L’impressionismo materico di Kaija Saariaho

Leone d’oro alla Biennale Musica di Venezia 2021, Kaija Saariaho è tra le personalità più importanti della musica contemporanea. Qui ve ne parliamo un po'.

Korvat auki, “orecchie aperte”, è il nome di una società fondata nel 1977 da un gruppo di compositori finlandesi. Il loro intento era quello di diffondere la produzione dei compositori emergenti locali, spesso trascurata dalle grandi istituzioni, tramite l’organizzazione di concerti e seminari. Poiché i desideri più accesi, nonché le preoccupazioni più incalzanti di un musicista riguardano il suono, l’esortazione a tenere le orecchie aperte sembra rispondere a un’esigenza primaria, prioritaria. In alcuni casi, tuttavia, risulta particolarmente difficile relegare l’esperienza di ascolto a un fenomeno esclusivamente acustico.
Questa l’impressione che suscita la musica di uno dei membri fondatori della società. Si tratta della compositrice Kaija Saariaho, autrice di oltre centoventi composizioni che comprendono musica sinfonica e da camera, concerti per solisti e orchestra, brani per coro a cappella e coro e orchestra, quattro opere, un balletto. Anche l’elettronica e il nastro magnetico giocano un ruolo fondamentale nella produzione della compositrice finlandese, soprattutto quella successiva agli anni ’80, periodo in cui frequentò l’IRCAM di Parigi, dove ebbe modo di sperimentare la musique concrète e di cimentarsi con le tecniche compositive coadiuvate da supporto informatico. Giunta nella capitale francese, eletta a suo domicilio da quel momento fino ad oggi, Kaija Saariaho aveva già approfondito lo spettralismo francese di Grisey e Murail, che si rivelò importante nella sua evoluzione stilistica.

La musica di Kaija Saariaho è stata premiata ed eseguita in tutto il mondo, tanto da diventare parte del repertorio delle grandi orchestre sinfoniche. Ha ricevuto commissioni, tra gli altri, dalla New York Philharmonic, dalla BBC, dal teatro dell’Opera nazionale della Finlandia, dal festival musicale di Salisburgo, dal Lincoln Center di New York per il quartetto Kronos, dall’IRCAM per l’Ensemble Intercontemporain.
La premiazione più recente risale al 17 settembre scorso, giornata in cui la compositrice ha ricevuto dalla Biennale di Venezia un Leone d’oro alla carriera. Nell’ambito di questa edizione del Festival, denominata Choruses e dedicata alla voce, alla Saariaho è stata riconosciuta l’originalità del trattamento vocale nelle sue partiture corali.

Ciò che colpisce della scrittura della Saariaho, tanto quella vocale quanto quella esclusivamente strumentale, è la capacità di trasformare il suono in materia. Le masse sonore vengono forgiate da mutamenti dinamici e di densità sempre progressivi e plasmate da una minuziosa ricerca timbrica, che si manifesta in un largo impiego di tecniche estese. È in questo modo che i suoni della Saariaho prendono forma, aggregandosi o disperdendosi, solidificandosi o liquefacendosi come materia. In alcuni brani, l’interesse materico di Kaija Saariaho emerge molto chiaramente. Nel balletto, del 1991, Maa (“terra”, in finlandese), per esempio, il primo movimento è una registrazione a nastro, modificata, di passi umani che poggiano su materie differenti: cemento, ghiaia, legno, neve, sabbia, per poi disperdersi nell’acqua.

In Oltramar, del 1999, per coro e orchestra, lavoro esemplare della versatilità della scrittura vocale della Saariaho, le entrate successive di ciascuna voce, dal grave all’acuto, nonché i sussurri del coro, sembrano restituirci l’immagine delle onde.

 

Entrambi gli esempi citati non possono che ricordarci Debussy, con i suoi Des pas sur la neige e il suo La mer. Non è dunque un caso che Kaija Saariaho sia stata accostata al compositore francese nel programma della prima serata a lei dedicata in questa edizione della Biennale di Venezia. L’esecuzione di Notes on Light, Concerto per violoncello e orchestra della compositrice (con la straordinaria interpretazione del violoncello di Ansi Karttunen e la direzione di Ernest Martinez-Izquierdo), è infatti stata preceduta da un’orchestrazione, di Hans Abrahamsen, delle Children’s Corner di Debussy.

Le Immagini di Debussy sono evocate, più che descritte; sono paesaggi immaginati, tanto dall’autore quanto dall’ascoltatore, più che impressioni istantanee. Nonostante ciò, si è sempre parlato di impressionismo per delineare la musica del compositore francese. Anche quello della Saariaho, in un certo senso, è impressionismo: si tratta, però, di un impressionismo materico, che coglie gli elementi nel loro nucleo più originario e li vede combinarsi e trasformarsi chimicamente. I cambiamenti di stato della materia si traducono nella musica della Saariaho nella transizione, senza soluzione di continuità, da una tecnica esecutiva all’altra. Negli archi vi sono spesso passaggi che prevedono uno spostamento dall’effetto vitreo del ponticello al tasto; il suono dei legni muta, gradualmente, in soffio. L’indicazione più frequente sulle partiture della Saariaho, accompagnata da una freccia, è “change gradually from one way of playing to the other”.

Microtonalità e glissandi contribuiscono a mostrare la musica della Saariaho nella sua natura cangiante, metamorfica. Emblematico, in questo senso, è il momento in cui nell’opera Only the sound remains, del 2015, eseguita anch’essa in questa edizione della Biennale di Venezia (con il controtenore Michał Sławecki e il baritono Bryan Murray come solisti, la partecipazione del coro Theater of Voices, la danza di Kaiji Moriyama e la scenografia di Aleksi Barrière) si intona “le fiamme si trasformano in pioggia fitta”.  La ricchezza timbrica che permette questa metamorfosi sonora-materica non è soltanto frutto di un sapiente uso di tutte le possibilità di ciascuno strumento, segnate dettagliatamente in partitura (le indicazioni che riguardano il ponticello negli strumenti ad arco, per esempio, sono numerosissime: sul ponticello, esattamente sul ponticello, dietro al ponticello), ma anche, spesso, della scelta di organici piuttosto variegati. Per Only the sound remains, infatti, la Saariaho si è servita di un’ampia sezione di percussioni, intonate e non intonate (tam-tam, woodblock, grancassa, piatti sospesi, crotali, marimba, vibrafono, chimes, gong cinese, per citarne alcune), oltre a inserire diversi tipi di kantele, cordofono tipico della sua terra natia.

Talvolta, il suono della Saariaho diventa non solo materia tangibile, ma anche luce. La luce, incorporea e inafferrabile, si dispiega nel trattamento sapiente degli armonici. Questi ultimi, che grazie alle tecniche spettraliste possono diventare il punto di partenza per l’intera costruzione armonica del brano, vengono spesso usati anche nell’esecuzione dei trilli (un’altra indicazione tipica per gli strumenti ad arco nelle partiture della Saariaho è quella del trillo che alterna i suoni reali agli armonici tramite un mutamento di pressione delle dita).

La poetica del suono materico e luminoso della Saariaho viene dichiarata, piuttosto esplicitamente, in molti dei suoi titoli: Light and matter (2014) per pianoforte, violino e violoncello, Changing light (2005) per soprano e flauto, Terra memoria (2006) per quartetto o orchestra d’archi, …de la Terre (1991) per violino ed elettronica, oltre al concerto Notes on Light (2006) di recente esecuzione. L’orizzonte della compositrice, però, è ben più vasto di quello terrestre: materia e luce di certo non appartengono soltanto al nostro pianeta, ma compongono l’universo stesso, nel quale la Saariaho naviga per restituircene immagini e frammenti (ricordiamo, a tal proposito, i brani Asteroid 4179: Toutatis, del 2005, per orchestra, Solar, del 1993, Ciel étoilé, del 1999, per contrabbasso e percussioni, oltre al celebre Orion, del 2002, per orchestra).

Poco importa che i mondi tracciati dalla Saariaho siano a noi vicini o lontani (non a caso, infatti, una delle quattro opere da lei composte è dedicata all’Amour de loin, l’amore da lontano). Ciò che conta è la possibilità di assistere, ascoltando, alla materia che prende forma. Se prestiamo attenzione al monito korvat auki, quindi, se tendiamo le orecchie verso la musica della compositrice, ci troviamo in realtà di fronte a fenomeni del tutto visibili e tangibili.

Molti dei testi scelti dalla Saariaho per le sue composizioni sembrano confermare questa possibilità di percezione sinestetica. Nella seconda parte di Only the sound remains, ispirata al dramma del teatro Noh Hagoromo nella riscrittura di Ezra Pound, è coinvolto anche l’olfatto (“nell’avvicinarmi per respirare il suo colore, mi rendo conto del suo mistero”); mentre l’ultima pagina della partitura di Notes on Light contiene una citazione da La terra desolata di Thomas Eliot, che si conclude con la frase “guardando al centro del silenzio, la luce”.

D’altronde, l’analisi degli spettrogrammi, cara alla compositrice seppure utilizzata e rielaborata in modo del tutto personale e libero, implica essa stessa una consapevole continuità tra sonoro e visibile. Sarà per questo motivo che nel primo atto di Only the sound remains, quando il fantasma di Tsunemasa si manifesta come una voce di cui “rimane solo un fievole suono”, il monaco Gyokei, basso- baritono, esclama: “eppure io ho visto la forma!”.

“Se la vedi”, risponde il controtenore fantasma, “vuol dire che c’è”.

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