La lingua del melodramma
di Silvia D'Anzelmo - 29 Giugno 2017
La polemica sugli stereotipi linguistici e sulla mancanza di originalità dei testi del melodramma è rilevata con sferzante ironia da Madame de Staël ed è comune a molti suoi contemporanei.
Mi si dirà che in Italia vanno le genti al teatro, non per ascoltare, ma per unirsi ne’ palchetti gli amici più famigliari e cianciare. E io ne conchiuderò che lo stare ogni dì cinque ore ascoltando quelle che si chiamano parole dell’opera italiana, dee necessariamente fare ottuso, per mancanza di esercizio, l’intelletto d’una nazione. Ma quando Casti componeva i suoi drammi comici, e quando Metastasio adattava così bene alla musica que’ suoi concetti nobilissimi e graziosissimi, non era minore il divertimento, e molto profitto ne faceva l’intelletto. In questa continua ed universale frivolezza di tutte le pubbliche e private radunanze, dove ognuno cerca l’altrui compagnia per fuggire se stesso e liberarsi da un grave peso di noia, se voi poteste per mezzo a’ piaceri mescere qualche util vero, e qualche buon concetto, porreste nelle menti un poco di serio e di pensoso, che le disporrebbe a divenire buone per qualche cosa.
La lingua del melodramma ottocentesco veniva vista come convenzionale, pedantemente aulica e ricca di modi retorici oramai consunti. A ben guardare, nei libretti d’opera troviamo gli stessi elementi costitutivi del linguaggio poetico coevo e, in particolare, quelli della tragedia alfieriana. Il teatro drammatico italiano dell’età romantica però non produsse risultati considerevoli, o meglio, si trattava di un teatro erudito, fatto per essere letto ma che la gravosità della lingua rendeva impossibile da recitare. Al contrario, il melodramma italiano ebbe un successo straordinario e si affermò nelle piazze teatrali nostrane ed europee e questo perché il melodramma è uno spettacolo completo e complesso che unisce in sé una molteplicità non indifferente di elementi.
L’opera lirica, infatti, è uno strano genere d’arte, fatto di componenti diverse e non omogeneizzabili tra loro, che ha cercato ripetutamente di rendere plausibile e funzionale proprio la disparità e la specificità degli elementi che lo compongono. La forma multipla e composita, non è il risultato di una drammaturgia, ma la sua premessa e la sua ragione, in modo che la disomogeneità di linguaggi e forme non risulti d’ostacolo al teatro ma anzi lo serva e assecondi.
Il linguaggio non è altro che uno di questi elementi ed è per questo che i sensi dello spettatore risultano completamente assuefatti senza dare troppo peso a quella lingua convenzionale e stereotipata che risulta facile da memorizzare, capace di sostenere la forza del canto e di veicolare ideali forti come quelli del Risorgimento.
La tensione tra testo e musica è sempre stata caratteristica dell’opera e rimanda alle tensioni tra libretto e partitura e, quindi, tra librettista e musicista che si contendono il primato l’uno sull’altro. Anche quando è il poeta a prevalere sul musicista, il libretto risulta un testo particolare che segue in parte le leggi della poesia e del linguaggio poetico ma se ne discosta essendo uno scritto da mettere in musica e quindi “drammatizzato”, per questo, il librettista diventerà una figura importante ma sussidiaria al servizio del compositore; Dall’ottocento in poi questo rapporto di subordinazione del librettista rispetto al compositore si accentuerà sempre più finché non si preferirà mestieranti a poeti veri e propri.
Caso emblematico è quello di Giuseppe Verdi ben consapevole della specificità del libretto tanto da sostenere che “sentenze che sarebbero bellissime in un libro, o anche in un dramma recitato, fan ridere in un dramma cantato”, in sostanza, egli dà importanza a ciò che chiama “parola scenica”; Verdi non ha bisogno di poeti ma di “facitori di versi” per le strutture drammatiche da lui volute: appunto di mestieranti. Ai suoi librettisti, il cigno di Busseto chiede brevità e concisione, aderenza totale al modello da cui l’opera è tratta per rendere in maniera immediata la situazione drammatica senza dover perdere tempo in inutili e vuote, seppur belle, parole.
Verdi rende chiara quella tendenza, già di altri compositori, a rendersi responsabili in tutto dello spettacolo melodrammatico realizzando compiutamente la figura del compositore-drammaturgo. Emblematica è la scelta di collaborare con il giovanissimo Francesco Maria Piave la cui inesperienza consente al compositore di assumere il ruolo guida e imporre il proprio punto di vista.
Se non temessi la taccia di utopista, sarei tentato di dire che per ottenere la possibile perfezione di un’ Opera musicale dovrebbe una mente sola essere autrice dei versi e delle note: da questo concetto emerge chiara la mia opinione che due essendo gli autori, è d’uopo almeno che essi fraternizzino, e che se la Poesia essere non deve serva della Musica, non deve nemmeno esserne tiranna. Convinto di questa massima, ho sempre operato in conformità di essa ed i maestri co’ quali ho diviso il lavoro furono sempre da me stesso interpellati all’oggetto.
In quell’epoca, assommare in un’unica figura il compositore e il librettista diviene un’urgenza ma sta di fatto che, nell’Italia ottocentesca, nessuno assurgerà a questo ruolo e, anche se Verdi ci andrà molto vicino suggerendo stralci di testo ai suoi librettisti, egli non riuscirà mai ad approntare i propri libretti senza l’aiuto dei “facitori di versi”; nonostante questo, le sue necessità e la sua volontà granitica influenzano profondamente il testo e la lingua dei libretti approntati per la sua musica.
Prendendo a esempio il libretto che Salvatore Cammarano appronta per il Trovatore di Verdi, ritroviamo moltissimi elementi antirealistici e formule antiquate che innalzano la lingua del testo rispetto al parlato: questo tipo di linguaggio, dunque, si configura come proprio del melodramma. Ritroviamo l’uso del passato remoto per il prossimo (“asserì”, “Ravvisarla potesti?”, “si mutò”), l’imperativo tragico (“M’odi”, “Mi vendica!”, “Mi lascia!”), l’imperfetto etimologico con caduta della labiodentale (“di due figli vivea..”, “Tacea la notte” ma affianco a questi anche “apparve”, “Mostrava lieto e pieno”), o l’uso delle forme arcaiche come “Fia”. Ritroviamo le tmesi (“Quale d’armi fragor”) e le inversioni (“Tirar del fanciullino”); il lessico ricercato (“Meschino” per bambino, “Brando” per spada, “Imen” per matrimonio); l’arcaico: “Aita”, “Core” e “Prence”; e i sintagmi antirealistici come “Nulla contezza” o “Aurato sogno”.
La collaborazione del librettista con Verdi, però, generò non poche complicazioni e ritardi: egli non era per nulla soddisfatto della prima stesura del testo approntata da Cammarano perché “parmi, o m’inganno, che diverse situazioni non abbiano la forza e l’originalità di prima…”; egli voleva soggetti sempre nuovi, personaggi che abbiano la forza di persone reali e una lingua che colga in maniera pregnante le situazioni. Per arginare il pericolo di concedere troppo spago all’invenzione poetica di Cammarano, egli inviò al librettista un riassunto ben dettagliato dell’azione così come voleva che si svolgesse e, solo dopo aver visto la prima parte, gli concesse di continuare la stesura dell’opera senza cambiare soggetto.
Il risultato finale mostra un’opera completamente differente rispetto alle altre due a cui solitamente è accostata: Rigoletto e La Traviata; nelle due opere tratte da drammi francesi, Verdi dà voce ad un’ampia gamma di situazioni psicologiche attraverso lo sfondamento (ma non la distruzione) dei numeri chiusi della tradizione operistica e, nel caso della prima, l’uso di una lingua e di una sintassi meno convenzionali.
Nel caso di Trovatore la situazione è ben diversa, non c’è scavo psicologico né evoluzione nei personaggi o nella trama che rimane inchiodata al rapimento del figlio del Conte di Luna e al rogo della zingara. Di conseguenza anche la musica è trattata in maniera differente, si torna ai numeri chiusi della tradizione ma solo perché ciò è funzionale al dramma. Tutta l’opera è basata su parallelismi e simmetrie che richiedono necessariamente un uso preciso e chiaro dei numeri musicali chiusi e una musica opportunamente “semplice”. A tutto ciò va abbinato l’uso di una lingua convenzionale e altamente codificata qual era, appunto, quella tipica del melodramma tragico da cui Cammarano attinge a piene mani: lessico ricercato ed evanescente, sintassi spezzata e irreale non sono altro che il coronamento a quest’opera la cui cifra è proprio la semplicità.
Voi sapete che da dodici anni sono accusato di mettere in musica i più pessimi libretti che siano stati fatti e da farsi, ma (vedete l’ignoranza mia!) io ho la debolezza di credere, per esempio, che Rigoletto sia uno dei più bei libretti, salvo i versi, che vi sieno.
Nessuna importanza alla poesia né al poeta, nella stesura del libretto Verdi vuole che risaltino i punti nodali della vicenda grazie a ciò che chiamerà “parola scenica” cioè “la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione”. Egli vuole versi forti e concisi, simili a quelli del poeta Vittorio Alfieri, elimina tutto ciò che è superfluo (“Fama te spento”), va al nocciolo cercando parole che evidenzino in maniera immediata ciò che succede sul palcoscenico e ciò che la musica va dispiegando. Individuato il fulcro drammatico della situazione bisogna sviscerarlo in maniera fluida eliminando le consuete sospensioni date dai numeri chiusi della tradizione per arrivare ad una narrazione più naturale. Il codice linguistico dei libretti di Verdi, ad un primo sguardo, sembra improntato agli stessi principi di eccezionalità e irrealtà della tradizione melodrammatica ed effettivamente, come riscontrato nel Trovatore, ciò non è sbagliato. Secondo il professor Vittorio Coletti, il sublime nella lingua dei libretti di Verdi è nel lessico ricercato che segnala lo scostamento dalla lingua comune (Chiesa>tempio, anima>alma, letto>talamo, garanzia>arra, divisa>assisa…), nell’indeterminatezza linguistica assicurata da termini indefiniti ed evanescenti (Cannone>bronzo, prigioniero>captivo), nelle scelte lessicali elevate, nell’uso di varianti dotte e rare; si riscontra l’uso di formule arcaiche come “pietade” o “virtude” con epitesi sillabica, le forme dittongate come “priego” o l’uso esteso del passato remoto (“lo vedeste”, “orror patì”) e l’imperativo tragico (“si rapisca”, “sia rapita”). A questi elementi si aggiungono le inversioni nella sintassi regolare (come la collocazione inversa del possessivo: mia figlia, mio padre. Le inversioni: “passiva donna”, “aragonese vergine”), l’uso di tmesi e di perifrasi.
Verdi quindi non ha nessuna intenzione di stravolgere la tradizione musicale e drammatica italiana ma, allo stesso tempo, questo suo rispetto non è mai pedanteria né statico ripetersi di forme già viste anzi egli parte da elementi familiari al pubblico solo per riuscire a renderli del tutto nuovi e permettere che siano accettati. Le tradizionali “forme fisse” non sono abbandonate ma trasformate, i tradizionali temi del melodramma romantico sono presenti, ma al tempo stesso il Maestro è sempre alla ricerca di “soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi…ed arditi all’estremo punto, con forme nuove” come nel caso di Traviata che porta in scena un tema nuovo, moderno e potentissimo (la lotta tra l’aspirazione personale alla felicità e lo scontro con i valori ottusi della società imperante) celato sotto il tradizionale triangolo Tenore-Soprano-Baritono e infarcito di una lingua iperletteraria: il suo è un lavoro incessante verso il miglioramento e la novità.
Esempio emblematico del suo costante lavorio di perfezionamento lo ritroviamo nella costruzione del libretto di Macbeth, che Verdi, non contento del lavoro di Piave, sottopose alla revisione di Andrea Maffei. In entrambi i casi, i due collaboratori furono costretti a mettere da parte il loro estro poetico e a seguire strettamente le rigide indicazioni di Verdi che si rifaceva alla traduzione di Shakespeare fatta da Carlo Rusconi. La Scena XIII “Fatal mia donna un murmure” verrà rivista molte volte dai due letterati che, sotto la guida del compositore, proseguono verso una costante crescita del sublime letterario: un vero e proprio lavoro di cesellatura. Verdi vuole che il carattere elevato, nobile dei personaggi, soprattutto di Macbeth, sia sostenuto dal tono sublime che deve scortarlo mentre sprofonda nella più nera cecità morale.
L’uso di una lingua estremamente elevata ed evanescente è vista come una necessità nel caso di una tragedia così nobile ma per Verdi non esiste un solo livello linguistico valido sempre e per tutti i personaggi; nel caso di Rigoletto, la caratterizzazione dei personaggi passa anche per l’ambito linguistico: la lingua poetica è cifra della frivola esteriorità del Duca di Mantova o del candore di Gilda ma non del rude Sparafucile o di Rigoletto buffone (non padre!) che scivolano verso la prosa.
Nel libretto del Rigoletto troviamo una stratificazione composita della lingua che accosta un certo grado di elevatezza, cristallizzazione e stereotipia ad un registro che tende al prosastico senza che in questo possiamo riscontrare una precisa alternanza nei registri. Ritroviamo un generale allineamento con il codice melodrammatico dell’ottocento con forti eccezioni che non riguardano solo il lessico o la fonetica (“cor” senza dittongo accanto alle forme “fuoco” o “nuova” o “muoia” al posto dei poetico “mora”, alternanza di pietà/pietade, beltà/beltade ecc.) ma anche la morfologia e la sintassi del testo che tendono verso la prosa.
Se nella collaborazione con gli altri librettisti, rimane imperante il codice linguistico melodrammatico e Rigoletto rappresenta quasi un’eccezione, nel caso della cooperazione di Verdi con Boito si assiste al vero cambiamento grazie alle visioni del poeta scapigliato che intende il testo del melodramma non come il semplice e stereotipato libretto ma come vera tragedia. Ciò che cattura il Maestro non è il fatto che Boito voglia innalzare a dignità letteraria il libretto ma che, per farlo, la parola non debba essere pensata disgiuntamente dalla musica che rimane la “sorella maggiore”. In Otello la sintassi si raddrizza, il linguaggio diviene più piano ma mantiene comunque elementi colti come l’imperativo tragico, i parasintetici danteschi o i regionalismi (“ragna”). Le varianti linguistiche utilizzate da Boito sono diverse rispetto a quelle tipiche del linguaggio poetico italiano, sono più estroverse e lo scarto rispetto al parlato si assottiglia ma neanche con lui riesce a scomparire.
La tendenza alla diversità rispetto al parlato all’interno dei libretti rimarrà comunque per tutto l’ottocento fino agli inizi del novecento, quando si rinnova sotto la spinta al perfezionismo e al preziosismo linguistico operata, in letteratura, da Gabriele D’Annunzio: la ritroviamo nei libretti di Giacomo Puccini come Tosca o Madama Butterfly ma dalla Fanciulla del West in poi la faccenda diviene ben altra.
Silvia D’Anzelmo