e abbiamo intenzione di farne altri. Come solista sarò a Bari a fine marzo, a Cesena ad aprile e altri che verranno.
Come compositore ora ho veramente molti progetti. L’anno scorso ho avuto due grosse commissioni che mi hanno tenuto molto impegnato, uno era il Concerto per chitarra a dieci corde di cui ti parlavo prima, eseguito in prima lo scorso dicembre; contemporaneamente ho lavorato anche a un ciclo di nuove canzoni per chitarra, due controtenori, tenore e voce narrante che ho realizzato in collaborazione con una poetessa americana di nome Chinwe D. John, che mi ha contattato un anno fa per collaborare. È molto lungo, dura più di un’ora, e lo registreremo a luglio con una casa discografica prestigiosa a Londra, sperando poi di poterlo eseguire spesso dal vivo.
Come dicevo prima, ci sono anche delle commissioni che non hanno a che fare con la chitarra: un progetto orchestrale e altri brani. Infine, parlavi dell’aspetto di organizzatore: a Padova c’è Barco Teatro, che gestisco con la mia famiglia ed è in piena attività. Adesso inizierà la stagione e abbiamo un po’ di novità; io sono diventato direttore artistico della stagione cameristica, sostituendo Alessandro Tommasi, e abbiamo anche un nuovo direttore artistico della parte contemporanea: Francesco Antonioni, un compositore straordinario. Investiamo molto oltre che sulla chitarra come strumento principe anche sulla musica contemporanea. Come sempre a settembre c’è il Festival “Homenaje” di chitarra, di cui sono sempre stato direttore artistico, che quest’anno raggiunge la sua quinta edizione e avrà luogo dal 6 al 14 settembre. Tra poco ci saranno tutti i dettagli.