L'imperatore di Atlantide di Ullmann parla a tutti noi

L’Imperatore di Atlantide o L’abdicazione della morte è una delle ultime composizioni di Viktor Ullmann, compositore austriaco della Slesia. Composta durante il suo periodo di internamento nel campo di Theresienstadt, rappresenta uno straordinario esempio di musica “concentrazionaria”: composizioni nate nei campi di detenzione, oggi raccolte e studiate da istituti specializzati che si occupano della creatività nata nella cattività a tutte le latitudini e in tutti i periodi del secolo breve. L’Imperatore di Atlantide sarà proposto il prossimo 8 dicembre dal Reate Festival a Roma, presso il Teatro Palladium: i dettagli li potete trovare qui.

La vicenda umana di Ullmann presenta tanti tratti comuni con altri figli della Mitteleuropa più o meno celebri che avevano vissuto a cavallo tra più mondi: nato in territorio austroungarico, oggi al confine tra Polonia e Repubblica Ceca, da una famiglia ebrea convertita al cattolicesimo per ragioni di convenienza, Ullmann fu osteggiato tanto dagli ebrei più ortodossi che ne disprezzavano il ripudio delle origini, dai nazionalisti cecoslovacchi e dal crescente antisemitismo che serpeggiava nella cultura germanica.

Dalla cultura germanica però Ullmann trasse una linfa vitale incredibile: se si ripercorrono rapidamente i punti salienti, con la formazione viennese, la partecipazione al primo conflitto mondiale, il debutto nel mondo della musica prima come direttore d’orchestra e maestro accompagnatore e solo successivamente il suo approdo alla composizione, non appare nulla di straordinario. Ognuno degli snodi fondamentali corrisponde a un incontro, reale o simbolico, con un grande della cultura germanica del tempo: Schönberg a Vienna, di cui fu allievo, e Rilke a Trieste, di cui scoprì l’opera durante il periodo di ferma presso l’esercito austroungarico. Il legame con Rilke è una costante della vita artistica di Ullmann, tanto che la sua ultima opera compiuta e conservata è un melodramma su di un’opera giovanile del poeta, il Canto di amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke; pur non essendo una delle opere più famose e tantomeno dallo stile più completo di Rilke, le vicende dell’alfiere – un antenato presunto del poeta – si snodano lungo ventisette brevi componimenti il cui carattere rapsodico e velato riecheggiano lungo buona parte della produzione di Ullmann, specie nel periodo estremo di Theresienstadt. L’Imperatore di Atlantide è una delle creazioni in cui il debito appare più evidente.

Theresienstadt, germanizzazione dal ceco Terezin, era uno dei campi di concentramento più ambigui, dove ai prigionieri e agli “osservatori internazionali” si lasciava intuire una parvenza di normalità.

Una pianta della struttura di Theresienstadt, con i nomi in tedesco di ciascuna zona: la “Piccola Fortezza” (Kleine Festung) e la “Grande Fortezza-guarnigione” (Garnisonsstadt) © Wikimedia Commons.

Così Ullmann, grazie al benestare della Freizeitgestaltung, l’entità amministrativa che gestiva il “tempo libero” degli internati, ebbe modo di condurre e animare la vita culturale della comunità del campo. Nel biennio che trascorse prima di essere poi trasferito e condannato ad Auschwitz, Ullmann, ebbe modo di comporre, organizzare e mantenere anche in allenamento la sua creatività. Lo scrittore Hans Gunther Adler, che di Ullman era confidente e che rese concretamente possibile la conservazione del manoscritto dell’opera e la successiva messa in scena, riporta questa frase del compositore che rivela molto della genesi creativa del brano:

“Devo sottolineare che Theresienstadt è servita a stimolare, non ad impedire, le mie attività musicali; che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commensurato alla nostra voglia di vivere”.

È interessante notare due cose: la prima è che Ullmann effettivamente riuscì a comporre un corpus molto ricco di opere nel suo periodo a Theresienstadt; e la seconda che, in ossequio a un perverso desiderio di simulare normalità da parte dell’amministrazione nazional-socialista, molte di esse ricevettero addirittura una prima assoluta all’interno del campo; non fu il caso dell’opera per motivi che vedremo più avanti ma che restano comunque intuibili.

Il frontespizio della partitura autografa, oggi conservata presso la Paul Sacher Stiftung

Con queste premesse, è facile immaginare come L’imperatore di Atlantide non sia un’opera che si presta ad un ascolto superficiale, e ogni suo dettaglio rivela qualcosa di più di quanto la sua già tormentata genesi lasci intuire. La trama ha uno sviluppo molto peculiare, bizzarro se vogliamo: l’opera è strutturata in un atto unico suddiviso in quattro quadri uniti senza soluzione di continuità da intermezzi strumentali, nei quali vengono messe in scena tre grandi tematiche: la guerra, il male e il potere. L’imperatore di Atlantide Overall, con un nome anglicizzato per alludere a quello Über alles su cui si reggeva il potere di Hitler, ha proclamato una guerra totale di tutti contro tutti. Già da qui le allusioni alla situazione politica in cui è nata l’opera sono fin troppo evidenti. La trama però prende una piega inattesa: la Morte rifiuta di fare il suo lavoro e decide di non far morire più nessuno, né in guerra, né per malattia, come rende noto l’Altoparlante. Esplicitando quell’abdicazione a cui fa riferimento il titolo e rinunciando a svolgere il suo compito, la Morte esplicita l’assurdità della guerra e spinge l’Imperatore a sottoscrivere un patto. Solo se si immolerà per primo, la Morte riprenderà il suo compito e potranno ricominciare a morire tutti gli altri esseri umani. Overall, nella sua follia distruttiva, accetta; ma, a questo punto, la guerra è finita. L’imperatore è morto. E la Morte trionfa liberando l’umanità dal male assoluto.

Sette sono i personaggi che compongono questo quadro narrativo, con Atlantide, allegoria dell’Europa in guerra modellata sul continente leggendario sprofondato negli abissi per l’arroganza dei propri abitanti, a fare da sfondo. Il mitico continente è governato dall’imperatore Overall, dittatore feroce, servito con zelo dal Tamburo (Trommler) e dall’Altoparlante (Lautsprecher), suoi strumenti di propaganda, che incarnano la triade del male e sono una provocatoria allusione a Hitler, Goebbels, Goering; alcuni, come il direttore d’orchestra James Conlon, hanno voluto vedere nel personaggio del tamburino più Eva Braun in realtà, ma questo non altera la sostanza del messaggio.

L’altra triade di personaggi, Arlecchino, il Soldato, la ragazza Bubikopf, rappresentano l’umanità dispersa e confusa. Ciascuno di questi personaggi ricopre un ruolo simbolico: ad Arlecchino, maschera della commedia dell’arte e al tempo stesso incarnazione della vita, sono affidate le riflessioni sulla caducità delle cose e sulla felicità perduta; il suo personaggio, infatti, si esprime spesso per modi di dire mutuati dalla saggezza popolare, e intona melodie che ricordano ländler e musiche popolari della tradizione germanica.

Un’immagine tratta dalla messa in scena di Dusseldorf, 2020 © Operaincasa

Il Soldato e Bubikopf, nome quest’ultimo che allude a un taglio di capelli “alla maschietta” particolarmente in voga nella Germania weimariana, dovrebbero combattersi a vicenda, ma tra loro nasce un amore: la guerra è potente e devastante, ma non riesce a impedire ai sentimenti di manifestarsi. Il potere assoluto, incarnato dall’Imperatore, è destinato a dissolversi, costretto a scendere a patti con un’entità superiore, la Morte. Perché il corso naturale delle cose possa riprendere, sarà lui a dover essere eliminato per primo. Nel corale finale il personaggio della Morte riafferma l’ordine universale sconvolto dal male, lanciando un guanto di sfida al potere degli uomini. È interessante notare che in quest’ultima pagina Ullmann scelga di citare in modo quasi letterale la melodia del celebre Ein Feste burg ist unser Gott su testo di Martin Lutero: parole di speranza della fede protestante che inneggia alla “fortezza di Dio”, ma che erano già state musicate da altri compositori ebrei come Mendelssohn e Meyerbeer prima di lui.

La musica che caratterizza L’Imperatore di Atlantide è un monumento alla capacità di sintesi: sintesi tra stili e linguaggi che Ullmann incorpora in un pastiche che è al tempo stesso lavoro che allude alla sua contemporaneità e all’ambiente sonoro circostante, e però inconfondibilmente Ullmaniano. Accanto alla sintesi altro elemento saliente è l’economia di mezzi con cui Ullman si trova a orchestrare il suo lavoro: pur nella sua simulata normalità, Theresienstadt non era in grado di fornire un’orchestra completa. E così Ullmann si trova a lavorare con un ensemble di quattordici strumentisti. Al quintetto d’archi di base vengono aggiunti un flauto con obbligo di ottavino, oboe e clarinetto, pianoforte, clavicembalo, harmonium, banjo con obbligo di chitarra, percussioni, sassofono e tromba. Il risultato che ne deriva è straniante ma estremamente duttile per accompagnare l’ascoltatore nella resa sonora del morality play che fa da sottotesto all’Imperatore di Atlantide. L’uso abbondante della declamazione, del parlato vero e proprio, guida la vicenda grottesca dell’opera in una maniera che era molto cara alla musica di cultura tedesca dell’epoca. Al tempo stesso, i momenti di danza, storpiata e stravolta come da abitudine dell’epoca, donano all’opera una vivacità trasfigurata che apparentemente fa da perfetto contraltare alla gravità del messaggio che sottosta’ all’Imperatore di Atlantide.

E a proposito di trasfigurazioni: oltre al già citato Corale Bachiano, nel primo quadro c’è anche una riproposizione in modo minore della melodia dell’inno tedesco “Deutschland über alles”, che coincide con la declamazione dei titoli dell’imperatore e che è stata vista dai commentatori come un ulteriore elemento di scherno nei confronti del regime e di Hitler in particolare. Alcuni testimoni della vita artistica di Theresienstadt hanno però voluto smentire o quantomeno ridimensionare questa ipotesi, come riporta la testimonianza del compagno di prigionia Herbert Thomas Mandl.

Nonostante ciò, l’Imperatore di Atlantide non fu mai eseguito con Ullmann vivente: due anni dopo il suo internamento a Theresienstadt Ullmann fu deportato ad Auschwitz, dove trovò il suo destino. L’opera, conservata da Adler, ebbe la sua prima rappresentazione integrale ad Amsterdam nel 1975. È significativo come una delle esecuzioni più acclamate dell’opera sia avvenuta però a Trieste, nel 2012: alla risiera di San Sabba, unico luogo dell’Europa occidentale ad aver ospitato un campo di internamento con forno crematorio, per giunta.

C’è di tutto in questi cinquanta minuti di musica: a livello sonoro, si incontrano Hindemith, Kurt Weill, Alban Berg e i loro coevi nella lettura Ullmaniana; a livello lirico, c’è l’ispirazione del giovane Rilke, una vicenda kafkiana e la filosofia antroposofica, di cui Ullmann era stato un accorato sostenitore. C’è un mondo in questi 50 minuti di musica, e lo si può riscoprire partendo dalla produzione del Reate Festival il prossimo 8 dicembre.

 

Articoli correlati