Giovanni Gabrieli: la sonorizzazione del potere

Un organizzatore di grandiosi eventi musicali. Così si potrebbe sintetizzare il ruolo di Giovanni Gabrieli dal pulpito dell’organo in San Marco, nella Venezia del tardo Cinquecento. Occorre però capire la natura del suo principale posto di lavoro e premettere il ruolo della basilica di San Marco come chiesa di stato. La chiesa principale di Venezia, nel corso degli undici secoli di vita della Serenissima, non è una cattedrale: non è la sede di un vescovo, uomo del papa tendenzialmente sgradito alla Repubblica, ma fa capo direttamente allo stato nella persona del doge, presidente eletto di una repubblica parlamentare aristocratica. Quel che vi si può fare, dal punto di vista cerimoniale e musicale, non segue i dettami pontifici ed è improntato alla sacralizzazione dello stato veneziano, antico retaggio bizantino. La ricerca del massimo risultato estetico, aggiornato e per qualche tempo capofila di innovazioni di portata europea, è funzionale all’esaltazione della repubblica e dei suoi valori. A capo del cerimoniale musicale c’è il Maestro di cappella (magari ci torneremo a proposito di Monteverdi), cui sottostanno gli organisti titolari come Giovanni Gabrieli.

Basilica San Marco

Interno Basilica di San Marco, Venezia

 

La bellezza a Venezia, insomma, è affare di stato, l’immagine che lo stato comunica agli ambasciatori stranieri in visita. Nel Cinquecento il vecchio leone ha ormai le zanne spuntate, ma sa sfoggiare una criniera invidiabile. Il nostro Giovanni vi nasce nel 1557 come Giovanni Fais. Suo padre, un artigiano tessile della Carnia stabilitosi nella Dominante, lo manda a bottega dallo zio Andrea, a sua volta organista in San Marco e fratello della madre: Paola Gabrieli. Lo zio Andrea, com’era prassi tra maestro e allievo, lo prende in casa e gli dà il suo cognome, gli insegna quanto sa e lo inserisce nell’articolato contesto marciano.

Quando Giovanni viene eletto organista a San Marco è il 1585 e Venezia ha appena vissuto momenti traumatici: la vittoria di Pirro a Lepanto nel ‘71 è costata uno sfacelo per concludersi con la cessione di Cipro al sultano ottomano, ma viene sbandierata come un trionfo della cristianità; un’epidemia di peste nel ‘75 stermina un terzo della popolazione cittadina, cui dobbiamo la chiesa del Redentore del Palladio; due incendi nel ‘74 e nel ‘77 devastano Palazzo Ducale, sede del potere politico. La Repubblica, colpita su più fronti, reagisce nel segno del fasto più magniloquente: sono gli anni del rifacimento degli interni di Palazzo Ducale – se lo si visita oggi è rimasto pressoché congelato a quell’epoca –, del forsennato e visionario lavoro del Tintoretto, degli ultimi lussuosi dipinti del Veronese. Se vogliamo un’idea sonora di questa Venezia, il mottetto In Ecclesiis di Giovanni Gabrieli è certamente un ascolto indicato.

Veronese

Paolo Veronese, Giunone elargisce doni a Venezia, Sala dell’Udienza del Consiglio dei Dieci, Palazzo Ducale

 

Si tratta di un mottetto, un pezzo spirituale non liturgico, che consente ai compositori una libertà formale maggiore rispetto alla messa. Consideriamo poi che tra Venezia e Roma c’è un’inveterata tensione che porta la Serenissima ad accogliere un’idea tutta propria della Controriforma e dei suoi vaghi dettami in materia di musica; di lì a poco Fra Paolo Sarpi subirà due attentati al coltello (sopravvivendo a entrambi) per la difesa di Venezia contro il tribunale ecclesiastico romano, che non gradiva la sua difesa della Serenissima e i suoi resoconti sul Concilio di Trento. Se la polifonia sacra va nella direzione segnata da Palestrina – improntata alla sobrietà e alla misura, alla placidità acquatica di un contrappunto algido e rigoroso – la chiesa marciana fa l’esatto opposto: a Venezia l’eccesso è d’obbligo, occorre meravigliare e il lusso sonoro deve riempire le ampie volte della Basilica e gli enormi saloni delle Scuole Grandi.

E quindi? Strumenti musicali a tutto spiano e antenne ben ritte sulle ultime novità in fatto di musica vocale. Giovanni Gabrieli è uno dei primi compositori a dare dignità agli strumenti scrivendo specificamente per loro, precisando per quali strumenti e talvolta addirittura le dinamiche. Quel che per noi è la norma, non lo è nel tardo Cinquecento: è l’apogeo della polifonia vocale e gli strumenti sono considerati esteticamente inferiori, oggetti meccanici, buoni tutt’al più per raddoppiare le voci o intrattenere e far ballare durante le feste. Giovanni Gabrieli è tra i primi a sfruttarli nelle loro potenzialità tecniche e a farli duettare con le voci.

Già, le voci. Ascoltate l’inizio del mottetto In Ecclesiis. Nessun brano allora sarebbe iniziato in quel modo, con una voce solista e con una tale varietà ritmica. Le sillabe in ecclesiis ricevono un’intonazione piuttosto compassata, a valori lunghi disposti in una linea discendente; ma benedicite Dominum è già imprevedibilmente vivace, festoso come suggerisce il testo. Segue un Alleluia come ritornello, questa volta regolarmente polifonico in responsorio con il solista, che chiude il primo distico. Il secondo si apre in modo simile ma con una voce solistica diversa, più grave. Ecco l’attenzione per il suono di Gabrieli, l’elemento materiale della musica: il timbro. Non l’abbiamo sottolineato, ma tutto questo è continuamente accompagnato al basso; tra qualche anno lo chiameranno appunto basso continuo, ma già si usa da un paio di decenni. Dopo l’intervento del secondo solista riappare, come ci aspettiamo, il ritornello corale, ma è solo dopo di questo la vera sorpresa, lo squarcio di luce: un altro coro, ma di soli strumenti.

All’epoca doveva suonare sorprendente: gli strumenti vengono addirittura introdotti dalle voci e compaiono al loro fianco, condividendo una scena immaginaria; una totale novità. Quali sono gli strumenti che Gabrieli ha a disposizione? I solisti preferiti sono i cornetti, ibridi tra legni e ottoni considerati i più vicini alla voce umana: sono costituiti da un canneggio in legno e da un piccolo bocchino in corno, tanto semplici nella fattura, quanto complessi nella tecnica. Il bocchino ne fa uno strumento ad ancia labiale come le trombe e i tromboni; la vibrazione non è però quella generosa dell’ottone, ma quella ovattata e avara del legno. Il risultato è… beh, ascoltatelo e innamoratevene; magari recuperate le sonate a sopran solo di Dario Castello.

Cornetto soprano

 

I cornetti si sposano magnificamente con i tromboni, con cui creano un coro a cinque voci. Perché, quasi dimenticavo, il mottetto è a quindici voci: due solisti, due cori vocali a quattro, coro strumentale a cinque e basso continuo. Se non è lusso questo. La prassi inoltre prevedeva di spezzare i cori, di disporli in punti diversi dello spazio per ottenere effetti ancora più sorprendenti di spazializzazione sonora, che possiamo solo immaginare ascoltando una registrazione. Non si tratta di una prassi solo marciana o veneziana, come talvolta si legge: è una pratica diffusa in tutta Europa e ben più antica del nostro Giovanni Gabrieli. Ma torniamo al mottetto In Ecclesiis.

Hanno fatto il loro ingresso trionfale gli strumenti, ora inizia il bello: voci e strumenti incominciano un dialogo serrato, in cui i due solisti vocali duettano tra di loro – novità rilevante nel secolo della polifonia vocale – e a loro volta con i cornetti. L’intreccio è raffinato e costruisce un climax che raggiunge il suo apice nel centro geometrico del testo: spes mea in Deo est, la mia speranza è in Dio, con l’ornamentazione strumentale prestata alle voci e il prestigio vocale conferito agli strumenti. Il ritornello che ci aspettiamo arriva puntualmente ed è commisurato alla grandezza dell’insieme: per la prima volta ascoltiamo l’insieme delle quindici parti ed è semplicemente enorme. È l’akme di questo colosso sonoro, situato nel mezzo, per portare chi ascolta all’esaltazione espressa nel testo, cui segue un decremento del fasto nel ritorno a un duetto vocale soprano-basso e continuo, privo di interventi corali vocali né strumentali. La grande massa sonora dispiegata nell’apice centrale ritorna con l’ultimo verso che funge da coda, con un triplice alleluia come ritornello e sontuosa conclusione.

Non sappiamo per quale occasione Gabrieli avesse dato vita a tanta magnificenza: la pubblicazione è postuma (Sacrae Symphoniae, Gardano, Venezia, 1616), indice dell’apprezzamento di cui doveva godere la sua musica. Nello stesso anno in cui viene nominato organista a San Marco, viene nominato anche organista titolare nella Scuola Grande di San Rocco, per la prima volta nella sua storia. Le scuole grandi erano confraternite di cittadini abbienti che si riunivano per opere di pubblica carità; quella di San Rocco divenne particolarmente sontuosa perché si dedicava agli appestati, fenomeno cronico a Venezia. La Scuola Grande di San Rocco ospita ancora oggi l’opus magnum del Tintoretto, un impressionante ciclo di tele cui il maestro ha dedicato molti anni della propria vita. La festa di San Rocco, ci racconta il viaggiatore inglese Thomas Coryate a Venezia nel 1610 – probabile fonte di notizie italiane per Shakespeare – «consiste prevalentemente di musica», e narra di concerti che duravano ore, in cui sette tromboni si facevano accompagnare da dieci piccoli organi. Difficile immaginarlo, ma il fasto sonoro del mottetto In Ecclesiis può aiutare a immergerci efficacemente un simile contesto e a comprendere la funzione di certa musica pubblica di sonorizzazione del potere.

San Rocco

Scuola Grande di San Rocco, Venezia

 

Un’interpretazione lussureggiante, che crediamo renda magnificamente la partitura di Gabrieli, è quella della Pifarescha, un complesso che suona su copie di strumenti dell’epoca che sa conferire particolare vitalità alla musica grazie a una coloratissima ornamentazione estemporanea e di impreziosire con gusto una composizione già di per sé ricchissima. La scelta dei tempi e il gusto delle diminuzioni – così si sarebbero chiamate le ornamentazioni allora – donano all’interpretazione una brillantezza smagliante. Da ascoltare a tutto volume.

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