“Chi sono? Cosa cerco?”: il fallimento dell’uomo nel Wozzeck di Alban Berg e nell’Ulisse di Luigi Dallapiccola

Due eroi del Teatro d'Opera del Novecento, Wozzeck e Ulisse, incarnano la crisi dell'io scatenata dai profondi mutamenti del secolo scorso.

“Se tu guardi a lungo entro un abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”: le profetiche parole di Friedrich Nietzsche (“Aldilà del bene e del male”, aforisma 146) basterebbero per mettere in luce in maniera netta ed inequivocabile la reciprocità della visione di quello che noi stessi viviamo in quanto individui.

La profonda crisi dell’io che all’inizio del secolo scorso ha segnato così profondamente la cultura europea, ha permesso il proliferare di un sentimento umano nuovo che, nei compositori, ha trovato valvola di sfogo nel teatro d’opera, in modo particolare nell’area mitteleuropea.

La Vienna della Seconda Scuola, così avida di novità, di fermento culturale, è il terreno fertile nella quale simili esperienze possono fare il loro diretto ingresso: il primo fra tutti è Schönberg, che con Erwartung (1909) istituisce un nuovo modo di esprimere i tumulti dell’animo umano. Nasce così l’Espressionismo.

Da lì alla dodecafonia il passo è breve: il compositore cerca in ogni modo di equiparare le distanze tra le tensioni armoniche, istituendo un’assoluta parità tra i gradi e annullando di fatto le risoluzioni: ogni cosa scorre in sottile tensione, una nota dentro l’altra.

La musica è ormai a servizio dell’umanità, umanità che si mostra nel suo peggior spettro all’avvento del primo Conflitto Mondiale. L’intellettuale è chiamato a dire la propria, dinanzi allo sfacelo delle istituzioni del passato e del concetto stesso di società fino ad allora considerato l’unico modello valido. Per la prima volta, l’uomo fallisce, diventa impotente. Una pedina nelle mani delle proprie incertezze e delle proprie impossibilità.

Ed è proprio a questo capolinea di ogni cosa che approda, nel 1922, Alban Berg con il suo Wozzeck

Alban Berg

Alban Berg

Wozzeck e l’Apocalisse

Nel 1914 Berg assiste per la prima volta alla rappresentazione dei “frammenti drammatici” del drammaturgo tedesco George Büchner (1813-1837), ritrovando in essi il filone espressionista dell’esperienza romantica. È un viaggio alle origini del proprio io, frutto di una densa stratificazione culturale da cui l’autore parte per concepire il proprio dramma. Sceglie Woyzeck, concepito da Büchner solo pochi mesi prima della morte. In esso affiora la tematica dell’esistenzialismo (sia come crisi etico-religiosa, sia come alienazione dell’individuo dovuto alla concomitante nascita del sistema industriale). L’angoscia del giovane individuo diventa coscienza rivoluzionaria nella volontà di scardinare i principi fondanti della società (tematica già ripercorsa nell’altra pièce teatrale di Büchner, Dantons Tod), mettendo in luce quella fitta rete di società che Karl Marx, alcuni anni dopo, definirà Lumpenproletariat (sottoproletariato). 

Berg comprende fin da subito l’innegabile attualità del tema, mettendosi subito al lavoro nel 1917, per poi concludere l’opera nel ’22.

Protagonista del dramma è il soldato Franz Wozzeck, oggetto di ogni tipo di miseria umana e dell’aberrazione. È vittima spietata dell’indifferenza dei suoi superiori, cavia di un Dottore che ogni giorno vuole sperimentare su di lui. È persino tradito da Marie, la sua compagna (l’unico baluardo della sua anima tormentata). Come in un filtro rosso sangue, in cui le allucinazioni del protagonista investono l’intera vicenda, ogni cosa si conclude nella disperazione e nel delitto: Wozzeck uccide la moglie Marie a coltellate, per poi affogare sé stesso nello stagno lì vicino.

Le angosce, i fantasmi: ecco i veri protagonisti del dramma. Wozzeck è vittima della sua stessa psiche, vittima indiscriminata delle allucinazioni che il mondo attorno gli riversa contro. È un lungo e faticoso cammino in cui il povero diavolo scivola sempre di più verso l’Abisso delle proprie convinzioni, fino a giungere alla fine del Mondo (o meglio, del suo). 

Inoltre, è interessante porre in risalto alcune analogie: ogni elemento che appare e che ritorna nell’opera, si rispecchia all’interno del Libro dell’Apocalisse di San Giovanni. Le immagini dell’apertura del sesto sigillo e alla luna di sangue (6:12) hanno un evidente corrispettivo nella scena III, quando la Marie viene uccisa e Wozzeck pone a termine la sua vita (nelle didascalie per le indicazioni sceniche, Berg conferma: “la luna spunta a un tratto color rosso sangue dalle nuvole”), gridando anche lui stesso, prima di annegare «das Wasser ist Blut…» (“l’acqua è sangue…”).

La fanatizzazione di Wozzeck traspare nella danza che Marie compie con il Tamburmaggiore (Scena II, 2): vedere ciò conduce il soldato in uno stato cupo e fanatico. Quello che vede non è soltanto un atto di infedeltà, ma un gesto simbolico di depravazione: tutto il mondo balla il valzer della fornicazione, ed è a questo punto che Wozzeck inizia a concepire l’atto finale che, secondo lui, è chiamato a compiere. L’assassinio infatti, già evidente come presagio durante il corso dell’opera, è un atto dovuto, come un gesto rituale che deve avvenire prima o poi. Marie, come Maria Maddalena, chiede perdono a Wozzeck, ma lui rifiuta di accettare le sue scuse, identificandola con la Grande Meretrice di Babilonia (Apocalisse 17:16).

Il senso della fatalità ormai cosparge l’intero dramma e, a conclusione, viene svelata la risposta del perché a tutto questo procedere inesorabile e, all’apparenza inutile. Ciò ci percepisce assistendo al destino del figlio di Marie che, solo, s’incammina con il suo cavalluccio di legno. Ecco la risposta: non esistono significati più grandi, ogni cosa procede inarrestabile, senza alcuno scopo superiore. 

L’uomo è destinato ad essere inutile per il progresso dell’umanità, come inutile è anche la propria ricerca personale (il progresso in senso stretto viene anche rappresentato, nell’opera, dal Dottore, che osanna in continuazione le grandi scoperte della medicina e della scienza). L’ anti-eroe (Wozzeck) è intento ad aprire le briciole di quella filosofia che lo vorrebbe vedere liquidato come uno dei fiori innocenti destinati ad essere irrimediabilmente calpestati da tutto quello che lo circonda.

La musica di Berg, razionalmente concepita a priori, come una grande architettura mentale (dotata della grandissima forza espressiva che contraddistingue la sua produzione, pur essendo dodecafonica), si fonde perfettamente con il dramma dell’incertezza e dell’inutilità delle cose. Dramma che risponde alla sarcastica caratterizzazione che Hegel aveva concepito nella «litania delle lamentazioni che deplorano, andando male per i buoni e i pii, e bene, invece per i cattivi e i malvagi».

Ulisse: l’umanizzazione del mito

Se Berg ha voluto mettere in luce l’inutilità del peregrinare umano verso qualcosa di migliore, parallelamente Dallapiccola, nel suo Ulisse (opera in un prologo e due atti, concepito a partire dal 1938 ed ultimato nel 1966, da lui definito «il risultato di tutta una vita» per il lungo tempo di gestazione), affida la stessa incertezza al suo eroe, incapace di riconoscersi e di limitarsi in quanto uomo, non avendo coscienza della grandezza di Dio.

Luigi Dallapiccola

Luigi Dallapiccola

Dallapiccola concepisce i suoi lavori sempre a partire da un’idea fondamentale: la lotta dell’uomo verso qualcosa di più grande di lui (ad esempio nell’opera Volo di notte vi è la volontà del protagonista di imporre i voli notturni nonostante l’opposizione generale; nel Prigioniero, la lotta del protagonista contro l’Inquisizione di Spagna; nella sacra rappresentazione Job il protagonista pone a Dio la domanda più ardua che mai uomo abbia osato rivolgere alla Divinità). 

Qual è invece, la lotta di Ulisse? La sua è una lotta contro se stesso, in quanto aspira a comprendere il mistero del mondo: egli, infatti, non sa più chi egli sia, riuscendo a dimostrare la sua persona solo ad Itaca, quando torcerà quell’arco che egli solo, in passato, era stato in grado di domare.

Esprime incertezza alla domanda di Alcinoo su chi fosse: “Io sono…Ulisse”, incertezza che lo porta ad essere vittima della sottile vendetta di Poseidone, in quanto dubita di se stesso. Ulisse, dunque, perde la grande dimensione mitica che fino ad allora era stata a lui attribuita: diventa uomo del nostro tempo, nel tempo del dubbio e del perenne interrogativo.

Anche nell’Ade egli è solo: ciò contribuisce a renderlo ulteriormente uomo, che guarda a fondo nell’abisso, parafrasando Nietzsche. Le Ombre, infatti, pongono a lui domande: “Chi sei? Che cerchi? “, e Ulisse le rivolge a se stesso, non riuscendo a dar loro risposta.

L’interpretazione che Dallapiccola compie, dunque, è una riduzione della figura leggendaria di Ulisse a proporzioni umane: diventa, per l’appunto, essere tormentato come ogni uomo pensante. 

Durante il suo viaggio cerca di dimostrare agli altri e a se stesso di essere padrone del proprio destino, ma dinanzi alle Ombre è nudo. Pure ritornato ad Itaca viene identificato come relitto da Antinoo, definendolo “nessuno”. 

Ignorato dal mondo e dal proprio destino, come anche Wozzeck, decide di procedere alla vendetta, nella quale diventa effettivamente qualcuno, per poi terminare nella sua conclusione effettiva di viaggio vitale, si ritrova solo, sul mare (come era stato predetto da Tiresia). 

Nella stessa conclusione in cui Wozzeck abbandona il mondo e il mondo continua senza di lui, inesorabile.

All’uomo Ulisse manca la parola, atta a chiarirgli il perché della sua vita, illudendosi persino della scoperta di Dio (rileggendolo parallelamente, si possono ravvisare i richiami all’Atto che deve compiersi di espiazione del male da parte di Wozzeck, per purificare il mondo).

L’unica persona che riesce a comprendere Ulisse è Calipso: comprende che Odisseo cerca altro nel suo viaggio, e la dea rinuncia nella sua volontà di ricerca. 

Nell’opera di Dallapiccola (secondo dunque il libretto che il compositore stesso predispone per il suo melodramma), Ulisse scopre Dio: è lontano dall’accezione mitologica in cui è stato collocato, tanto da trovarsi al di fuori della preveggenza dell’indovino Tiresia.

Questa è la grande esemplificazione della tracotanza dell’eroe (quasi come se fosse un Übermensch, il Superuomo di Nietzsche), identificata come caratteristica tipica della visione che la cultura italiana ha portato e messo in luce su Odisseo, a partire da Dante stesso (nella sua perpetua volontà di conoscere il mondo, il Sommo Poeta lo porta infatti in vista della montagna del Purgatorio, alle soglie della scoperta di Dio, per poi farlo naufragare: per Dante, infatti, soltanto coloro che erano stati redenti con la luce di Cristo o toccati dalla Grazia, erano meritevoli di innalzarsi verso la luce).

L’architettura dell’opera, anche in questo caso, è estremamente razionale. La scrittura limpida e sempre chiara dell’espressione dodecafonica, contribuisce a codificare questo dramma come un grande manifesto della ricerca del proprio io.

Entrambi gli eroi sono vittime di qualcosa: Wozzeck è vittima del contesto in cui vive, della società e del proprio essere che non riesce a divincolarsi dalle angherie e dalle proprie allucinazioni; Ulisse, invece, cerca disperatamente qualcosa in più: cerca l’Oltre l’Impossibile, finendo inevitabilmente a scontrarsi con la sua dimensione di uomo. Sono entrambi vittime di loro stessi, entrambi personificazioni dell’umanità su due facce della stessa medaglia, incapaci di riconoscere e di riconoscer-si in un mondo troppo grande per un paio di occhi.

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