Prima della Scala: un Don Carlo sfortunato

Il titolo scelto per l’inaugurazione della stagione 23/24 del Teatro alla Scala di Milano è stato, lo sappiamo, Don Carlo. Rigorosamente senza S conclusiva, trattandosi della versione italiana in quattro atti. La produzione non è nata sotto i migliori auspici: diversi i cambi cast, di cui l’ultimo a stretto giro, Ain Anger (il Grande Inquisitore) ha cancellato l’intera produzione per motivi di salute, venendo prontamente sostituito da Jongmin Park, già presente in scena come Frate e cedendo la breve parte del finale a Huanhong Li, uno dei deputati fiamminghi. A coronare un’inaugurazione un po’ sfortunata l’annuncio del Sovrintendente Meyer a metà recita: Michele Pertusi (Filippo II) ha problemi di salute, ma canterà comunque.

Non c’è dunque troppo da stupirsi se la recita sia stata in generale condotta sottotono e senza troppo entusiasmo. La prima, evidente falla d’altronde era già nella regia di Lluís Pasqual. Affidandosi interamente alle scene di Daniel Bianco e ai costumi di Franca Squarciapino, la regia si risolveva in una fondamentale staticità da cartolina, non riuscendo nemmeno ad evocare un fascino da tableau vivant storico. Pochissime le idee, alcune anche di dubbio gusto, come le evitabilissime mezze luci in sala durante l’intervento della Voce dal cielo o l’allegro fuocherello che si accende in centro palco, in luogo della monumentale pira dell’autodafé: a ‘sto punto era meglio evitare proprio. Ma il vero problema della regia stava nella dissoluzione dei nessi drammatici tra scene e tra personaggi, che si susseguivano sul palco come bozzetti a sé stanti, senza creare la temperatura espressiva necessaria per andare oltre la superficie. Non aiuta la direzione di Riccardo Chailly, elegantissimo e in pieno controllo, ma facile alla dilatazione e restio a concedersi un’espressività più intensa.

Si è parlato della scelta dei metronomi più lenti, ma il discorso non è metronomico, sia chiaro, è di tenuta della tensione. Anche con tempi dilatati è possibile tenere vivo il discorso musicale scavando nelle frasi senza mai adagiarsi. L’omogeneità del colore, la monotonia dell’impulso ritmico, il rifiuto di quasi ogni guizzo nervoso o al contrario di quasi ogni istante di contemplazione timbrica hanno invece restituito un Don Carlo cauto fino all’immobilità, da cui solo inoltrandosi di atto in atto il direttore riusciva ad abbandonare l’eloquio compassato per accalorarsi in qualche slancio dal contrasto più marcato. Innegabile però l’eccellente prova dell’Orchestra del Teatro alla Scala, veramente tirata a lucido, e del Coro preparato da Alberto Malazzi. La qualità del suono di sezione degli archi e la solidità degli interventi dei fiati e dei percussionisti, così come la coesione della massa corale, erano veramente degne di un grande teatro europeo.

© Teatro alla Scala – pagina Facebook. Ph Brescia e Amisano (per tutte le foto)

Luci ed ombre anche nel cast. Michele Pertusi, l’ho menzionato, era parzialmente indisposto ma ha portato a casa la recita con dignità, trovando qualche bel momento in “Ella giammai m’amò”, pur senza grande scavo in un ruolo che dovrebbe conoscere dall’interno. Molto affaticato Francesco Meli (Don Carlo), che dopo una partenza tutto sommato buona e con carattere si incaglia in evidenti difficoltà vocali da cui si risolleva a fatica in qualche pezzo d’insieme. Altalenante anche la prova di Salsi (Rodrigo), che al di là delle slabbrature di intonazione non riesce a trovare veramente il personaggio del Marchese di Posa, ma raggiunge alcuni momenti di grande efficacia drammatica come quel “La pace è dei sepolcri” quasi gridato. Jongmin Park (Inquisitore/Frate) disimpegna senza troppi affanni le due parti, senza però riuscire a far altro che grattare la superficie del personaggio del Grande Inquisitore, per cui gli servirebbero anche note gravi più piene. Anna Netrebko canta con furore fin troppo aggressivo, ma riesce a regalare un buon “Tu che le vanità” nel quarto atto, in cui rispolvera la pasta vocale dei tempi migliori. Ciò che manca però è una maggiore ricchezza di colori e di contrasti tra gli slanci più drammatici e i ripiegamenti lirici più nostalgici e innocenti. Di nuovo: manca il personaggio e tutto il discorso si riduce automaticamente a valutare la pulizia dell’emissione, la pienezza delle note, se è ingolato, intubato, insaccato, se i suoni sono fissi o al contrario il vibrato è molesto. Insomma, in mancanza di una vera drammaturgia musicale e teatrale rimane un po’ tutto fermo lì, limitato ad un puro sfoggio vocale più o meno riuscito in base ai casi e ai momenti.

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C’è invece il personaggio di Eboli nell’interpretazione di Elīna Garanča, ma anche la sua non è una serata perfetta e ad alcuni gesti di grandissima efficacia (penso in particolar modo al finale do “O don fatale”) alterna momenti non ben a fuoco, in particolar modo nella Canzone del Velo. Molto bene Rosalia Cid come Voce dal cielo, meno bene Elisa Verzier come Tebaldo e abbastanza bene i vari comprimari, compreso il menzionato Li improvvisamente ritrovatosi Carlo Quinto nel finale.

In generale, non si può dire che ci siano stati grandi disastri in questa Prima. Salvo qualche momento di più pronunciata stanchezza nel terzo e quarto atto, tutto si è svolto piuttosto decorosamente, con qualche momento più felice che ha strappato applausi entusiasti. Mancavano però l’energia, la tensione, la curiosità da Prima – quella che invece l’anno scorso, con il Boris Godunov, era ben presente – che non rende giustizia all’ottima stagione che seguirà questo primo Don Carlo.

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