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Guardare l’opera: “Tristan und Isolde” di Wagner

di Silvia D'Anzelmo - 29 Novembre 2016

Nello scritto polemico “Il caso Wagner”, Friedrich Nietzsche mette in guardia il lettore contro questo “artista della decadenza” che, con la potenza della seduzione, “rende infermo tutto ciò che tocca”; per il filosofo, Richard Wagner è una vera e propria malattia così come malata è la sua arte che pure riesce estremamente affascinante e, perciò, doppiamente pericolosa e corruttrice.

Wagner, infatti, “conosce un suono per le segrete, misteriose, profonde oscurità dell’anima, quando causa ed effetto sembrano privi di connessione e quando in qualsiasi momento qualcosa può sorgere dal nulla…sì, quale Orfeo di ogni segreta desolazione egli è il più grande di tutti”. Il pericolo-Wagner, dunque, sta nella sua grande capacità di indagare l’animo umano fin nelle profondità più inquietanti, conflittuali ma, soprattutto, non riducibili alla serena e lineare chiarezza della ragione. Attraverso la patina mistica e universale del mito, il compositore riesce a toccare le corde più segrete dell’uomo che, inconsciamente, si lascia sedurre senza opporre resistenza; il problema sorge quando, nella ricerca delle motivazioni profonde, ci si spinge troppo oltre perdendosi in regioni estremamente pericolose: è questo il caso del “Tristan und Isolde”, sogno di un amore talmente idealizzato e trasfigurato da potersi realizzare, autenticamente, solo nella morte: un desiderio struggente di annientarsi l’uno nell’altra, un’ansia smaniosa di compenetrarsi pienamente spinge i due amanti al totale annullamento della propria soggettività nella morte vista come unica possibile fonte di serenità e completezza. A questo punto il monito di Nietzsche ci appare più chiaro ma, soprattutto, più veritiero.

Il progetto di un dramma musicale sull’amore di Tristano e Isotta aleggiava nella mente di Wagner fin dal 1854 quando comunicò all’amico Franz Liszt di aver “sbozzato” nella sua “testa un Tristano e Isotta” che, per ora, si configurava come un “concetto musicale della massima semplicità”. Dopo aver letto il poema cavalleresco “Tristan” di Gottfried von Strassburg, il compositore decise di mettere in musica il soggetto medievale contando di approntare un’opera in “dimensioni ridotte”, semplice da mettere in scena, “assolutamente adatta ai tempi” e che gli permettesse “una buona e pronta rendita” mentre continuava ad attendere alla stesura della Tetralogia. Folle illusione! Nato come lavoro agevole da affiancare alla monumentale “Götterdämmerung”, il “Tristan un Isolde” si trasformerà in una necessità impellente e obbligherà Wagner a un impegno totale; questo radicale cambiamento di prospettiva venne scatenato dalla lettura de “Il mondo come volontà e rappresentazione” (1818) di Arthur Schopenhauer fatta in quello stesso 1854 ma metabolizzata profondamente nel giro di qualche anno fino a incidere radicalmente sull’evoluzione personale e artistica del compositore. Schopenhauer, filosofo tedesco fortemente critico nei confronti dell’idealismo, aveva una visione profondamente pessimista mutuata dalla consapevolezza che la realtà non è razionale, ordinata e comprensibile all’uomo, anzi, tutt’altro. Il mondo, per Schopenhauer, esiste unicamente come nostra rappresentazione per cui si configura come mera apparenza, sogno

“velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella [Maya] rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente”.

Arthur Schopenhauer

Dunque, anche la vita, sperimentata in questi termini, non è altro che illusione e inganno e l’uomo deve sforzarsi di superare la trama superficiale dell’esperienza, uscire dal sogno per poter attingere alla realtà autentica; per farlo, però, deve negare la volontà, l’impulso forte e irresistibile che sperimentiamo attraverso il nostro corpo e che ci spinge ad agire, a vivere, a perpetuare la nostra specie. Per Schopenhauer perfino l’amore è una sovrastruttura che ingentilisce la semplice soddisfazione del desiderio sessuale al fine di perpetuare la specie e prolungare l’esistenza individuale nella prole. Ora, dopo aver assorbito tutto questo, Wagner poteva ancora sperare di fare del Tristan una semplice opera sull’amore? La risposta è, ovviamente, no.

Tornato sul Tristan nel 1857, dopo la burrascosa relazione amorosa con Mathilde Wesendonck, Wagner si isolerà sempre più “dai furori del mondo” per dedicarsi interamente alla stesura dell’opera che imporrà all’attenzione di tutti “la sublime infelicità dell’amore più alto, i lamenti del più doloroso rapimento”, quell’amore che non obbedisce all’impulso individuale della volontà, che fugge l’illusorietà delle sovrastrutture per concretizzarsi, autenticamente, al di là di questo ingannevole mondo. La tensione che si percepisce nel Tristan è tale che lo stesso compositore ne risulta quasi impaurito: “questo Tristano diventa qualcosa di terribile! […] solo delle rappresentazioni mediocri potrebbero salvarmi! Se fossero perfette potrebbero far impazzire gli spettatori, non riesco a immaginare altro.” La semplice storia d’amore acquisisce una sempre maggiore complessità che deriva proprio dalla rielaborazione personale di alcuni concetti chiave della filosofia di Schopenhauer integrati con tematiche tipiche del romanticismo tedesco come l’aspirazione al sublime, la sehnsucht, la predilezione per la notte come luogo delle verità in opposizione alla ragione ingannevole del giorno; questo quadro concettuale andrà a strutturare l’intera opera fino a renderla psicologicamente faticosa da sostenere eppure estremamente fascinosa e ammaliante: un prelibato frutto proibito.

La dinamica narrativa del “Tristan und Isolde” è impostata sull’asse di una serie di opposizioni che possono essere ridotte alla fondamentale dicotomia tra azione esteriore ed evento interiore; Wagner esaspera questa separazione tra il mondo esteriore fatto di eventi tangibili, di regole sociali, moralità, onore, insomma, ogni sorta di illusoria sovrastruttura che inganna l’uomo con il miraggio della vita; e il mondo dell’interiorità che appartiene solo ai due amanti i quali hanno intuito il gioco della volontà, l’inganno del giorno e si votano alla notte, ripiegano in se stessi non bramando altro che la liberazione da questo mondo per compenetrarsi totalmente. Il compositore assottiglia enormemente le azioni esteriori, le liquida in fretta per dedicarsi a quello che è il vero, l’unico evento autentico: il dramma interiore.

Wagner apre l’azione con il canto beffardo di un marinaio che allude alla condizione di Isolde principessa di Irlanda in viaggio verso la Cornovaglia per sposare il re Marke. A scortarla è Tristan, nipote del re, “fido vassallo che aveva richiesto a nome del proprio re la mano di Isotta, ch’egli stesso, senza in cuor suo riconoscerlo, amava”; anche la principessa di Irlanda, nonostante l’ostilità nei confronti del giovane “era a sua volta soggiogata dal pretendente per procura”. Sulla tolda della nave, Isotta svela alla sua ancella Brangäne come l’eroe Tristan che tutti elogiano non è altri che l’infelice Tantris arrivato sulle loro sponde prossimo alla morte e da lei salvato; egli aveva ucciso il suo promesso, Morold, che lei avrebbe dovuto vendicare ma davanti ai suoi occhi fu colta da pietà e lasciò cadere la spada. Curato con pozioni e filtri, Tantris tornò come Tristan e la vinse come premio della pace tra i due paesi. Ella ora esige che l’offesa venga risanata e trova il modo di vendicarsi usando il più potente tra i filtri che la madre le ha donato: il filtro di morte. Isolde costringe Tristan a un incontro prima dello sbarco e lo obbliga a bere la coppa della riconciliazione, il filtro che avrebbe dovuto dare la pace e che, invece li inonderà di desiderio: la fida Brangäne, disobbedendo agli ordini della padrona, prepara ben altro filtro, quello dell’amore. “Nell’ardore amoroso che il filtro ha acceso in loro, i due giovani riconoscono la passione che indissolubilmente li lega. Si scatena il desiderio, la bramosia, la voluttà, la pena dell’amore: il mondo, la forza, la gloria, il fasto, la cavalleria, la fedeltà, l’amicizia, tutto si dilegua come un sogno evanescente: non sopravvive altro che il desiderio”.

I due giovani giungono presso le terre di re Marke completamente trasfigurati travolti dall’ansia di annullarsi l’uno nell’altra, di perdersi nell’oblio. Il loro distacco dalla vita degli eventi procede a ritmo sempre più spedito, nel II atto, Isolde è nelle stanze del re Marke ma attende che i cavalieri si allontanino per la caccia notturna così da poter spegnere il lume e attrarre a sé Tristan; quest’atto è quasi interamente incentrato sul dialogo dei due amanti che maledicono il giorno perché li tiene lontani, persi nelle inutili e false occupazioni del mondo esteriore.  Durante questa lunga e appassionata invocazione alla morte, i due risultano sempre più distanti dalla realtà, sembra che stiano per recidere ogni legame quando essa irrompe ricacciandoli a forza nel mondo della luce: re Marke, messo in guardia da Melot, torna dalla caccia e scopre i due amanti. Il suo stupore è indicibile, egli non riesce a spiegare come il più fedele, il prode e onesto Tristan a cui voleva lasciare i suoi possedimenti e la corona, lo abbia tradito. Tristan è confuso, perso, non può rispondere delle sue azioni, si rivolge, invece, a Isolde e le chiede se vuole seguirlo nel regno della notte; a questo punto Melot, di lei segretamente innamorato, balza furioso sguainando la spada contro il giovane che non prova neanche a difendersi, anzi, si getta sul ferro del nemico desideroso di morire.

Il III atto è tutto incentrato sul giovane Tristan esangue che attende Isolde nella dimora dei suoi padri, Kareol, poiché non può morire finché la sua amata rimane nel regno del giorno. Dopo molto penare, la bella Isolde arriva e Tristan può finalmente abbandonarsi così come la sua amata sempre più distante finalmente si acquieta “nell’unica estrema redenzione – la morte, la consunzione, la dissoluzione, il sonno perpetuo!”

I pochissimi elementi che hanno a che fare con la dimensione visibile sono gli eventi reali che fanno da cornice al dramma e che non sono presentati come elementi oggettivi ma echi e visioni di quel mondo della luce che arriva lontano e distorto all’animo dei due amanti. Un esempio lampante è legato al suono dei corni fuoriscena che annunciano la caccia notturna del re Marke all’inizio del II atto; Isolde, in trepida attesa del suo amante, intende quei suoni come un’eco remotissima (della fonte la dolcemente/mormorante onda/mormora verso di noi così soavemente./Come l’udrei,/se rimbombassero i corni ancora?) e a nulla valgono gli avvertimenti della sua ancella Brangäne, ultimo flebile legame con il mondo della luce. Gli eventi reali non appartengono a Tristan e Isolde poiché essi non agiscono ma raccontano, tutta la loro storia è nella memoria, nella narrazione di ricordi legati al passato.

Il concetto di “Handlung” cioè di azione con il quale Wagner definisce il Tristan si riferisce, dunque, a un agire che oltrepassa l’evento visibile e va alle motivazioni interiori che mai abbandonano l’uomo.

“Tutto quel ch’è brusco e repentino mi ripugna; sarà anche talvolta inevitabile e financo necessario, ma non deve mai manifestarsi senza che l’animo sia stato tanto accuratamente predisposto alla transizione improvvisa da esigerla esso stesso. Il mio capolavoro supremo nell’arte della transizione sottile e graduale è senz’altro la grande scena dell’atto II di Tristano e Isotta. L’inizio di questa scena rappresenta la vitalità più impetuosa nella turbolenza della passione- la conclusione, il più solenne, intimo desiderio di morte. questi sono i pilastri dell’intiera scena: vedete voi, amica mia, come li ho saputi collegare, come si scorre gradatamente dall’uno all’altro! Questo è per l’appunto il segreto della mia forma musicale, una forma che- ho l’audacia di affermarlo- nessuno ha mai neppure osato sognare in un così alto grado s’astrattezza e d’estensione e di particolareggiata nitidezza.”

Richard Wagner

Wagner non ama il coup de théâtre, preferisce un’azione unica basata su motivazioni interiori a cui corrisponde la corrente di motivi musicali che informa dall’inizio alla fine l’opera: egli non sonorizza delle azioni ma delle motivazioni e queste non vengono mai meno nell’animo umano per questo la musica non può spezzettarsi per seguire le strutture tradizionali ma deve essere un’unica trama cangiante. In questa arte della transizione il contrasto viene annullato e la musica segue il graduale passaggio da uno stato esistenziale all’altro: la costruzione progressiva del cambiamento è cifra dell’opera fin dalle prime note del Preludio, manifestazione musicale di “un desiderio inestinguibile, una brama che si rigenera eternamente”, di uno struggimento, che trova “una sola via di redenzione: morte, fine di tutto, un sonno senza risveglio”.

In questo Preludio, Wagner non riassume le vicende sceniche ma condensa gradualmente l’idea poetica alla base dell’intera opera senza seguire uno schema, assecondando semplicemente il raggrumarsi delle idee: i violoncelli sospirano tormentati il “motivo del dolore” che apre il Preludio e si incontra, cangiandosi, con il “motivo del desiderio”, entrambi congiunti dal Tristanakkord (fa-si-re#- sol#) primo violento colpo alla tonalità e inaugurazione della modernità in musica. Questo accordo è estremamente particolare e affascinante perché ambiguo, difficile da definire a livello strutturale e questo è dovuto alla semplice organizzazione per intervalli di quarta e non di terza -l’intervallo è la distanza tra due note consecutive, per esempio do-mi è un intervallo di terza, per definire questa distanza si contano le note a partire dalla più grave (compresa) alla più acuta.

L’idea musicale mista di sofferenza e desiderio viene ripetuta per tre volte, si spezzetta esangue finché non sfocia rabbiosamente in un’onda trascinante: un nuovo grande motivo che si espande “fino a toccare l’impeto più travolgente, lo sforzo violento di trovare una breccia”. Tutto questo anelito, questo rincorrere l’appagamento del desiderio sensuale è totalmente vano: “impotente il cuore torna a struggersi di desiderio, un desiderio senza meta”. Questo eterno stato di mancanza che porta l’uomo a desiderare, a bramare un qualcosa che lo completi è folle e vano perché, dopo l’appagamento, torniamo allo stato di partenza, liberarsi da questa tormentosa catena significa negare la volontà, acquietarsi nel sonno della morte: nell’estremo languore della musica, che torna a farsi esangue, scorgiamo il sommo ristoro “del non-essere-più”.

Già dal Preludio scorgiamo quell’ansia di annullamento, di compenetrazione che rende l’amore di Tristan e Isolde qualcosa che va al di là della semplice affermazione della volontà in termini schopenhaueriani: i due amanti vogliono rompere il meccanismo mancanza–desiderio-appagamento perché il loro amore non sia una mera apparenza ma qualcosa di puro, di assolutamente vero; l’unico modo per negare l’amore in quanto affermazione della volontà è votarsi alla morte, negare il giorno con tutte le sue illusioni, i suoi contorni, le sue parzialità e inabissarsi nel tutto indistinto della notte. Wagner segue i due amanti mentre si allontanano sempre più dal giorno, dal loro primo colloquio fino al “liebestod” di Isolde quando il distacco con la realtà ingannevole è oramai avvenuto ed entrambi sono oltre il velo di Maia.

Wagner apre la scena sulla tolda della nave che trasporta la principessa di Irlanda, Isolde, verso le terre del re Marke cui è promessa sposa; tutto il primo atto non è altro che narrazione, il racconto di Isolde degli antefatti attraverso il quale veniamo proiettati verso il nucleo centrale dell’opera:“la bevanda della riconciliazione” che, altro non dovrebbe essere se non il filtro di morte ma che si rivela un filtro d’amore. Dopo aver bevuto seguono lunghi attimi di silenzio in cui i due attendono la morte che non arriva: alla fine, come angoscioso ansimare, tornano i leitmotiff della sofferenza e del desiderio ascoltati nel Preludio. Nessuna possibilità di scelta, i due erano già dolorosamente votati l’uno all’altra: occhi negli occhi si riconoscono e si lasciano andare all’annullamento del sé (“Oh eravamo ormai/consacrati alla notte!”). Si è ormai alla meta, i marinai apprestano lo sbarco, Brangäne comprende il suo fallo guardando davanti a sé Isolde e Tristan avvinti da un amore folle.

Il percorso di eutanasia della coscienza prosegue nel II atto, nell’incontro notturno che vede Tristan e Isolde sempre più lontani dal mondo degli eventi, le identità dei due amanti sono già unite fin quasi alla confusione:non ha importanza chi parla e soprattutto non ha importanza cosa viene detto, il flusso di coscienza passa dall’uno all’altra senza soluzione di continuità, nella musica così come nel testo (Isolde: Son proprio io? Sei proprio tu?/ ti tengo stretto. Tristano: Son proprio io? Sei proprio tu? Non è un inganno?). Il giorno è doloroso per loro, è fraudolento ed entrambi sperano che presto “ceda alla morte” disperdendo la parola “und” che lega i loro nomi, così da diventare davvero un’unica entità: “Non più Isotta né Tristano […] così siamo morti: per inseparati,/eternamente congiunti,/ senza fine/ senza risveglio,/ senza sospetto,/ ineffabilmente/ presi in amore/ a noi soli intenti,/ vivere d’amore”. Il percorso di soppressione della soggettività si conclude nel III atto, a Kareol dimora degli antenati dove Tristan si rifugia per aspettare la morte; Wagner costruisce una lunga scena in cui Tristan tenta di riconquistare il dominio di sé mentre era già quasi del tutto perso nei meandri dell’oblio infinito.

Richiamato al giorno dall’antica melodia del pastore, egli è confuso, la sua memoria è sfocata, regredisce in un passato ancestrale lontanissimo; pian piano i contorni diventano più nitidi, egli è tornato nel mondo della luce del giorno che maledice ferocemente fino a ricadere sfinito sul suo giaciglio ma senza spegnersi poiché attende l’arrivo di Isolde per poter finalmente liberarsi, insieme con lei, dal mondo. Finalmente, dopo una lunga attesa, Isolde arriva “in fretta senza più respiro” e si appresta a Tristan che, vedendola al suo fianco, si abbandona e muore “con lo sguardo fisso su di lei”.

Isolde entra in uno stato di confusione, comincia a lasciarsi andare senza fare più attenzione a ciò che le accade intorno, ella “figge lo sguardo con crescente esaltazione sul cadavere di Tristano” e intona il Liebestod, lunghissimo canto di morte in cui la parola e la sintassi si perdono fino a risultare incomprensibili e alogici per l’ascoltatore che fa ancora parte del mondo crudele e illusorio e non può intendere la pace e la serenità del nuovo stato in cui si trova Isolde: “Odo io soltanto questa melodia, che così lieve e meravigliosa, piangendo nella gioia, esprimendo tutto, dolce e conciliante, risuona da lui e penetra in me, si libra in alto, echeggia soavemente e mi avvolge nel suono? I suoni limpidi che mi circondano sono forse onde di morbide brezze? O sono vortici di piacevoli vapori? Come si gonfiano e mormorano intorno a me! Devo respirarli, ascoltarli? Devo berli, immergermi in loro? Dolcemente esalare nei vapori? Nel mare ondeggiante, nel tutto palpitante del respiro del mondo, naufragare, affondare inconsciamente, piacere supremo!”

http://www.youtube.com/watch?v=qGbmjX7AYyU

Nella tragica morte di Tristan e Isolde, Wagner ha distillato in una forma assoluta la profonda e insanabile dicotomia tra il mondo delle apparenze della vita diurna e l’autenticità della mistica notte, pallido riflesso della più profonda morte: l’amore, che nel giorno è semplice affermazione della volontà, istinto brutale mascherato a festa, viene purificato fino a divenire sentimento di assoluta autenticità grazie alla negazione della individualità nella morte.

Silvia D’Anzelmo


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