Violoncello In-Audito: il Concerto op. 66 di Mjaskovskij

Scrivere musica al tempo dell'antiformalismo

«Ogni uomo dovrebbe poter pensare senza timore in piena autonomia ed esprimere la propria opinione su ciò che conosce, su ciò che ha personalmente meditato e vissuto, non limitandosi a manifestare in modo leggermente diverso l’opinione che gli è stata inculcata.»
Mstislav Rostropovich

Il Concerto op. 66 Nikolaj Mjaskovskij si colloca in un periodo molto burrascoso e di grandi cambiamenti nel panorama musicale russo: composto tra il 1944-1945 – anni tra i più bui della Seconda Guerra Mondiale – è dedicato a Sviatoslav Knushevitsky che lo eseguirà per la prima volta a Mosca il 17 marzo 1945, appena due mesi prima dell’entrata dell’Unione Sovietica nel secondo conflitto mondiale.

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Sviatoslav Knushevitsky

 

Le tensioni politiche di questi anni travolgono i grandi compositori e interpreti già nel 1948, anno in cui Stalin introduce il decreto che segna l’inizio della cosiddetta “campagna anti-formalismo”: una vera e propria forma di censura nei confronti dell’espressione artistica considerata dal regime priva di valore politico o sociale. Tra i compositori censurati troviamo Šostakovič, l’amico Prokof’ev e lo stesso Mjaskovskij, che vede vietate al pubblico tutte le sue Sonate per pianoforte. Rostropovich ricorda questo momento con orrore: «La prima grave battuta d’arresto nella mia vita avvenne nel 1948, quando Stalin emise il suo decreto sul “formalismo”. C’era una bacheca nel Conservatorio di Mosca. Affissero un decreto che stabiliva che le composizioni di Šostakovič e Prokof’ev non dovevano più essere suonate.».
Insieme al primo dei due Concerti per violoncello di Kabalevsky, scritto nel 1948, l’op. 66 è uno dei pochi brani di repertorio che sopravvivono alla riforma e vengono portati sul palco, a differenza per esempio del Concerto di Weinberg che riemergerà solo nel 1957, quattro anni dopo la morte di Stalin.
In questo periodo Mjaskovskij si dedica anche alla rielaborazione di lavori passati, come il Quartetto per archi op. 67 n. 1 e le Sonate n. 5 e 6 per pianoforte; si tratta della revisione di brani composti quasi quarant’anni prima.

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Mjaskovskij luogo d’incontro e ispirazione: in questa foto, Rostropovich e Prokof’ev lavorano insieme sulla Sonata in do maggiore composta nel 1949, nel pieno delle restrizioni del decreto Zhdanov. Lo stesso anno, i due musicisti eseguono insieme proprio la Seconda Sonata di Mjaskovskij. Proprio in questa circostanza Prokof’ev decide di scrivere e dedicare la sua Sonata op. 119 al grande violoncellista.

 

I. Lento ma non troppo

Composto da due movimenti, il Concerto op. 66 racchiude in venticinque minuti l’essenza della musica russa. Il Lento iniziale si apre con un funebre, nobile solo degli archi poi esteso dal secondo fagotto, infine ripreso da violoncelli e bassi. Questo primo tema, spesso paragonato al cupo finale della Sesta Sinfonia di Čajkovskij, suona familiare: in una versione della Sinfonia op. 23 n. 6, composta nel 1923, nella coda del primo movimento è possibile ascoltare una sezione molto affine all’apertura del Concerto, proposta dal primo violino e poi ripresa dall’intera sezione. Il passaggio è un ottimo esempio dello stile di Mjaskovskji, che anche nell’orchestrazione si muove spesso attraverso equilibri sonori e timbrici poco pratici per gli interpreti. Lo stesso Kondrashin, in una corrispondenza tratta dalle memorie della moglie, riporta una certa difficoltà a maneggiare le sue opere:

«I suoi spartiti non si commentano da soli, bisogna togliere qualcosa, […] perché a volte è impossibile mostrare l’essenziale bilanciando il suono. Ma non lo si può accusare di scarsa professionalità […] Non c’era il senso dell’orchestra, e non pensava con timbri orchestrali. Per quanto mi riguarda, sono ancora un fan delle sue migliori opere, e, naturalmente, la sua personalità, il suo fascino, la comunicazione con lui non possono che lasciare un segno».

Kirill Kondrashin, Academic Symphony Orchestra of Moscow State Philharmonic
State Academic Russian Choir
Great Hall, Moscow Conservatoire, 12 maggio 1978

A differenza dell’esempio appena citato o di altre pagine dello stesso periodo, Mjaskovskji modella l’orchestra nell’op. 66 intorno allo strumento solista accompagnandolo e sostenendolo senza mai sovrastarlo. Il lirismo del violoncello è l’aspetto più caratteristico soprattutto nel primo movimento: l’estensione dello strumento e la sua potenziale cantabilità in registri molto lontani tra loro sono valorizzati proprio da una presenza costante, non di contorno, di un tappeto sonoro che fa respirare la voce del violoncello. L’Andante centrale del primo movimento ne è un ottimo esempio: il tema iniziale cupo si trasforma in un forte ma dolce molto più cantato. Ben presto la linea del violoncello si trasforma in una concitata cadenza che riporta presto a un Tempo I carico di malinconia. Mjaskovskij abbandona l’agitazione e l’incertezza tonale della sezione centrale solo nelle ultimissime battute, che si spengono proprio sui due accordi finali dell’orchestra: qui si chiude il movimento in un’atmosfera di pace inattesa.

Mstislav Rostropovich
Moscow Philharmonic Orchestra Kirill Kondrashin
Registrazione dal vivo, Mosca, 27 dicembre 1972

 

II. Allegro vivace

Collegato dall’Attacca del primo movimento, l’Allegro vivace si presenta da subito carico di un sentimento più popolare: il dialogo tra violoncello e orchestra si fa più fitto. I contrasti tra i pizzicati dei bassi e la vivacità di violini e flauti danno il carattere folk a tutto il movimento, sul quale il violoncello presenta il primo tema che si muove tra il carattere più cantabile e quello danzante, quasi canzonatorio. Una rapida transizione conduce alla sezione più cantabile del movimento, divisa da un breve ritorno del tema principale. Il Meno mosso molto lontano dal tema iniziale, come tonalità e carattere, è una parentesi molto malinconica che richiama vagamente il tema principale del primo movimento, pur mantenendo una sua idea indipendente. La seconda metà della sezione è invece un Andante espressivo e semplice, con forti richiami popolari e quindi più vicino all’idea generale del movimento; la cadenza finale si sviluppa in tre minuti di ampio virtuosismo, ultimo istante di compressa razionalità prima di sfociare in ultimo ritorno del tema fondamentale del primo movimento, o forse ritornello di un poema che non vuole concludersi. Qui l’aspetto titanico e forse imprevedibile all’inizio dell’ascolto: il tono meditativo e introspettivo che prevale sull’esigenza virtuosistica, il ritorno dello stesso materiale e la continuità dei due movimenti fanno pensare molto più a un poema che a un concerto per strumento solista. In un periodo storico durante il quale Zhdanov accusa di “formalismo” tutto ciò che può essere elitario, impopolare perché di difficile comprensione da parte del popolo, Mjaskovskij con questo Concerto usa un linguaggio denso ma di facile ascolto, non rigorosamente contrappuntistico ma anzi fluido e molto libero. L’op. 66 svanisce in un soffio come ha iniziato, anche se molto più serenamente. Decisamente antiformalista.

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