FuturStage: nuove competenze per un nuovo pubblico?

La riflessione di Paola Carruba a partire dal Manifesto Futur Stage del metaLab di Harvard.

Proseguono le riflessioni sul manifesto FuturStage di cui abbiamo ospitato in queste pagine la traduzione in italiano. L’intervento di oggi è a cura di Paola Carruba, Responsabile Marketing Editoriale e Progetti Speciali Radio Rai e già Sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, con cui più volte noi di Quinte Parallele ci siamo confrontati sul tema della formazione in campo musicale e dell’insegnamento della musica a scuola.


La creazione e lo sviluppo di nuovo pubblico: quale profilo di competenza?

Finalmente! Questa è stata la mia prima reazione alla notizia della traduzione del nuovo Manifesto FuturStage, coordinato da metaLAB di Harvard, che propone una serie di interrogativi circa il futuro delle arti performative. Già questo sarebbe motivo di immensa gioia, ma ancor più entusiasmante è la prospettiva temporale a cui si fa riferimento. Si esce dalle gabbie del breve termine (sempre più brevissimo) e si cerca di proiettarsi in una visione trentennale.

D’altra parte parlare oggi della creazione di nuovo pubblico impone, inevitabilmente, di confrontarsi con il breve, il medio e il lungo termine. Porsi il problema di chi frequenterà le sale da concerto, o di chi seguirà le performance artistiche sulle varie piattaforme che si stanno imponendo con accelerazioni inimmaginabili, amplifica l’esigenza di una prospettiva più ampia nell’analisi della tematica.

Le forche caudine del breve termine

Partiamo dal breve termine e concentriamoci su quello che, al momento, sembra essere una peculiarità del solo panorama italiano, ovvero una dimensione di drammaticità circa la presenza del pubblico, che impone, gioco forza, di contemplare il breve termine nella corsa ai ripari.

La situazione è sintetizzabile, anche se per fortuna con delle isole felici, in:

  • Un pubblico sempre più anziano. Il che visto il ciclo di vita dell’essere umano implica che sia un pubblico che tende “darwinianamente” ad assottigliarsi numericamente.
  • Un Paese scientemente portato ad un solenne analfabetismo sul piano musicale. Lo si sente ripetere continuamente: si può conseguire una laurea senza avere idea di chi siano Verdi, Mozart, Debussy…
  • La “musica d’arte” ed i suoi protagonisti hanno sempre meno presenza all’interno del sistema dei media, assurgendo agli onori della cronaca spesso in versioni che lambiscono il caricaturale e che disattendono completamente qualsiasi parametro di qualità artistica.
  • Una riottosa inclinazione degli stessi studenti di conservatorio (quindi dei potenziali futuri musicisti ma anche del potenziale futuro pubblico) a non frequentare le sale da concerto.
  • Una gerontocrazia diffusa nelle varie istituzioni musicali, in cui una scarsa cultura manageriale si accompagna ad altrettanto fragili competenze musicali e a modeste attitudini creative; di qui la decadenza delle figure del Direttore Artistico e del Sovrintendente, sempre più fatte ricadere nello stesso perimetro di responsabilità. Come se due fragili competenze potessero costituirne una solida, in un improvvido ibrido
  • In particolare, la cultura gestionale sembra non contemplare temi quali la profilazione del pubblico, il marketing, l’equilibrio di conto economico e la sostenibilità complessiva della proposta artistica.

A ciò si aggiunga, come spesso accade nelle situazioni critiche, che gli atteggiamenti dei protagonisti della scena musicale si sono polarizzati tra due estremi: coloro i quali minimizzano (“ma i giovani non sono interessati alla musica”) e coloro i quali vorrebbero risolvere una situazione problematica attingendo agli stessi processi, metodologie e strumenti che l’hanno generata.

Se ci concentriamo sul breve termine, e parliamo di arti performative in generale, dobbiamo necessariamente fare dei distinguo: una cosa è la situazione della danza, una la situazione del teatro di prosa, una la situazione della musica “altra”, una la situazione della musica lirica, sinfonica e cameristica.

Il mio contributo, essendo una vera e propria “religiosa” delle competenze, può incentrarsi solo su quest’ultimo ambito. Non vi è dubbio, infatti, che nell’evoluzione delle figure professionali che animeranno le performing arts, e qui senza distinzioni, sarà decisiva nei diversi protagonisti la presenza di competenze di elevato livello e di matrice specialistica. Pertanto riesco ad immaginare di poter dare un contributo soltanto nel contesto che conosco meglio e nel quale posso beneficiare di un’esperienza gestionale diretta.

 

Chi può affrontare questa situazione e con quali competenze

Proviamo a mettere a fuoco il profilo di competenza (conoscenze più capacità) che deve avere il responsabile education, vero e proprio new audience developer, per poter lavorare sulla creazione e sviluppo di nuovo pubblico deve:

  • Possedere solide competenze specialistiche interdisciplinari in materie economiche, pedagogiche e musicologiche in ambito lirico, sinfonico e cameristico.
  • Avere capacità creative per innovare i contenuti ed i linguaggi dei progetti di fascinazione che l’idea di formazione di nuovo pubblico porta con sé.
  • Avere la capacità di non fissare la sua attenzione solo sull’afflato creativo, che lasciamo libero di animare la vita di compositori ed artisti, ma di costituirsi come quella cerniera che, riuscendo a far dialogare contenuti creativi e contenuti gestionali, funzionalizzi i progetti al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo.
  • Possedere una creatività che sappia dialogare con le esigenze di gestione, ma anche e soprattutto preservare qualità ed innovazione senza “cedimenti” verso deteriori visioni “popolari”.
  • Conoscere in modo puntuale il mercato/contesto di riferimento nel quale le iniziative devono realizzarsi. Non esiste la possibilità di trasferire tout court progetti educational da un luogo all’altro senza una rigorosa rilettura alla luce degli obiettivi specifici che si vogliono raggiungere e rispetto ai target specifici di popolazione che si intende coinvolgere.
  • Essere in grado di tradurre le rigogliose presenze nelle stagioni education dedicate ai bambini in numeri di biglietti venduti nelle stagioni principali. Oggi è questa la fase critica del processo. Le iniziative education sono gestite negli “interstizi” della programmazione principale, per riempire l’ennesima casellina della domanda FUS, quasi come un sottoprodotto a basso costo, e questo, inevitabilmente, interrompe la catena del valore. Un mero atto di presenza senza alcuna visione prospettica.
  • Conoscere codici di comunicazione, stili di apprendimento e di coinvolgimento emotivo di tutte le fasce di popolazione che devono essere coinvolte nei vari progetti di avvicinamento: dalle più giovani alle più mature.
  • Presidiare con rigore assoluto la qualità dei progetti e del materiale musicale nei progetti di sviluppo, non cedendo in nessun modo il passo a tentazioni di scorciatoie comunicative e/o di semplificazioni riduzioniste.

Nei beni culturali si distingue tra conservazione e valorizzazione. Bene, il nostro “esperto di sviluppo nuovo pubblico” deve essere al contempo un valorizzatore di contenuti musicali, ma anche un ferreo presidio di conservazione della sua qualità.

 

Uno sguardo all’orizzonte: il medio-lungo termine

Provando, poi, a ragionare a medio-lungo termine, dobbiamo prendere in considerazioni altre variabili, cercando di anticipare/prevedere quale sarà l’evoluzione nell’utilizzo delle nuove tecnologie e quale l’impatto che queste avranno sulla creazione e sulla fruizione artistica.

Gli esperti di neuroscienze ci raccontano che il nostro cervello si evolve plasticamente ed in maniera diversa rispetto al passato per effetto delle nuove tecnologie. Se il pubblico si avvicina ad un contenuto artistico emotivamente e cognitivamente in un modo significativamente discontinuo rispetto al passato, sarà importante conoscere ed approfondire questo cambiamento. In definitiva si potrebbe sintetizzare che ci troviamo davanti a segnali di un cambiamento di epoca. Pertanto, dobbiamo contemplare queste differenze di grammatica e di sintassi nella definizione di progetti educazionali. Ma come? Considerando quelli tecnologici come strumenti che non condizioneranno il contenuto. Attraverso quali processi creativi ed organizzativi si potrà raggiungere questo obiettivo?

In generale, ed è un grande pericolo, in questi processi di cambiamento si tende a confondere il mezzo con il fine, lo strumento di trasmissione con il contenuto della stessa trasmissione. Questo approccio confusivo, se non governato, può essere molto ostacolante rispetto agli obiettivi di creazione di nuovo pubblico nel medio lungo termine. Il rischio è di non raggiungere il risultato quantitativo relativo al nuovo pubblico o di raggiungerlo abdicando completamente al valore qualitativo della musica d’arte che si vuole divulgare. Dalla padella alla brace, insomma!

Per non parlare della cultura gestionale imperante, che con la modalità diffusa di chi procede “ad orecchio” tenta di risolvere le difficoltà riducendo tutto ad un dimensionamento in ribasso dei costi di produzione. Tema affascinante quanto inutile se non accompagnato da un’altrettanta attenzione all’incremento delle entrate, non certo quelle pubbliche. Attrarre investitori impone ai vari operatori musicali di acquisire significato nella vita delle persone e non certo come atto di fede di matrice elitaria.

Ricerca e sviluppo

Credo che l’unica via in un sistema in così radicale, e spietatamente veloce, cambiamento sia la possibilità di sperimentare. Di contaminare attingendo a competenze diverse, che sollecitino processi creativi in evoluzione e processi organizzativi e di gestione altrettanto innovativi.

La via della sperimentazione è, come è noto, costellata di inciampi, fallimenti, intuizioni ed è uno straordinario motore di cambiamento. Impone un approccio caratterizzato da una grande apertura mentale non vincolata da barriere ideologiche. Richiede di attingere senza snobismi a competenze in apparenza molto lontane da quelle impiegate tradizionalmente. Richiede capacità di ascolto del contesto sociale, non meno che individuale, in cui si sviluppa una nuova visione. Richiede umiltà e capacità di tollerare la frustrazione. Ma richiede soprattutto ai singoli “sviluppatori di nuovo pubblico” un’attenzione ossessiva alla qualità del contenuto che propongono ed al suo valore.

Ed allora un primo dibattito che mi sento di proporre è proprio una riflessione su cosa definisce la qualità di un prodotto artistico orientato alla creazione di nuovo pubblico nel medio-lungo periodo.

Pronta e grata di ascoltare i contributi che verranno.

Paola Carruba


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