Bernstein sul grande schermo: recensione del film Maestro

L’ultimo film di Bradley Cooper Maestro, appena uscito sulla piattaforma streaming Netflix, è un film incentrato su Leonard Bernstein, il celebre compositore e direttore d’orchestra. Cooper, nel ruolo di protagonista, è anche il regista del film e co-sceneggiatore assieme a Josh Singer, già vincitore dell’Oscar per la sceneggiatura di SpotlightBernstein è stato un uomo che, come molti forse già sapranno, conteneva moltitudini. Non solo per i diversi ruoli che ha ricoperto a livello professionale e ad altissimo livello, ma anche per via del suo stesso carattere, la sua sessualità vissuta in modo non del tutto libero, il suo innato carisma e genio. Cooper avrebbe potuto accontentarsi, come spesso accade in film biografici di secondo ordine (vengono in mente recenti prodotti mediocri come Bohemian Rhapsody o Elvis), di sfruttare la straordinaria personalità e figura di Bernstein per creare un collage di eventi appiccicati insieme, tra il kitsch e l’improbabile. Cooper invece è stato più sottile e raffinato, trovando l’essenza umana sottostante alla figura del grande maestro.

Bradley Cooper nei panni di Leonard Bernstein

Il film si apre su un Bernstein ormai anziano. Suona concentrato e commosso. L’inquadratura si sposta e vediamo che c’è una troupe televisiva. Subito abbiamo davanti un uomo capace di scoprirsi completamente e commuoversi non da solo lontano da occhi indiscreti, ma intervistato per la televisione. Dopotutto, Bernstein è stato un uomo che ha raggiunto una fama stratosferica in parte grazie alla sua immagine pubblica, e al modo in cui ha utilizzato il mezzo televisivo per ampliare l’appeal della musica classica per giovani spettatori e americani di ogni estrazione sociale. Questo inizio però racchiude anche uno dei temi centrali del film, saper bilanciare gli elementi contraddittori dentro noi.

Nonostante Maestro stia ricevendo molta attenzione da parte della critica e nella cosiddetta corsa verso gli Oscar, non sembra mai un film costruito ad hoc per ottenere premi. Sì, ci sono personaggi che vivono momenti drammatici e litigi intensi, ma sembra di guardare questi personaggi vivere, e non degli attori che cercano di ottenere dei punti per vincere statuette. A contribuire al realismo del film c’è un abilissimo direttore della fotografia, Matthew Libatique. Ogni epoca del film, che copre diversi decenni di vita, è girata in uno stile e un formato che fa sembrare che sia stata girata in quel periodo. “Maestro” sembra quindi tanto un documentario quanto un lungometraggio, e gran parte di ciò è merito della versatilità che il direttore della fotografia porta al progetto, utilizzando diversi tipi di telecamere e di pellicole. Il film è anche accompagnato da una sorprendentemente buona quantità di musica di Bernstein che è stata mixata ed integrata in modo magistrale con il film stesso. Tutto si unisce per creare un film che è allo stesso tempo epico e intimo, che non teme di porsi domande sul peso del talento e sui limiti dell’amore incondizionato.

Eppure, quando ho visto le prime immagini di Bradley Cooper con le protesi facciali ammetto che ho temuto che questo film potesse inclinarsi verso ciò che io amo chiamare un film “dentiere e parrucche”, con attori sovraccarichi di trucco che recitano senza controllo. Timori infondati. Il film non è mai interessato a complimentarsi per il trucco o per aver ricreato determinati look (anche se lo fa in modo incredibile, va detto) poiché Cooper si fonde perfettamente con suo personaggio incarnando senza soluzione di continuità la vita di un’icona della musica. Altro brivido di paura: leggendo le parole “biopic su Leonard Bernstein”, mi stavo preparando mentalmente alle molte scene cliché che abbondano in questi tipi di film. Per esempio Bernstein in una notte buia, curvo su un pianoforte che cerca di trovare la sua prossima grande idea musicale. Silenzio in sala, il grande genio è al lavoro! E poi magari arriva il custode che deve chiudere, cammina per il corridoio fischiettando e schioccando le dita; un uomo grida “Maria!” per strada e vediamo la lampadina accendersi sopra la testa di Bernstein. Quindi passiamo direttamente alla prima di Westside Story. Oh sì, questa è stata la sua ispirazione per scrivere uno dei più grandi musical di tutti i tempi, che genio! E tutti i musicisti, studenti ed appassionati di musica che mettono la faccia tra le mani per la vergogna. No, si può stare tranquilli, non c’è niente del genere in questo film. E, fortunatamente, Maestro non appartiene nemmeno ad un’altra tipologia di film hollywoodiano, ovvero il film dove suonare o scrivere musica viene equiparato allo sforzo di un atleta o di una squadra che gareggia in un torneo e che deve vincere ad ogni costo. Il film si limita a fare sì che il lascito artistico di Bernstein parli autonomamente: la musica esiste per contestualizzare l’uomo, non il contrario.

Maestro non è certamente privo di difetti. Per esempio in alcuni momenti si percepisce un avanzare episodico (e poi questo, e dopo questo, e poi…), un rischio ricorrente in molti biopic che cercano di condensare in un film un’intera vita o carriera. Inoltre, quello che forse manca al film è uno sguardo più approfondito alla vita intellettuale di Bernstein oltre che la musica o le sue affiliazioni politiche troppo a sinistra che ad un certo punto gli sono quasi costate la carriera. Eppure Cooper non teme nemmeno di mostrare lati di Bernstein che tipicamente non vengono associati alle sale da concerto o i grandi direttori d’orchestra: la celebrità alle feste o nei locali, che flirta apertamente con uomini più giovani o mentre consuma alcol e droga. Ma, in definitiva, il focus del film rimane il matrimonio di Leonard con Felicia, la sua sessualità, la direzione d’orchestra e il comporre musica, tutti elementi sapientemente intrecciati. Maestro va anche lodato per non aver introdotto (come spesso accade in questo genere di film) scene dense di esposizione per inquadrare rapidamente la vita di Bernstein o di certi suoi amici e collaboratori. Certo, si vedono Aaron Copland e Serge Koussevitzky, ma senza artifici e gli articoli di Wikipedia spacciati per sceneggiatura. Come già detto, il film sta alla larga da certi cliché e inutili spiegazioni. In fondo capire come sia nata una composizione è poco cinematografico e più adatto a un documentario della BBC. Chi conosce la biografia di Bernstein e la storia della musica sa già tutto, mentre chi guarda il film deve sapere lo stretto necessario, quello che muove in avanti la storia. 

Leonard Bernstein e Aaron Copland

Al pari della grandezza di Cooper e la sua performance, c’è la bravissima Carey Mulligan nel ruolo di sua moglie Felicia Montealegre. Felicia entra nella vita di Bernstein sapendo che dividerà Leonard con la musica e con il mondo, ma è anche consapevole del fatto che lui fosse un uomo bisessuale, per non dire molto semplicemente un uomo omosessuale costretto a reprimere la sua vera identità. Gli occhi di Felicia come moglie e madre sono ben aperti a questa realtà. Non c’è nessuna scena della moglie offesa ma che viene inquadrata come ostacolo al grande genio della musica, anche se i ripetuti tradimenti di Bernstein sono motivo di scontro e confronto. Eppure il film riesce ad andare anche più in profondità. Nel corso del tempo osserviamo come Felicia si stanchi di vivere la sua vita non con un uomo, ma con una enorme eredità artistica, e la sua combinazione di amore, gelosia, empatia, rancore e ammirazione per il dono di suo marito viene perfettamente modulata da scena a scena nel corso degli anni.

Bradley Cooper e Carey Mulligan nei panni di Leonard Bernstein e Felicia Montealegre

Cooper in più scene non solo dirige davvero, ma ha il merito di farlo con veri musicisti che suonano e cantano dal vivo, contribuendo a creare un’atmosfera elettrica, avvincente. Svolgendosi principalmente in un unico, ininterrotto piano sequenza di circa sei minuti, la scena di Bernstein che dirige il finale della Seconda Sinfonia di Mahler rappresenta il climax e un punto critico del film. In questa scena girata fedelmente nella vera cattedrale di Ely con la London Symphony Orchestra, coro dal vivo e un pubblico di comparse, il trionfo del finale sinfonico mahleriano che si protrae per circa sei minuti senza interruzioni è una vera gioia per gli appassionati di musica che qui finalmente non subiscono terribili tagli a musica che non andrebbe violata per fini commerciali o per mancanza di tempo. Il film in questo particolare punto fa anche, a mio avviso, qualcos’altro di davvero eccezionale. Non mostra a noi spettatori Bradley Cooper che cerca di imitare alla perfezione la tecnica di Bernstein (per quanto si avvicini moltissimo). Quello che invece si può osservare è Bradley Cooper stesso che si lascia coinvolgere, trasmettendo una gioia incontenibile mentre dirige la musica di Mahler. Cooper nelle sue espressioni di genuina estasi e gioia offre uno spettacolo emozionante e appassionato, che rispecchia qualcosa che va oltre la pellicola e la trama: un suo personale legame con la musica di Mahler e la figura di Bernstein, non un legame da copione tra lui e Bernstein. Dopo tutto come dargli torto; in fondo, chi di noi, segretamente o apertamente, non ha mai desiderato provare un’emozione simile? 

È importante sottolineare che Cooper ha dedicato quasi sei anni di studio dietro le quinte, svoltosi segretamente con veri direttori d’orchestra, tra cui Gustavo Dudamel. Questo sforzo traspare chiaramente nel risultato straordinario ottenuto. Sebbene Cooper possa mancare della fluidità del gesto di Bernstein e talvolta si lasci trasportare persino troppo, è proprio questa autenticità che rende la sua performance così potente. L’emozione che proviamo non è perciò guidata dalla musica, bensì dal suo effetto su Bernstein stesso. È come se Bernstein diventasse chi è veramente solo in quei momenti. Tra Leonard e Felicia c’è una splendida intesa, merito delle performance dei due attori protagonisti. Eppure è in quelle esibizioni pubbliche e frenetiche sul podio che percepiamo una inquietudine interiore dentro Bernstein, un uomo che anela a liberarsi dalla propria pelle e dalla sua persona per trovarsi.

Questo effetto ‘magico’ scorre attraverso il suo corpo, gli dona energia, sottolineando il motivo centrale del film: la rarità di questo dono ma anche i pericoli che ne derivano. Il film va quindi oltre la semplice definizione di biopic di un grande artista, trasformandosi al tempo stesso in una sorta di monumentale tesi su grande scala per Bradley Cooper che ora nelle vesti di regista e attore protagonista ha portato alla luce un progetto chiaramente frutto di anni di dedizione e studio. Il film ritorna al principio e la sua intervista davanti al pianoforte. Suggerisce, intenzionalmente o meno, che la performance non sia mai finita per Bernstein, come se avesse sempre recitato un ruolo, quello del ‘maestro’. Forse soltanto sul podio Bernstein era davvero l’uomo più felice della Terra, perché lo era nel modo più autentico, privo di vincoli.

A fine film mi sono chiesto che cosa abbia cercato di esprimere Bradley Cooper in questo film a livello fondamentale. Si è già discusso di come la regia e l’interpretazione di Bradley Cooper siano dotate di sensibilità e profonda riverenza alla rappresentazione del mondo di Bernstein. Ma a mio avviso questo film parla anche di altro, ossia di una lotta interiore per riuscire bilanciare verità opposte su se stessi. La comprensione di Bernstein della dualità, e in misura maggiore o minore la sua comprensione della figura di Mahler, riguarda elementi contraddittori di vita e morte. Questo è ciò che il film sembra affrontare fondamentalmente. Anche se, quello che resterà senz’altro impresso più di ogni altra cosa è un elemento essenziale ma che raramente Hollywood riserva ai musicisti e alla musica: rispetto. Senza troppe riserve, il film esplora efficacemente i temi dell’amore, della perdita e dell’eredità artistica, trovando i giusti spazi ed evitando le trappole del genere. Commovente dal principio, Maestro è uno splendido omaggio all’eterna figura di Leonard Bernstein e la sua storia d’amore con Felicia. 

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