Ultimo aggiornamento19 marzo 2025, alle 10:42

Caso Čajkovskij: suicidio?

di Linda Iobbi - 16 Luglio 2024

[Le date riportate nel seguente articolo sono in base al calendario giuliano, utilizzato al tempo dei fatti. Tra parentesi verranno indicate le date in base al calendario gregoriano] 

Nella notte del 25 ottobre 1893 (6 novembre) Čajkovskij muore nella sua casa a San Pietroburgo all’età di 53 anni. Ad assisterlo negli ultimi istanti ci sono i fratelli Nikolaj e Modest, e il nipote Vladimir Davydov. 
Lo stesso giorno la notizia viene riportata sul quotidiano Novosti i birźevaja gazeta (La gazzetta delle notizie e della Borsa). Le cause della morte vengono ricondotte al colera che il compositore avrebbe contratto pochi giorni prima dall’ingestione di un bicchiere di acqua contaminata. 
Il giorno dopo, il 26 ottobre (7 novembre), viene pubblicato il necrologio sul giornale Pravitel’stvennyj Vestnik (Messaggero del Governo). 
Sulla Gazzetta di San Pietroburgo iniziarono a trapelare i primi interrogativi: “Come avrebbe potuto Čajkovskij contrarre il colera quando viveva in condizioni igieniche più che eccellenti ed era arrivato a Pietroburgo soltanto qualche giorno fa?
Il giorno successivo, 27 ottobre (8 novembre) il medico curante Lev Bertenson, in risposta alle accuse di negligenza, pubblica sul giornale pietroburghese Novoe Vremja (Il nuovo tempo) un articolo dove delinea il decorso della malattia e le cause della morte riconducendole al colera. 

Durante i giorni antecedenti ai funerali, il corpo di Čajkovskij viene esposto nella sua casa per permettere ad amici e parenti di dare l’ultimo saluto al compositore, nonostante le disposizioni in caso di morte per colera ordinano di chiudere il corpo in una bara subito dopo il decesso. 
Il funerale viene celebrato nella Cattedrale di Kazan’ tre giorni dopo la morte e il corpo viene seppellito nel cimitero Aleksandr Nevskij, senza fare un’autopsia.
Come riportato nelle memorie dell’amico I. A. Klimenko (1909), durante quei giorni in città non si parlava d’altro e iniziarono a girare le prime voci che insinuavano un probabile suicidio del compositore.
Solo nove giorni prima della morte avveniva la prima esecuzione della sesta sinfonia “La patetica”. Il carattere lugubre che caratterizza la composizione fece sì che dopo la morte del compositore, la sinfonia venne interpretata come un lascito spirituale, il Requiem che lo stesso compositore si sarebbe scritto prima di mettere fine alla sua vita.  Nella storia della musica possiamo rintracciare un precedente molto simile: il caso della morte di Mozart. 
Per mettere a tacere le teorie alternative,  il 1 (13) novembre Modest Čajkovskij pubblica su diversi quotidiani la sua versione dei fatti poiché “considero necessario, per mettere fine a varie contraddittorie dicerie, consegnarVi per la pubblicazione una dichiarazione il più possibile  completa su tutto ciò di cui sono stato testimone”.  

Nel novembre 1980 sulla rivista Novyi amerikanez (Il nuovo americano) la musicologa immigrata russa Aleksandra Orlova pubblica un articolo nel quale attraverso testimonianze inedite sostiene un’ulteriore tesi sulle cause della morte: suicidio come sentenza di una corte d’onore.

Il colera e la camera ardente

Il 26 ottobre (6 novembre) esce il necrologio sul giornale pietroburghese Novoe Vremja. Il defunto è ancora nella casa ed iniziano i giorni di veglia che precedono i funerali. Di queste ore abbiamo diverse testimonianze, le quali però non raccontano la stessa versione, lasciando molti interrogativi. 
La testimonianza più famosa e importante di quei giorni è senza dubbio quella di Rimskij Korsakov: “Era strano che nonostante la morte a seguito del colera a chiunque era permesso di partecipare alla veglia funebre! Ricordo come [Alexander] Verzhbilovich [violoncellista], completamente ubriaco dopo qualche bisboccia, baciava il morto sulla testa e sul volto”. (Rimskij-Korsakov). 

Nell’appartamento non facevano entrare nessuno, tranne un sacerdote che officiava la veglia funebre. Mio fratello Vladimir uscì dalle scale e una volta seduti sui gradini, parlammo a lungo.

Jurij Davydov


Questa testimonianza diede alla Orlova motivo di dubitare sulle ufficiali cause di morte. Se si fosse trattato realmente di colera non sarebbe stato permesso in alcun modo di entrare nell’appartamento e soprattutto il corpo del defunto sarebbe stato immediatamente inserito in una bara chiusa come prevedevano le procedure esposte tramite l’avviso del Messaggero del Governo (Gazzetta ufficiale) datato 2 (14) luglio 1892 e successivi dello stesso anno. E’ molto probabile che i familiari di Čajkovskij abbiano inscenato la morte per colera per nascondere la verità, ovvero il suicidio.
Il racconto di Rimskij-Korsakov risulta però essere completamente in disaccordo con quello del nipote Jurij Davydov: “nell’appartamento non facevano entrare nessuno, tranne un sacerdote che officiava la veglia funebre [panihida]. Mio fratello Vladimir uscì dalle scale e una volta seduti sui gradini, parlammo a lungo.”(Davydov). 
Per sondare ogni strada possibile, mettiamo ora in dubbio le memorie di Davydov e prendiamo in considerazione per vero la testimonianza di Rimskij-Korsakov analizzando la situazione nel dettaglio storico. 

L’ondata pandemica di colera nella quale muore Ciaikovskij è la quarta da quando nel 1860 questo batterio si diffuse nell’Impero zarista. Nonostante la Orlova prenda in considerazione l’avviso del 1892, lo storico russo Aleksandr Poznavskij replica che già nella primavera del 1893 le direttive erano cambiate. A seguito di una seduta del Consiglio dei Medici, nella Gazzetta ufficiale del 25 marzo (6 aprile) 1893 viene disposto che “la bara aperta può trovarsi in chiesa, se il corpo del defunto è stato lavato e avvolto in lenzuola pregne della stessa sostanza [disinfettante]”. 
Le disposizioni da tener presente al momento della morte di Čajkovskij sono pertanto queste ultime, risalenti a pochi mesi prima della morte del compositore e non invece quelle dell’anno precedente, le quali erano sicuramente più stringenti poiché il colera era maggiormente contagioso. Se presa per veritiera la testimonianza di Rimskij-Korsakov, azioni come tenere il corpo esposto e il permesso di entrare nell’appartamento non andrebbero in contrasto con le norme impartite dal governo. Senza aggiungere il fatto che il comportamento incauto di Verzhbilovich è da interpretare alla luce delle condizioni di dubbia sobrietà come sottolineato dallo stesso Rimskij-Korsakov. 
Nel caso specifico di Čajkovskij oltretutto la causa della morte non venne ricondotta direttamente al colera, ma quanto alle conseguenze di indebolimento dei reni e del cuore a causa della malattia. Con molta probabilità l’infezione si arrestò il 22 ottobre (3 novembre), come già espresso nell’articolo del medico curante Bertenson e altresì deducibile dalla testimonianza scritta e pubblica di Modest. Abbiamo una ricca testimonianza degli ultimi giorni di Čajkovskij.
Poznavskij aggiunge che Čajkovskij era un personaggio famoso, amato e rispettato da tanto pubblico e la sua morte non era un evento ordinario. Nessuna normativa avrebbe in ogni caso impedito agli amici e ammiratori di dare un ultimo addio. L’eccezionalità del fatto, avrebbe probabilmente costretto le autorità a chiudere un occhio. 

Intenti suicidi

All’epoca dei fatti, morire di colera era uno stigma sociale. La maggior parte dei malati era la fetta più povera della popolazione. Privi di adeguate condizioni igienico sanitarie, i bassifondi delle città erano un ricettacolo di malattie mortali, tra cui ovviamente il colera. La morte di un aristocratico, per di più così importante e famoso come Čajkovskij, poneva tanti interrogativi. La storia del bicchiere d’acqua bevuto così incautamente non coincide inoltre con le abitudini igieniche accurate che il compositore risaputamente seguiva. Čajkovskij era perfettamente a conoscenza delle disposizioni che prevedevano l’ebollizione dell’acqua prima del consumo, come metodo sicuro per non contrarre la malattia. 
Altro punto molto dibattuto è il tempismo di questo bicchiere d’acqua. Sia nel caso che l’episodio fosse avvenuto il 20 ottobre (1 novembre) in base alla testimonianza del nipote Davydov, sia che fosse stato il giorno dopo 21 ottobre (2 novembre) secondo il fratello Modest, i primi allarmanti sintomi comparvero la sera del 21 ottobre (2 novembre). Tutto ciò non quadra con il periodo di incubazione del colera, ovvero almeno un paio di giorni, se non cinque. Entrambi i racconti potrebbero essere interpretati come una copertura costruita per celare il suicidio. 
A questo punto è lecito provare a seguire questa strada.

Tramite le memorie di Nikolaj Kashkin (amico e professore del conservatorio di Mosca) sappiamo che nell’autunno del 1877, poco dopo il matrimonio con Antonina Miljukova,  Čajkovskij tentò di suicidarsi in modo “indiretto” gettandosi nel fiume Moscova per ammalarsi e morire. Il compositore confessò all’amico che lo stato d’animo di quel periodo era estremamente cupo: la sensazione di non avere vie d’uscita si univa a dei profondi sensi di colpa. L’unico modo per scappare dalla sua irrimediabile condizione era suicidarsi e farlo nel modo meno appariscente possibile.
A riprova della veridicità delle memorie di Kashkin (pur lasciando leciti dubbi a diversi studiosi), una lettera di Čajkovskij del 25 ottobre dello stesso anno confermerebbe lo stato evidentemente depressivo del compositore e i pensieri suicidi che lo accompagnavano.
L’intento era chiaro: ammalarsi e morire. A questo punto sorgono delle domande: cosa tormentava Čajkovskij? Perché voleva suicidarsi?

Motivi del suicidio: l’omosessualità di Čajkovskij

Čajkovskij era gay. Le lettere al fratello Modest (anch’egli gay) esprimono a pieno il senso di inadeguatezza e sofferenza che il compositore provava verso se stesso. Nina Berberova nella sua coraggiosa biografia racconta molto proprio di quel malessere legato alla sessualità che tormentava e caratterizzava la personalità di Čajkovskij.
La depressione e il tentato suicidio del 1877 coincidono con il matrimonio non a caso. Čajkovskij si convinse che il matrimonio sarebbe stata la cura giusta. Fu una decisione inevitabilmente sbagliata che non fece altro che peggiorare le condizioni mentali già critiche. 

L’orientamento sessuale di Čajkovskij non giustificherebbe soltanto i pensieri suicidi, ma induce ad avanzare un’altra tesi sulle cause effettive della sua morte. Secondo lo studioso Anthony Holden (1995), Čajkovskij avrebbe contratto il colera frequentando i prostituti di San Pietroburgo che non vivevano in condizioni igieniche adeguate. La storia del bicchiere contaminato sarebbe dunque un’invenzione dei famigliari per nascondere la reale via di contagio ed evitare scandali. 
Oltre ai contributi medici che confermerebbero la possibilità di contrarre il colera tramite questa via di trasmissione, Holden non riporta però ulteriori prove sul fatto che Čajkovskij frequentasse prostituti, rendendo la sua tesi estremamente debole e basata quindi esclusivamente su congetture.  

Confessioni e verità

Čajkovskij si è avvelenato

Vasilij Bertenson

L’amico architetto I. A. Klimenko riporta nelle sue memorie del 1909 come dopo la morte di Čajkovskij iniziarono a girare voci sul suo presunto suicidio. Inizialmente queste teorie alternative si erano diffuse nella cerchia di allievi del dottor Bertenson, criticato per negligenza (Poznavskij). Sia Vasilij che Lev Bertenson, trattando esclusivamente pazienti appartenenti alla più alta nobiltà, non avevano mai curato il colera e conoscevano il batterio solo tramite studi teorici. Possiamo supporre che entrambi cercarono di fare il possibile ma inevitabilmente fallirono.  
Nel 1920, l’ormai anziano Vasilij Bertenson farà una confessione a Georgij Orlov, amico e compagno di conservatorio del figlio: “Čajkovskij si è avvelenato”.  Nello stesso periodo, anche il dottor Zander, assistente di Bertenson, confesserà lo stesso segreto al proprio figlio Jurij che condividerà tali informazioni con l’amico Orlov. La moglie di quest’ultimo, Aleksandra Orlova, inizierà la sua ricerca per scoprire la verità. 
La tesi del suicidio inizia a farsi strada in modo prepotente e lascia diverse domande aperte: in che modo Čajkovskij si suicidò? Si avvelenò, ma con quale veleno esattamente? Come se lo procurò? Chi era a conoscenza di ciò che stava accadendo?

Aleksandra Orlova emigra negli Stati Uniti intorno al 1970 lasciando il suo lavoro presso la casa museo Čajkovskij di Klin, vicino Mosca. Negli anni trascorsi in Russia, Orlova ebbe modo di raccogliere diverse informazioni e confessioni che i contemporanei di Čajkovskij e persone vicino al compositore lasciarono dette alla studiosa personalmente. Ciò che quest’ultima raccolse aveva una portata talmente sensazionalista che per vedere alla luce la prima pubblicazione, la studiosa dovette aspettare il 1980, quando i testimoni passati a miglior vita, erano al sicuro da eventuali ripercussioni da parte del governo sovietico. 
Gran parte della tesi è basata sulla confessione che Aleksandr Voitrov fece alla Orlova nel 1966. Voitrov era studente della Scuola di Giurisprudenza, la stessa che Čajkovskij frequentò prima di entrare in Conservatorio. 
Un giorno del lontano 1933, la vedova del procuratore Jacobi, Elizabeta Karlovna, confessò a Voitrov un fatto riguardante il caso Čajkovskij.

“Čajkovskij  era minacciato da una seria sciagura. Il conte Stenbock-Fermor era stato messo al corrente delle attenzioni che il compositore rivolgeva al suo giovane nipote, aveva scritto una lettera ufficiale a Jakobi, che all’epoca era Capo Procuratore Deputato del Dipartimento d’Appello Criminale di Stato, affinché recapitasse ad Aleksandr III. L’esposto avrebbe inevitabilmente causato a Čajkovskij una disgrazia irreparabile. L’esposto avrebbe anche fatto cadere in disgrazia la Scuola di Giurisprudenza e tutti i diplomati che erano stati compagni di studi di Čajkovskij. Ma l’onore dell’uniforme della Scuola era considerato sacro da tutti i suoi diplomati. 
Per evitare che la cosa diventasse di dominio pubblico, Jakobi decise di agire: invitò tutti i vecchi compagni di studi di Čajkovskij a casa sua, compreso lo stesso compositore e organizzò un giurì d’onore. In tutto c’erano otto persone […] La stessa Elizaveta Jakobi era seduta con il suo lavoro a maglia al solito posto nel salotto adiacente allo studio del marito. Si potevano sentire le voci che ne provenivano di tanto in tanto, a volte forti ed agitate, a volte ridotte a sussurri. La cosa andò avanti molto a lungo, quasi cinque ore. Poi Čajkovskij uscì all’improvviso dallo studio. Era molto pallido e sconvolto […]. Tutti gli altri rimasero ancora a lungo nello studio, parlando a bassa voce. Ma quando i visitatori se ne furono andati, dopo aver fatto giurare a sua moglie di mantenere il segreto, Jacobi le raccontò che avevano discusso della lettera di Stenbock-Fermor allo Zar. Jakobi non aveva diritto di ostacolare il corso della lettera. E così i vecchi compagni avevano preso una decisione che Čajkovskij aveva promesso di rispettare. La lettera poteva essere trattenuta soltanto nel caso in cui fosse morto… Dopo un giorno o due la notizia della sua malattia fatale si sparse per San Pietroburgo”

Orlova ipotizza che la corte si sarebbe riunita il 19 (31) ottobre, mentre il veleno fu probabilmente consegnato il 21 ottobre (2 novembre), quando durante quella mattina abbiamo conferma della visita che l’avvocato August Gerke fece a Čajkovskij per discutere del nuovo accordo con la fabbrica di pianoforti Bessel. Probabilmente era solo un pretesto.
Per valutare la veridicità delle parole del testimone è necessario però verificare la reale esistenza delle persone chiamate in causa e i loro rapporti con Čajkovskij. 

I Stenbock-Fermor erano una rispettabile famiglia di origine austriaca facente parte della nobiltà pietroburghese. Attraverso approfondite ricerche, Poznavskij individua il fantomatico nipote con la persona di Aleksandr Vladimirovich Stenbock-Fermor. 
Dalla biografia curata da Nina Berberova sappiamo che durante un viaggio in piroscafo vicino ad Odessa, Čajkovskij aveva conosciuto un giovane quattordicenne. Il precettore di quest’ultimo avrebbe comunicato al padre, barone Stenbok-Fermor, l’interesse equivoco del compositore verso il ragazzo.
Oltre a questo appunto (dove lo zio conte sarebbe il padre barone, un’ulteriore incongruenza), ricostruire l’incriminante relazione è tutt’altro che semplice poiché in nessuna lettera del compositore, neanche in quelle più intime e sincere al fratello Modest, vi è citato né il nome dei Stenbock-Fermor né tanto meno di Aleksandr. Possiamo presumere che la censura sovietica o lo stesso Modest abbiano fatto sparire lettere sospette per non lasciare traccia della relazione, ma resterebbe un’ennesima incoerenza legata al ruolo di Jacobi nella vicenda. 

Secondo Poznavskij, l’adirato zio conte Stenbock-Fermor era Aleksej Aleksandrovič, gran scudiero dello Zar Alessandro III, pertanto una figura rilevante che non necessitava del tramite di Jakobi per raggiungere lo Zar. Ponendo anche il caso che il conte Stenbock-Fermor volesse percorrere una strada ufficiale coinvolgendo altre persone, la scelta di portare Čajkovskij di fronte ad un tribunale d’onore non coincide con la classe di persone di cui stiamo parlando. Sia Stenbock-Fermor che Jakobi sono figure di alto rango, diplomatici e uomini con una certa etica. Chiedere al più grande compositore del momento di suicidarsi solo per aver intessuto una relazione omossessuale, quando nella stessa famiglia Stenbock-Fermor, l’eroe di guerra Adam Maksimovič era risaputamente gay, è una sentenza estrema. Ancora a fine ‘800 la maggior parte delle questioni private della società nobiliare non veniva discussa con una corte d’onore, ma tra pari. Ricordiamo ad esempio di come lo scrittore russo Aleksandr Puškin morì nel 1837 in un duello sfociato a seguito di dissidi privati legati ad accuse per adulterio. Se anche Stenbock-Fermor fosse stato infastidito dalla relazione di Čajkovskij con il nipote, la questione si sarebbe risolta  tra gentiluomini, senza arrivare a scomodare un intero consiglio di persone legate ad un’istituzione della quale il compositore non faceva più parte e non frequentava. 

Altro aspetto che Poznavskij porta all’attenzione è proprio quest’ultimo particolare. Čajkovskij non era più membro della Scuola di Giurisprudenza e non frequentava praticamente nessuno dei suoi ex compagni. I suoi interessi erano altrove e non aveva mai avuto particolare affetto verso la Scuola. Una Scuola, oltretutto, lontana dalle pretese di moralità che chiedeva al compositore. L’ispettore della stessa, Schilder-Schulder condivideva l’amante con il direttore, Granduca Konstantin Romanov. Era un giovane allievo, Aleksej Apuchtin, futuro poeta e primo amore di Čajkovskij (Berberova).

Oltre a ciò, riunire otto membri di quella levatura sarà stato un avvenimento straordinario e pertanto qualche traccia sarà pur rimasta. E invece nulla. 
Čajkovskij poteva in ogni caso non seguire la sentenza poiché non aveva nessun obbligo verso quell’istituzione. In base alle fonti a nostra disposizione peraltro, il comportamento del compositore è in contrapposizione con quello di  una persona condannata a morte, per di più al suicidio. Gli ultimi giorni sono passati nella costante compagnia di amici e famigliari. Strano comportamento se prendiamo come esempio l’episodio del tentato suicidio del 1877 dove il compositore preferì invece isolarsi. 
E’ pur vero però che, come nota Orlova, l’atteggiamento amichevole del compositore può essere interpretato come un tentativo per non restare da solo con il fratello Modest che sicuramente avrebbe notato qualcosa di sospetto. 
Di tutt’altro canto è invece Berberova che trovando la tesi “demenziale”, pone rilievo sulle innumerevoli scelte che il compositore avrebbe potuto seguire per evitare la probabile condanna: raggiungere il proprio editore (e depositario di tutti i suoi soldi) a Berlino, recarsi a Mentone o Clarens. La sua famiglia, che dipendeva economicamente da lui, lo avrebbe seguito ovunque avesse voluto. 

Il caso è complesso perché è essenzialmente basato su ipotesi e interpretazioni dei comportamenti di Ciaikovskij, soprattutto nei suoi ultimi giorni. 
Ad esempio, durante il 21 ottobre (2 novembre), giorno dei primi sintomi, Ciaikovskij scrive una lettera a Grekov, impresario del Teatro d’Opera di Odessa, nella quale elenca i suoi numerosi impegni futuri e si dichiara disponibile a raggiungere la città per capodanno. Aggiunge anche una serie di richieste riguardo al suo soggiorno. Perché scomodarsi tanto nel fornire tutti questi dettagli se nello stesso giorno avrebbe dovuto bere un veleno e morire?
A proposito di questo Orlova evidenzia invece il carattere eroico del compositore: “Sapendo che la personalità di Čajkovskij si differenzia da un’estrema (interiore) intensità, è difficile immaginare come, condannato a morte, abbia potuto sopravvivere per ben due giorni senza mai tradirsi […] Si può solo supporre che la paura di essere smascherato fosse più potente della paura della morte”. 

Čajkovskij viveva senza dubbio la sua sessualità con grande sofferenza e disagio ma conosceva diverse persone dichiaratamente gay che non avevano avuto così gravi ripercussioni. Ad esempio Vladimir Meshesvsky, che fu protetto dallo stesso Zar dopo essere stato denunciato per aver sedotto un trombettiere nella banda musicale imperiale, oppure Juriev, artista del teatro Aleksandr, o Varmalov, attore (che fu protagonista di uno scandalo riguardante la sua omosessualità nel 1889 e dal quale ne la sua vita ne la sua carriera ebbero conseguenze) che il compositore conosceva personalmente.
Nella Russia dell’800 l’omosessualità era sicuramente considerata un delitto da punire con la reclusione o persino la morte e le corti d’onore erano una prassi consolidata e ancora in vigore. Ma come abbiamo visto nel caso specifico di Čajkovskij, la tesi della corte d’onore non risulta essere così forte. 

Se l’onere della prova spetta a chi afferma, è pur vero che le prove devono essere rilevanti. A favore di questa tesi proposta dalla Orlova ci sono esclusivamente congetture basate su confessioni di tipo orale fatte alla stessa studiosa o al marito molti anni, se non decenni, dopo la morte del compositore e, fatto alquanto significativo, pubblicate con gli stessi testimoni non più in vita. 

Come nel caso di Gesualdo da Venosa, o nel caso della morte di Mozart, spesso i fatti raccontati dai testimoni si confondono con la leggenda e il desiderio di essere parte della storia di questi uomini straordinari è tanto seducente quanto pericolosa. Nell’attesa di scoprire nuovi documenti rilevanti e capaci di confermare tesi così coraggiose, abbiamo tutto il diritto di dubitare della buona memoria dei testimoni.

Quando il dottor Bertenson confessa che “Čajkovskij si è avvelenato”, può anche fare riferimento all’indigestione volontaria (o meno) di acqua contaminata e pertanto “velenosa”. O forse l’età avanzata, qualche senso di colpa per non aver fatto il possibile, uniti alle dicerie del tempo hanno convinto Bertenson che sì, Čajkovskij, il più grande compositore russo dell’epoca, è morto suicida tramite veleno e non per colpa dell’inesperienza dei propri medici. 

La vita in mano al destino

Nonostante questa larga panoramica su tutte le possibili risoluzioni del caso, la morte di Čajkovskij è un giallo esemplare perché c’è ancora una strada che non abbiamo percorso. La testimonianza di Modest assieme alla confessione di Bertenson e al tentato suicidio del 1877, portano ad un’ulteriore tesi plausibile: Čajkovskij è morto suicida e la modalità fu quella “fatalista”. 
Approfittando dell’epidemia di colera, il compositore si sarebbe volutamente esposto al contagio con l’intento di ammalarsi e morire come già tentò nel 1887. Si spiegherebbe così l’incuria nel bere acqua non bollita, nonostante le preoccupazioni delle persone a lui vicine. Come evidenzia lo studioso Nikolaj Blinov, se questi erano gli intenti del compositore, probabilmente era solito bere acqua non bollita e tale incuranza non si riduce al singolo episodio raccontato dal nipote Davydov o dal fratello. Il contagio potrebbe essere avvenuto in qualsiasi posto e in qualsiasi momento senza che ci fossero dei testimoni presenti. 
L’idea del suicidio fatalista rispecchierebbe il rapporto di Čajkovskij con la morte. Essendo un uomo credente non si sarebbe suicidato, ma avrebbe lasciato che la morte lo raggiungesse facendo il suo corso. Il compositore avrebbe quindi solo facilitato il suo viaggio mettendo la sua vita a rischio. La  sinfonia “patetica” non sarebbe altro che un canto al proprio destino e alla morte che presto lo avrebbe abbracciato.  

Questa affascinante tesi però, ha la sorte di tutte le altre. Čajkovskij potrebbe anche aver facilitato l’incontro con la morte, ma è doveroso sottolineare come in quell’autunno 1893 il bacillo del colera era molto più diffuso a San Pietroburgo di quanto non si credesse. Poche settimane prima della morte del compositore, una commissione sanitaria denunciò diversi ristoranti che erano soliti servire acqua bollita mista a non bollita per ridurre le attese dei clienti che la volevano fresca (Poznavskij). Čajkovskij era solito bere acqua esclusivamente fresca. 

Quale sia la verità, un fatto è sicuramente chiaro: l’idea che Čajkovskij sia morto a causa di una banale infezione è paradossale, doloroso e difficile da accogliere. 
E’ molto più facile cercare storie alternative consolatorie. Accettare che un genio nel pieno della sua maturità si sia spento in poco più di due giorni, vuol dire ammettere che nessuno è salvo e che se c’è qualcuno a governare il mondo, quello è il Caos

Linda Iobbi

Responsabile Multimedia

Made in Rome with vodka flavour. Mi piace osservare il mondo con gli occhiali del musicista, purtroppo pianista.

tutti gli articoli di Linda Iobbi