«L’energia prima e illimitata» del Quartetto Adorno

Il Quartetto Adorno ci ha regalato la sua interpretazione di un accostamento di compositori piuttosto insolito: Webern, Šostakóvič e Beethoven

Nel 1949 Theodor Adorno scelse di aprire la sua Filosofia della musica moderna con il seguente passo dell’Estetica di Hegel:

“Poiché nell’arte non abbiamo a che fare con un gioco meramente piacevole o utile, ma… con un dispiegarsi della verità”.

Soltanto l’impatto diretto con l’arte ci può far comprendere questa affermazione. Il Quartetto Adorno, che non a caso porta il nome del filosofo e musicologo tedesco, offre una chiave di accesso alla natura e al disvelamento della verità da lui chiamata in causa.

Certamente questo è avvenuto durante il concerto dell’Accademia Nazionale Santa Cecilia tenutosi il 2 febbraio 2022 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. In questa occasione, il Quartetto Adorno (composto da Edoardo Zosi al primo violino, Liù Pelliciari al secondo, Benedetta Bucci alla viola e Stefano Cerrato al violoncello) ha incarnato l’arte di tre compositori piuttosto differenti: Anton Webern, Dmitri Šostakóvič e Beethoven.

Per quale motivo sono stati scelti e accostati questi compositori, in questa precisa successione? Quale la verità che dalle note delle loro partiture ha preso vita tramite l’esecuzione del Quartetto Adorno?

L’iter del concerto, come si evince dalla durata sempre crescente dei brani in programma, ha previsto innanzitutto un passaggio dalla massima concentrazione all’estrema espansione della forma, dalla densità dell’aforisma alla vera e propria esplosione di tutte le possibilità architettoniche contenute nel seme di un motivo musicale.

Anton Webern

Il primo stadio di questo percorso è rappresentato dalle Sei Bagatelle op.9 di Anton Webern. Nate dalla fusione di un ciclo di quattro brevi pezzi del 1911, inizialmente immaginati come movimenti di un Quartetto, e dei Drei Stücke del 1913, le Bagatellen sono sei brani brevissimi, della durata di pochi secondi ciascuno.

Al tradizionale tema musicale, che costituisce sintatticamente una frase che si può sviluppare in lunghi periodi, le Bagatelle sostituiscono piccole cellule fatte di pochi intervalli; alla gerarchia tonale sostituiscono una logica che volge verso la dodecafonia.

Il sistema dodecafonico teorizzato dal maestro di Webern, Arnold Schönberg, stabiliva che i dodici suoni della scala cromatica venissero organizzati in “serie”: nessuno dei suoni, una volta udito, poteva essere ripetuto, e nessuno doveva avere una predominanza sugli altri. Nelle Sechs Bagatellen, Webern sembra aver portato il sistema dodecafonico stesso alla concisione più assoluta. Come disse a proposito il compositore in una conferenza del 1932:

“Avevo la sensazione che quando le dodici note si fossero esaurite, il pezzo fosse finito”.

La riorganizzazione in serie, soprattutto nella produzione successiva del compositore austriaco, che diede i natali al cosiddetto serialismo integrale, riguardava non solo le altezze, ma anche le durate e il timbro. Quest’ultimo, infatti, venne considerato anch’esso, per la prima volta, elemento strutturale fondante della composizione. Nei pochi minuti delle Sechs Bagatellen, il Quartetto Adorno ha esplorato dunque il timbro in tutte le sue sfumature, mostrando una capacità di controllo prodigiosa.

Il controllo mostrato dal Quartetto risulta tanto nella chiarezza espositiva dei timbri differenti quanto nella incredibile capacità, in questo contesto di rapida successione di cellule così piccole e così diverse, di coesione. I pizzicati, gli staccati e i tremoli sul ponticello della Terza Bagatella (Ziemlich fließend), così come le linee del tutto indipendenti della Quarta (Sehr langsam), risultano sempre elementi compatti in un insieme unico, inscindibile.

Dmitri Šostakóvič

La percezione comincia a essere differente nel caso del Quartetto n.14 in Fa diesis maggiore Op. 142 di Šostakóvič, eseguito immediatamente dopo le Bagatelle di Webern. Il Quartetto, infatti, come vari altri della produzione totale di quindici Quartetti del compositore russo, non costituisce sempre un insieme organico, ma prevede dei momenti di solitudine degli esecutori.

Il sostantivo “solitudine” sembra essere in questo caso più appropriato dell’aggettivo “solistico” che potrebbe descrivere, senz’altro con maggiore esattezza tecnica, i passi musicali in questione.

Si tratta, infatti, di momenti in cui la voce di uno strumento del quartetto in particolare si staglia nettamente su uno sfondo più o meno statico, più o meno contrappuntisticamente disegnato dagli altri strumenti.

In Šostakóvič, di fronte a questi passaggi, talvolta recitativi veri e propri, sembra di assistere al monologo interiore di un personaggio singolo, solo, nell’atto di elaborare ciò che gli accade intorno. E’ una riflessione intima, e per questo profondamente espressiva, sull’esistenza, sul divenire delle cose. Soltanto in un momento successivo si possono aggiungere le voci degli altri, solidali e consolanti o in aspro e dichiarato conflitto.

Per questo motivo, i Quartetti di Šostakóvič, composti nell’arco di trentasei anni che hanno visto esplodere la Seconda Guerra Mondiale, attraversando il secolo fino alla stasi dell’era di Brežnev,  sono stati considerati dalla critica come un diario privato del compositore, un contraltare alla dimensione pubblica delle sinfonie.

La voce che più emerge solisticamente nel Quartetto n.14 op. 142 è quella del violoncello, interpretato magnificamente da Stefano Cerrato. La composizione di Šostakóvič, del 1973, era in effetti dedicata al violoncellista Sergej Petrovič Šiirinskij del Quartetto Beethoven. Si trattava dell’ultimo quartetto di una serie dedicata da Šostakóvič all’ensemble.

I tre movimenti dell’Op.142  (Allegretto-Adagio-Allegretto, gli ultimi due da eseguire senza soluzione di continuità), comprendono, oltre ai momenti solistici del violoncello, ampi assoli anche della viola e del primo violino.

Nella solitudine Šostakóvič lascia tuttavia intravedere una possibilità di unione, resa magistralmente dal Quartetto Adorno durante il concerto: nel momento di serratissimo dialogo tra il violino e il violoncello, i due strumenti ai registri estremi, ma opposti, dell’ensemble, arrivano ad avere quasi lo stesso timbro. Violino e violoncello si invertono i ruoli, mettendosi l’uno nei panni dell’altro, dandosi dunque la possibilità di comprendersi e di diventare, finalmente, un unicum.

Si tratta, però di un istante isolato, di un’unione di intenti e di ideali soltanto sperata, presagita.

 

Ludwig van Beethoven

Grazie alle scelte interpretative del Quartetto Adorno, a conclusione del concerto è stato possibile comprendere la destinazione del tragitto musicale intrapreso.

Il concerto si è chiuso maestosamente con la Grande Fuga dell’Op. 133 a termine del Quartetto op. 130 di Beethoven. A quel punto, il programma del concerto è diventato quasi leggibile nei termini di una dialettica che ha visto contrapposta l’unità di Webern alla dispersione solistica di Šostakóvič, per poi concludersi nella sintesi del processo compositivo beethoveniano.

Nessuna composizione più del Quartetto op.130 con la Grande Fuga op.133 poteva essere più adatta al coronamento di questo percorso. Il Quartetto, infatti, commissionato dal nobile russo Nikolai Galitzin e composto nel 1825, rappresenta forse il punto culminante della ricerca beethoveniana.  La forma tradizionale del quartetto rimane, in esso, un pallido ricordo: i confini della tonalità si espandono fino alla dissonanza ed è difficile discernere la forma-sonata da quella della variazione.

Al posto dei quattro movimenti classici, Beethoven suddivide il Quartetto in sei movimenti, tra cui un Presto brevissimo, due danze popolari e una Cavatina “operistica”.

 

Durante la Cavatina, la sala Sinopoli dell’auditorium si è caricata di tensione. L’Adagio molto espressivo della Cavatina è stato reso dal Quartetto Adorno con un pianissimo straordinario, appena udibile – una calma sospetta, eccessiva, che forse contiene già in nuce la tempesta della Grande Fuga.

A partire dalla seconda metà del movimento, la linea melodica spezzata del primo violino si rivela, in effetti, un oscuro presagio che conduce direttamente alla fuga destinata a diventare, autonomamente, l’Op.133.

 

Nell’Allegro dell’Overtura viene presentata la cellula tematica che genera tutto il materiale della fuga. Quest’ultima si sviluppa, infatti, su quattro varianti del tema iniziale. Nell’enunciarne l’ultima versione, il violino di Edoardo Zosi sembra frantumarsi, quasi senza voler portare a termine l’esposizione, esasperando le pause tra una nota e l’altra.

Improvvisamente, però, ecco realizzarsi la sintesi tra frammentazione e unità: il violino erompe nel controsoggetto, rientrando con rigore a far parte dell’organico, l’ensemble si ricompatta con straordinaria coesione. Ha inizio la fuga. E’ un flusso inarrestabile, uno scroscio di note continuo, velocissimo, senza respiro, quasi senza soluzione di continuità tra uno strumento e l’altro, tra un motivo e l’altro, tra le diverse componenti che costituiscono la fuga. Le entrate sono ravvicinatissime, sembra un unico grande stretto, senza fine, di tutti gli elementi.

Soltanto il movimento Meno mosso e moderato interrompe questo fluire così fitto, ma è soltanto un breve arresto, trasmesso dal Quartetto Adorno con un piano ovattato che sembra ricordare un mondo lontano. Il ritorno all’Allegro molto e con brio ci riporta all’atmosfera concitata precedente, che condurrà poi all’Allegro finale con tanto di grandiosa Coda.

Il Quartetto di Beethoven è dunque sintesi tra compattezza e dissolvimento perché ci mette di fronte a una continua trasformazione del materiale in cui si alternano disgregazione e ricostruzione. Per dirla con Quirino Principe:

“La trasformazione è un processo che in Beethoven assume forza inaudita, tale da travolgere, è vero, ma senza consumare; travolge soltanto per aggregare e costruire”.

Questa, forse, la verità che si dispiega tanto nell’arte di Beethoven quanto in quella del Quartetto Adorno: la cognizione che la natura della musica, e, per estensione, del mondo, è quella di un divenire eterno che può essere esplorato in tutte le sue manifestazioni.

Alla base del divenire continuo vi è quella energia prima e illimitatache Quirino Principe ha attribuito alla musica di Beethoven e che il Quartetto Adorno riesce, nelle sue esecuzioni, a liberare.

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