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Parlare di musica – parte II

di Gianluca Di Donato - 23 Aprile 2023

In un primo momento la pubblicazione fu impedita dalla mancanza di spazio sulla rivista musicale “23” per la quale si era intenzionati a pubblicarle, più tardi invece furono i duri attacchi contro la politica dei nazisti contenuti nelle conferenze (che avrebbero avuto delle brutte conseguenze per Webern) a rinviare il tutto. Fu quindi soltanto molti anni dopo la fine della guerra e la tragica morte del compositore che fu possibile riesaminare l’archivio della rivista, messo in salvo in Svizzera, dal quale uscì fuori il manoscritto di Ploderer. Nel 1960 la Universal si dichiarò immediatamente lieta di pubblicare questi fondamentali scritti.

Questa doverosa premessa perché nella prima delle conferenze del 1933, quella dedicata alla nuova musica, Webern illumina in modo magistrale il “cammino” che intraprenderà, ma fa una serie di considerazioni che rispondono chiaramente al tema del rapporto tra parola e musica. Partendo dalle parole di Goethe nell’introduzione della sua Farbenlebre: (Goethe W, Farbenlebre, 1810. Trad. it. La teoria dei colori, Ed. Il Saggiatore 2008):

bisogna imparare a conoscere le leggi secondo le quali la natura universale sotto l’aspetto particolare della natura umana vuol produrre e produce, quando può.

Webern sottolinea che la natura si presenta a noi sotto diverse forme e quindi come per Goethe “il colore è la natura con le sue leggi in rapporto al senso della vista“, così il compositore austriaco sostiene che “la musica è la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell’udito“.

Va subito chiarito però che questa precisazione di Webern era finalizzata a spiegare che non esiste una musica corretta “consonante” ed una scorretta “dissonante”; ma partendo da questo postulato è possibile concludere che la musica esiste e si giustifica in virtù della sua voce, il suono, e della sua struttura portante, ritmo e forma, e che quindi ogni tentativo di spiegazione o traduzione in parole sarebbe un compromesso sul quale dover trovare un punto d’incontro. Anche per questo Webern invitò i suoi interlocutori ad un approccio scientifico e rispettoso del dettaglio tecnico, proprio perché era questo l’unico mezzo per “imparare a vedere abissi là dove sono luoghi comuni”.

Un ulteriore sviluppo di questo concetto può essere portato avanti partendo da ciò che sosteneva Ferruccio Busoni secondo il quale quanto meno si è emotivamente coinvolti durante un’esecuzione di un brano tanto più il pubblico ne è coinvolto. Questo che potrebbe sembrare un paradosso in realtà nasce da una verità di base, e cioè che l’emozione di chi suona non corrisponde necessariamente a quella che il compositore vuole rappresentare e che non è detto abbia provato. Ecco che essere eccessivamente coinvolti significherebbe in qualche modo imporre la propria emozione, quindi la soggettiva interiorizzazione del brano, a chi ascolta, che invece dovrebbe essere libero di percepire l’opera per ciò che essa gli comunica o possa significare. Se un compositore compone un lavoro che a chi ascolta può dare l’impressione di tristezza non è detto che il compositore abbia provato quella sensazione nel momento in cui l’ha composto. Questo soprattutto se pensiamo alla musica fino agli inizi dell’Ottocento, in molte delle quali sono presenti condizioni emotive diametralmente opposte all’interno di una stessa opera. Esistono alcune opere che fanno chiaramente capire come la direzione dell’ascolto non debba procedere necessariamente in una stessa direzione anche quando il brano sembra suggerire un’idea.

Emblematico in tal senso è il caso dei Preludi per pianoforte di Claude Debussy che hanno un titolo aggiunto alla fine del brano, fra parentesi dopo tre puntini sospensivi; il messaggio è chiarissimo, il compositore vuol dire questa è la sua idea ma non necessariamente quella di chi lo suona o lo ascolta.

Il problema del parlare di musica si è fatto indubbiamente più spinoso con lo sviluppo della critica musicale.
Le primissime testimonianze, qualcosa di poco più che una cronaca della serata, del diciassettesimo secolo, si limitano ad una descrizione sommaria dell’opera nei suoi aspetti più superficiali (titolo, compositore, argomento del libretto) e comunque oggettivi.

È solo a partire dai primi dell’Ottocento che il discorso divenne più complesso sebbene comunque legato ad una visione del brano che seguiva i canoni della tradizione. Ma è altrettanto emblematico il fatto che spesso dietro a recensioni di opere importanti c’erano altrettanti nomi importanti, quelli cioè di grandi compositori dell’epoca; Robert Schumann in primis, Hugo Wolf, Hector Berlioz.

Questi spesso, pur provando a nascondere la loro reale vocazione, scrivevano in termini prettamente emotivi e fortemente influenzati dall’estetica romantica. Basti pensare alla differenza che soprattutto Schumann farà tra poetico e prosaico, non per gli aspetti compositivi ma emotivi. Pertanto alla categoria dell’arte non poteva appartenere qualcosa che non suscitasse emozioni o che non riuscisse a trasportare l’ascoltatore in un atmosfera poetica.

Ancora oggi il termine “prosaico” si usa in un’accezione negativa, come fosse qualcosa di meno valido e poco emozionante. Una posizione, quindi, diametralmente opposta a quella di Hanslick che, come già detto, sosteneva l’esatto contrario e cioè che proprio i parametri che Schumann considerava meccanici, ovvero la forma e tecnica, facevano la differenza tra una grande composizione ed un lavoro minore.

Eppure gli scritti di Schumann troveranno, in tal senso, un epigono in quelli pubblicati agli inizi del novecento da Claude Debussy, il quale attraverso un curioso dialogo con immaginario personaggio, Monsieur Croche (Claude Debussy, Monsieur Croche et autres ècrite, Paris, Dorbon, 1921; trad. it Monsieur Croche. Tutti gli scritti ,a cura di E. Rostagno, Il Saggiatore, 2008) si lancia contro la tendenza a smontare le opere come fossero oggetti, “strani orologi”, rovinando quello che è lo scopo dell’arte ed il suo obbiettivo fondamentale: vedere attraverso le opere, i molteplici movimenti che le hanno fatte nascere e la vita interiore che esse contengono.

Nella terza ed ultima parte di “Parlare di musica” vedremo che la critica incorse più volte in errori di valutazione madornali e totale assenza di lungimiranza, fin dai tempi di Beethoven, dimostrando spesso non solo di non comprendere il genio di alcune grandissime figure dell’epoca, ma anche l’enorme importanza di brani destinati a fare la storia della musica e dei quali non seppero cogliere il reale valore, come poi il tempo dimostrerà.

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