Violoncello In-Audito: la Sonat(in)a op. 4 di Kodály

La prima esecuzione della Sonata op. 4 nel 1910 – proposta insieme ai quartetti d’archi di Kodály e Bartók – rappresenta la nascita della musica moderna in Ungheria. A partire dal 1905, Zoltán Kodály partecipò alla ricerca sul canto popolare in Ungheria, iniziata e portata avanti proprio dall’amico Béla Bartók. Il brano, spesso oscurato e molto meno eseguito della vicina op. 8 per violoncello solo, è in parte frutto di questa ricerca, derivata dalla necessità di rappresentare l’identità folkloristica e popolare ungherese.

I. Fantasia – Adagio di molto

La sonata si sviluppa in due movimenti ed è un brano affascinante, originale e completo. Da un punto di vista formale, l’op. 4 fonde elementi estremamente innovativi a strutture classiche: il giovane Kodály non si allontana infatti dalla progettazione beethoveniana di un suo lavoro fondamentale, ovvero l’op. 69 n. 3.

                                                                                              L’Incipit delle due Sonate a confronto

Anche Kodály sfrutta il registro grave del violoncello, che apre la sonata con una lunga frase, primo tema ricorrente; si riconosce facilmente fin dalle prime battute un’instabilità armonica che non vuole essere solo a fini coloristici. Kodály la userà per caratterizzare e dipingere molto lucidamente lo sviluppo del materiale musicale attraverso tutta la sonata. L’idea romantica della Fantasia, dalla quale Kodály fa germogliare le prime pagine del primo movimento, resta tale fino a una prima cadenza del pianoforte, già di carattere rapsodico. Confrontando le due partiture, anche da un puro punto di vista visivo, è impossibile non notarne la somiglianza strutturale.

Ciò che si evolve in questo primo movimento è proprio il concetto di Fantasia; attraverso ritmi e accentuazioni di carattere folkloristico, alternati a momenti molto più cantabili e retrospettivi, Kodály gioca sull’idea del fantastico come elemento espressivo, vario, ricco. A un primo approccio alla partitura – soprattutto se prendiamo in considerazione la parte del pianoforte – l’intera sonata rischia di apparire come un semplice susseguirsi di caratteri e immagini slegate. Al contrario, Kodály incorpora uno stile libero, apparentemente improvvisato e spontaneo, a una struttura di facile comprensione, alleggerendola e trasformando il movimento in un brano che si ascolta con facilità, che non deborda né confonde, pur esplorando senza riserve le possibilità tecniche, espressive e di volume di entrambi gli strumenti.

La ciclicità è un elemento ricorrente in questo lavoro, non solo da un punto di vista musicale ma anche strutturale: la Fantasia si richiude su se stessa dopo un lungo climax e ritorna sui suoi passi, grazie al pianoforte che ripresenta il tema iniziale del violoncello in un perfetto gioco di ruoli: Kodály alterna equilibrio, colori, espressività e stile attraverso una logica semplice ed efficace, mai macchinosa, trasparente.

II. Allegro con spirito 

L’elemento folk diventa protagonista incalzante nel secondo movimento, che fin dall’inizio si rincorre tra violoncello e pianoforte. L’allegro con spirito è una danza, un racconto popolare, con i suoi caratteri che s’inseguono, s’interrompono in una narrazione rapida ma non frettolosa e molto varia. Ancora una volta Kodály riesce a giocare efficacemente con la forma: lo sviluppo è caratterizzato dall’accenno di elementi che ricordano la fuga, che si scontra all’unisono improvviso dei due strumenti, pieno d’ironia e burla. Una scelta particolare che arricchisce e si contestualizza perfettamente all’interno del movimento, che riserva all’ascoltatore una finale sorpresa.

Se il primo movimento si conclude quasi annullando se stesso, l’allegro con spirito si annienta senza preparazioni, in un silenzio improvviso dal quale riemerge il pianoforte: il senso di ritorno, di rifugio, contraddistingue questa sonata proprio per il suo senso di identità e famigliarità. Il pianoforte trasforma infatti in pochissime battute il gioco, la giovialità di tutto il secondo movimento in un ultimo momento d’introspezione, ripresentando il primo tema con il quale Kodály apre l’intero lavoro.

La spensieratezza e la stabilità del gioco sono messe in discussione dal cambio repentino di tonalità, la variazione ritmica e l’acquisizione di colori più scuri del pianoforte. Il violoncello ricorda l’ormai lontana Fantasia, in una prospettiva ben più profonda, che l’ascoltatore comprende e riesce a giustificare facilmente, proprio per la sua posizione all’interno della sonata, e come logica evoluzione dell’intero lavoro.

 

Quest’insolito nuovo linguaggio tonale fu classificato come “patologico” dai critici conservatori; Kodály lo identifica invece come mezzo malleabile e sensibile a continue evoluzioni e ripensamenti. L’idea musicale prende sembianze umane, è influenzata dal tempo, da emozioni e sensazioni, è sensibile al gioco come al silenzio, alla retrospezione più intima come al canto popolare.

Nelle ultime battute entrambi gli strumenti si riappropriano definitivamente dell’identità musicale del primo movimento, trasformandola in un commiato più sereno. Un giovane Kodály presenta questa sonata nel 1910, neanche trentenne, e introduce un discorso musicale innovativo, un primo accenno poi esplorato anche da Debussy e da Hindemith nei loro lavori per violoncello (rispettivamente la Sonata in re minore per violoncello e pianoforte composta nel 1915 e la Sonata op. 25 n.3 per violoncello solo composta nel 1922): questa sonata rappresenta non solo la nascita della musica moderna di stampo nazionale, ma anche il primo approccio alla fusione e al discernimento delle strutture romantiche a elementi nuovi, giovani e quindi inesplorati del folklore e del linguaggio tonale.

La Sonatina, o il mancato movimento

Kodály concluse e firmò l’op. 4 nel 1910 con due movimenti – una caratteristica comune a molti lavori di altri compositori dello stesso periodo – nonostante il tentativo mancato di un terzo (o primo) movimento. Solo quando fu prossimo alla pubblicazione nel 1922 Kodály decise di riapprocciare il suo lavoro e provare a comporre il mancato movimento. Ancora una volta rimase poco soddisfatto del risultato, in quanto a distanza di più dieci anni il suo idioma si era evoluto notevolmente e ormai distanziato da una certezza freschezza degli altri due movimenti. Pubblicato solo nel 1969 come brano autonomo, all’ascolto è facile riconoscerne le differenze espressive e la scelta di pubblicare questo lavoro singolarmente è da considerarsi saggia.

 

È però un brano altrettanto interessante e affascinante: il titolo Sonatina si rifà anche in questo caso alla struttura derivata dall’idea della forma-sonata, priva però di un vero e proprio sviluppo e con una ripresa molto ricca, che trasfigura il materiale dell’esposizione. Il discorso musicale è molto fluido; violoncello e pianoforte sembrano condurre due idee diverse nella parte principale, quasi in una forma improvvisata e autonoma. Il pianoforte, quando non è dichiaratamente tematico, propone una gamma di accompagnamenti vastissimi e molto coloriti, tecnicamente complesso e mai banale. È un breve brano che si fa ascoltare, e termina con un pizzico di ironia, elemento finale di serenità: un brano da accogliere finalmente non come scarto ma da apprezzare nella sua capricciosità e imprevedibilità.

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