Il bello, il brutto, il nuovo nella musica: intervista a David Fontanesi
di Adele Boghetich - 4 Giugno 2022
In elegante veste editoriale Zecchini Editore pubblica Note sigillate. Il bello, il brutto, il nuovo nella musica di David Fontanesi, compositore e saggista, che annovera nel suo ampio curriculum studi di Pianoforte e Composizione, una laurea in Storia della Filosofia medievale, varie pubblicazioni di genere cameristico e sinfonico per Sonzogno di Milano e Da Vinci Edition di Osaka, CD monografici e, sempre per Zecchini, Preludi ad una metafisica della musica contemporanea e Studi e intermezzi sulla musica del ‘900.
Con una suggestiva Presentazione di Maria Mannone e un’accurata Postfazione di Sara Zurletti, in paragrafi brevi e agili, sempre riccamente documentati e riuniti in cinque “portali” – Res Philosophica, Res Antiquae, Breviter, Nova Res, Res Arcanae – il volume offre al lettore una miriade di acute osservazioni, dai fasti della musica antica alla grammatica/matematica della contemporaneità attraversando la rivoluzione estetica di Hanslick e il pensiero del Novecento, per raccontare la ricerca del Bello negli ultimi secoli di Storia della Musica. Con critica lucidità e in una scrittura che lo stesso autore ama definire «stringata ed ellittica, ma irrinunciabilmente sistematica», Fontanesi argomenta su opere e autori, anche di grandissima fama, accusati di indulgere al dilagare del Brutto. La sua penna non teme di apparire irriverente contestando grandi nomi e grandi movimenti, né di affrontare la domanda decisiva: il “nuovo” è anche “bello”?
David Fontanesi, partiamo dal titolo, Note sigillate, con un’ermetica immagine di copertina. È forse il simbolo di un significato riposto?
Il significato del titolo è stato molto ben esplicitato da Sara Zurletti nella sua Postfazione, quando definisce queste Note «indisponibili di primo acchito a concedere il messaggio che vi è contenuto, a meno che non si conosca la parola d’ordine capace di schiuderle come una porta magica».
La copertina nasce da una proposta dell’Editore Zecchini, che ho immediatamente accolto. Una spirale di post-it gialli su fondo blu, mi sembra esprima in modo ottimale l’idea secondo la quale nell’arte, come nel pensiero, è possibile effettivamente “procedere” soltanto girando per un tempo indefinito attorno a un punto, soltanto mutando distanza e prospettiva rispetto a un centro che rimane fisso. Ed è forse questa la chiave (o parola d’ordine) che consente di schiudere i sigilli del libro.
Può definirsi “bello” ciò che attiva la catarsi delle emozioni? O la critica musicale contemporanea, imprigionata nei sofistici labirinti da essa stessa edificati, tende oggi a deviare il pubblico verso nuove categorie estetiche? E ancora, quali avanguardie definirebbe un progresso? Un ricercare più che un brancolare, come Lei accusa in Breviter?
Il grande errore della critica musicale del ‘900 è stato quello di considerare la delectatio, il piacere estetico, come qualcosa di arcaico e sorpassato, obbligando il pubblico all’ascolto di opere artisticamente insignificanti in nome della loro “attualità”, e facendo sembrare forti e solide delle teorie compositive in realtà estremamente fragili. Se l’arte musicale, quand’anche articolata in una forma che si pretende scientifica, poggia su basi instabili, qualunque ulteriore sviluppo di quest’arte costituisce un incremento nell’instabilità, con in aggiunta l’illusione che si tratti invece di un progresso saldo e inamovibile. Ed è quindi l’idea di Progresso vettoriale di matrice illuminista che credo vada ampiamente ridiscussa, così come l’applicazione indebita alla storia della musica della teoria evoluzionista, che immagina lo sviluppo delle forme musicali e delle tecniche compositive come un processo ad infinitum che da elementi semplici conduca indefettibilmente verso sempre maggiori livelli di articolazione e di complessità. Una teoria che viene però palesemente smentita tutte le volte che si rinvengono, a livello storico, forme musicali semplici e composite in una relazione temporale opposta rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il loro naturale ordine di apparizione.
L’opera d’avanguardia autenticamente ricercata, per tornare al suo quesito, è allora quella che non si limita ad essere ben costruita e proporzionata nella struttura formale o coerente nel linguaggio utilizzato, bensì quella in grado di scuotere i sensi e di emettere intense radiazioni di Bellezza.
Se l’arte è specchio della società e, come affermava Alfredo Casella, “grido d’allarme” di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità, a quale arte e a quale società andremo incontro nel nome della “novità a qualsiasi costo”? La dissoluzione della forma sarà anche dissoluzione della cultura?
La ricerca del “nuovo” a tutti i costi, anche a costo del Bello, credo sia una forma esecrabile di fanatismo. E tuttavia è qualcosa di perfettamente rispondente alla logica del capitalismo industriale, alla sua facilità con la quale, in obbedienza a evidenti precetti di redditività, produce un flusso inarrestabile di beni materiali per immediatamente dichiararli obsoleti, sostituendoli con altri. Il “nuovo” non ha consistenza ontologica, perché è legato all’instabilità della dimensione temporale, mentre il “bello” ha un carattere di permanenza che oggi disturba il sistema dominante. Il rapido susseguirsi e dissolversi di forme (non solo artistiche), oltre che alla disgregazione della cultura, conduce alla trasformazione dell’uomo in un ilota sul piano intellettuale e morale (acquiescente ai dettami del “pensiero unico” e del politically correct, perché ormai privato degli strumenti formativi che potrebbero aiutarlo a metterli in discussione e così a sottrarsi alla sua riduzione a “materiale umano”); e in un nomade sul piano fisico (in nome della flessibilità, ma sarebbe meglio chiamarla precarietà, lavorativa).
Nel capitolo centrale del Suo lavoro, Nova Res, Lei affronta una interessante panoramica di nomi, opere e sintassi compositive, da Hindemith, Chacaturjan, Šostakovic, Britten, Honegger, Messiaen a Nono, Ligeti, Berio, Bettinelli, Corghi, Xenakis, Françaix, Schittino. Vi emergono intenti estetici diversi. Una Sua possibile scelta critica?
I nomi degli autori che scaraventerei giù dalla torre, li ho già fatti sia in questo sia nei miei libri precedenti. In senso generale, si potrebbe dire che l’innovazione ha senso ed è possibile solo quando scaturisce dalla tradizione: cioè che non può esistere originalità artistica se non all’interno della continuità storica di una specifica memoria culturale e spirituale. La pretesa delle avanguardie del XX secolo di fare musica cominciando ex novo e senza presupposti, dunque ex nihilo, è ingenua oltre che rivelarsi un grave indizio di mancanza di consapevolezza e assurda volontà di rifiuto del lascito culturale invece presente in qualsiasi frase musicale che venga elaborata dal compositore. Occorre pertanto evitare di incorrere nelle derive di quelle correnti musicali che hanno preteso di liquidare come ingombrante anticaglia la poderosa tradizione classica, ma seguendo la lectio magistralis et difficilior dei grandi maestri del passato, urge ridiscuterla, sempre e di nuovo, per tentare di farla rivivere nelle pagine musicali del nostro tempo, in compiuta sintesi con la sensibilità, le poetiche e i risultati della tecnica strumentale acquisiti dalla modernità.
Numerologia nella musica: un sistema antico ma ancora attuale, già strutturato nell’arte di J. S. Bach e Buxtehude come in Mozart, nei canoni enigmatici come in Debussy e Ligeti. La musica è anche scienza ermetica?
Sì, indubbiamente. Ma qui la vastità della tematica alla quale Lei accenna, e delle sue implicazioni, è talmente abissale da poter essere indagata sine fine. Mi limito a dirle che, a proposito dell’ermetismo musicale, ho trovato illuminanti, giusto per citarne alcuni, gli studi di Roman Vlad su Webern, di Alessio Di Benedetto su Skrjabin, di Giuseppe Rausa su Mozart Beethoven e Ligeti, di Laurence Wuidar sui contrappuntisti italiani del XVII secolo, di Alessandro Nardin su Debussy, di Joscelyn Godwin sui presupposti esoterici della musica francese degli ultimi due secoli, di Marius Schneider sul simbolismo musicale delle chiese romaniche.
L’ultimo portale, Res Arcanae, conduce il lettore nel mondo delle “visioni” demoniche che hanno influenzato l’arte di Schumann e Paganini, la cui “dama d’alto lignaggio”, presso la quale il violinista trascorse gli anni toscani, forse altri non era se non l’Alchimia. Nell’ottica delle tante riflessioni offerte nel Suo bel libro, si potrebbe riscrivere, almeno in parte, la Storia della Musica?
No, non credo… perlomeno non in un periodo storico come questo, non laddove il totalitarismo democratico imperante abbia come intento precipuo il far tabula rasa della filosofia e del sapere umanistico, la distruzione programmata del senso critico, il soffocamento del dibattito e la riduzione delle nuove generazioni a gregge ignorante e manipolabile, schiavo della narrazione dominante, l’unica peraltro ammessa, conosciuta e conoscibile. E mi viene da dire che se la “cultura ufficiale”, riguardo ad un certo argomento (musicale e non), si ostina a tramandare una determinata lectio, significa che “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”… Si potrebbe pertanto riscrivere, forse, e non solo la Storia della Musica, ma a condizione di “passare al bosco”, come diceva Jünger, che equivale però a varcare la frontiera del dissenso per entrare nel territorio insidioso della ribellione e della clandestinità.