La seduzione del Sacro: il Cantico di Filidei in prima nazionale al Carlo Felice di Genova

Venerdì 1 dicembre, all’Opera Carlo Felice di Genova, si è svolta la prima esecuzione italiana del Cantico delle Creature di Francesco Filidei, uno dei compositori di maggior rilievo della classica contemporanea italiana e internazionale. Il pezzo nasce dalla commissione della Fondazione Teatro Carlo Felice, dei Berliner Festspiele e dell’Ensemble Modern di Francoforte, diretto da George Benjamin, che l’ha eseguito in prima mondiale il 3 settembre al Musikfest di Berlino.

Si tratta di una composizione per soprano e orchestra, della durata di circa venti minuti, basata sull’omonima lauda di San Francesco d’Assisi.

Mi ero segnato questa data da tempo. Un pomeriggio di settembre mi trovavo a Genova, e attraversavo il foyer aperto del teatro – quella piccola piazza, circondata da colonne di pietra, dove, la sera, echeggiano le voci del pubblico prima e dopo un concerto. Faceva ancora caldo, e soffiava il vento di mare. Mi fermai a leggere il programma della nuova stagione sinfonica, mosso più dalla nostalgia che dalla curiosità.

A pochi passi da me, una donna cantava Un bel dì, vedremo, sopra la musica ovattata di un altoparlante. I miei occhi scorrevano distrattamente il calendario, finché non inciamparono su un nome: Francesco Filidei.

Mi sembrava di giocare all’intruso. Non mi sarei mai aspettato di trovare il suo nome nel programma del Carlo Felice, un teatro che, per molti anni, è rimasto ancorato ai soliti pezzi di repertorio, sinfonico e operistico. Eppure era lì. Fra le sinfonie di Mozart e il Concerto di Natale, c’era la musica del compositore che ha scritto la Toccata per pianoforte (1996) e la Danza Macabra per organo (1996), due pezzi in cui non c’è una nota a pagarla oro. Perché l’esecutore deve strusciare i palmi, le unghie e i polpastrelli sui tasti dello strumento, senza mai affondare le dita, per produrre suoni intonati.

Filidei, classe 1973, è un compositore che, fin dagli inizi, ha sempre dedicato un’attenzione particolare all’aspetto timbrico della musica. Alla ricerca di un suono che vive ai confini fra gesto e vibrazione, fra rumore e nota intonata. A volte è puro dadaismo, come in Esercizio di pazzia I (2012), per quattro esecutori e palloncini, o in Love Story (2020), per sette rotoli di carta igienica. Molto spesso è una ricerca di Senso, sulle origini e sulla fine dei suoni, che passa attraverso il corpo organico degli strumenti acustici e degli oggetti più inaspettati. Che è un altro modo di interrogarsi sulle nostre origini e sulla nostra fine. In questo senso, la musica di Filidei ha un forte legame con la dimensione del Sacro.

Ora, da un po’ di tempo a questa parte, sta lavorando molto sulla forma dell’opera lirica, per ristrutturarla dall’interno. L’operazione che sta facendo si può riassumere così. Rispolvera dal grande archivio della Storia forme musicali ormai trapassate, per soffiare una nuova anima nella carcassa del loro corpo morto. Lo fa in Giordano Bruno (2015) e nell’Inondation (2019), con il genere dell’opera lirica; ma anche in composizioni come Tre Quadri (2020), con la forma sette-ottocentesca del concerto per pianoforte in tre movimenti, e nel Cantico delle Creature con la lauda.

 

Il Cantico delle Creature (2023) è il secondo lavoro che arriva sul palcoscenico del Carlo Felice. Il primo è stato il balletto Sull’essere angeli, nel 2021, con la coreografia di Virgilio Sieni. L’ultimo sarà Il Nome della Rosa, nel 2025, l’opera lirica tratta dal romanzo di Umberto Eco, co-prodotta dal Carlo Felice, insieme al Teatro alla Scala di Milano e all’Opéra di Parigi.

La sera del concerto il mio treno è in ritardo. Arrivo alla stazione di Piazza Principe venti minuti prima dell’inizio. Prendo un taxi. «È tutto il giorno che piove!» mi dice l’autista. Guardo le strade del centro che scorrono dietro ai finestrini. La città, ancora bagnata, brilla alla luce dei lampioni. Mi precipito all’ingresso del teatro. Salgo a due a due gli scalini di marmo, ed entro in sala mentre tutto si fa buio. C’è poca gente, e ne approfitto per sedermi più al centro. Poi sale sul palco Leonhard Garms, il direttore, e scrosciano gli applausi. Quando comincia il Cantico la gente inizia a bisbigliare.

«Dodecafonia!» mormora una donna dietro di me. Riporto l’attenzione sulla musica ma mi viene quasi da ridere. Perché non c’entra niente la dodecafonia con il Cantico di Filidei. E ancora, «Questi moderni non li capisco proprio» sento borbottare accanto a me. Mi giro. È un signore seduto alla mia stessa fila, due sedili più in là. Lo squadro nell’intervallo. È un tipo coi baffi e un Borsalino nero, che si accompagna con una signora in pelliccia. Hanno l’aria di essere due melomani, di quelli che si abbonano tutti gli anni e che, a settembre, fanno la coda per accaparrarsi i posti migliori. Verso di loro provo un misto di tenerezza e insofferenza.Sono dinosauri: in loro vive la testimonianza della frattura che c’è stata in Italia, negli anni 50, fra Sanremo e Luigi Nono, fra le canzonette e la musica di ricerca.

Poi succede qualcosa. Succede che entra in scena la soprano, Jeanne Crousaud, camminando fino al leggio con passo lento e cerimoniale. E l’orchestra dipinge un paesaggio armonico tonale, sostenuto da un pedale di fa# maggiore. Spunta il sole, e lei comincia a cantare. Silenzio in sala. Sono tutti catturati. La scrittura vocale ti fa viaggiare indietro di secoli, ai tempi della lauda, del canto gregoriano e del madrigale cinquecentesco. L’orchestra è una tavolozza timbrica che, strofa dopo strofa, veste la melodia principale con abiti dai colori sgargianti. Gli elementi della natura emergono dall’affresco sonoro come figure che stanno a metà strada fra il naturalismo e la metafisica.

Il Sole, la Luna, il Vento, l’Acqua, la Terra. San Francesco li chiama in causa uno a uno. E Filidei ce li fa sentire coi suoni degli strumenti acustici. Non descrive, evoca. Invoca. E senti il vento, senti la pioggia, senti le stelle graffiare la notte, e il crepitare del fuoco che è quasi una danza. Il Cantico delle Creature è un pezzo complesso, perché completo di tutto. Ognuno, se vuole, può trovare il suo posto nell’ascolto. Non è una musica che non si dà. È una musica che ti viene a cercare, che ti tocca e ti seduce.

«Vorrei che la mia musica potesse essere ascoltata in due modi: come una canzonetta e per la struttura che ha» mi dice Filidei, la mattina dopo, al bar del teatro. Indossa un paio di occhiali tondi, un dolcevita nero e una giacca chiodo, che ricorda gli anni del rock n’ roll e della controcultura.

«Quel che sto cercando di fare adesso è scrivere a più livelli di lettura. C’è un primo strato leggibile da tutti, sotto al quale ci sono altri strati per chi vuole approfondire. Il Nome della Rosa è fatto così. È un libro che potrebbe leggere anche mia madre. A me intessa scrivere pezzi con questa struttura. Fare musica di pura ricerca non mi interessa più, ora vorrei arrivare a tutti, come i compositori d’opera dell’Ottocento».

«Perché musicare il testo di San Francesco?»

«Mi permetteva di sviluppare nell’orchestra tutti gli effetti timbrici che ho cercato nel corso degli anni. E poi c’è l’aspetto formale. La lauda è composta da tredici strofe, quante sono le note della scala cromatica che stanno in un’ottava. Allora ho associato una nota a ogni sezione del testo. Si scende dal fa# fino ad arrivare al fa# dell’ottava inferiore. Questo mi permetteva di arrivare al do quando si parla del fuoco. E l’accordo di do maggiore ha uno spettro armonico particolarmente colorato».

Fuori piove a dirotto. Si avvicina la ragazza del bar e ordiniamo due caffè.

«Per me le note sono strettamente legate ai colori. Quando le sento, li visualizzo subito. Un re è giallo, un sol è rosso. Questo pezzo è come una sequenza di quadri ottocenteschi, ciascuno colorato da un filtro di luce particolare, e inseriti in una struttura metallica che dà loro un senso nuovo attraverso la disposizione».

«Anche il tuo Giordano Bruno è fatto così».

«Chiudere le cose in una forma rigorosa è molto importante per me. Mi insegna a controllare il tempo. La musica, fondamentalmente, è tempo. E se riesci a controllare il tempo in musica, forse riesci a farlo anche nella tua vita».

«Come dialoga la ricchezza cromatica del tuo pezzo con la figura di San Francesco?».

«San Francesco era un uomo abitato da profonde contraddizioni. Credo che il suo modo di essere povero nasca da un gusto per l’eccesso, che ha maturato quando era ricco sfondato. Agli inizi della sua vita, faceva Burri coi suoi vestiti. Prendeva pezzi di stoffa preziosissimi e li cuciva insieme a sacchi di iuta. Faceva questi patchwork e li indossava nelle occasioni mondane. Nel mio Cantico tutti i colori che vengono prima servono a mettere in risalto la strofa finale, dove c’è la voce spoglia, accompagnata da sassi, campane e vento».

«È da un po’ che, nella tua produzione musicale, giochi molto con la memoria storica degli ascoltatori. Cosa ti lega alle forme musicali del passato?».

«La memoria è tutto per me. Generi come l’opera, il concerto o la lauda, sono ormai dei cadaveri. Sono strumenti che appartengono al passato. E la loro forza sta proprio in questo, nel fatto che il loro periodo di splendore sia finito. Gli strumenti del passato hanno più forza di quelli del presente. Perché gli strumenti del presente non hanno quella patina di nostalgia propria delle cose che non sono più».

Giacomo Di Scala

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