Testimoni del presente: Tre Quadri di Francesco Filidei

Memoria e innovazione in un nuovo concerto per pianoforte e orchestra

Autore: Redazione

9 Dicembre 2020

«Il legame umano è da sempre una componente essenziale; lo diventa ancor più quando si tratta di progetti ambiziosi come Tre Quadri. Non è un lavoro occasionale, di protocollo, pensato per aprire uno dei tanti canonici programmi: sono trentaquattro minuti di livello altissimo, con una parte pianistica paragonabile a un Primo di Bartók, o a un Secondo di Prokof’ev. Un percorso di tempo molto ampio compattato in una solida architettura, e ispirato da una profonda visione etica». (Maurizio Baglini)

Francesco Filidei (5 maggio 1973), considerato tra i più significativi compositori italiani del nostro tempo, toscano di origine ma parigino di adozione, ritorna in patria con una commissione firmata Milano Musica, Casa da Música di Porto e Festival Warsaw Autumn. Al pianoforte Maurizio Baglini, accompagnato dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI diretta da Tito Ceccherini. Il concerto, a causa della chiusura al pubblico dei teatri italiani, è stato trasmesso il 12, in diretta radiofonica su Radio3 e in live streaming su Rai Cultura; in seguito in differita il 22 novembre su Rai5, in “casa”, all’Auditorium “Toscanini” di Torino.

«Trascorsi alcuni giorni dalla prima di Tre Quadri le idee cominciano a decantare, lasciando spazio a riflessioni più consapevoli. La qualità nel lavoro artistico che cerchiamo è troppo di frequente incompatibile con l’accelerazione che il tempo odierno ha imposto al consumo della musica. Il lavoro che ho condotto con Francesco e Maurizio, nelle ottime condizioni poste dalla committenza di Milano Musica, somiglia terribilmente a quello che noi musicisti vorremmo sempre poter fare». (Tito Ceccherini)

Un evento senz’altro significativo, connotato dalle estreme difficoltà dell’attuale momento storico. Dicono i protagonisti con i quali abbiamo parlato, che fino a poco prima del concerto non si sapeva nemmeno se fosse possibile anche il concerto in diretta streaming, e pertanto adrenalina e tensione erano all’apice. Un evento che si distingue per la lungimiranza dei committenti – in questo caso Cecilia Balestra che ha meditato a lungo su come improntare il progetto – e la qualità altissima di tutte le componenti in causa, che in occasione di questo concerto hanno operato in sinergia e con rara comunione di intenti, in virtù anche della profonda amicizia e stima reciproca tra gli artisti.

Le parole degli interpreti in tal senso, testimoniano: «Questa interazione tra me, Maurizio e Francesco prometteva fin da subito di essere virtuosa. L’auspicio, adesso, è che la discussione, il confronto e le riflessioni che il concerto ha suscitato (sperando in molteplici repliche), generi la consapevolezza che la musica contemporanea si debba vivere, e che si capisca finalmente quanto impegno, quanto sostegno economico, umano e intellettuale siano necessari affinché eventi di tale portata possano verificarsi». dice Ceccherini.

Aggiunge Maurizio Baglini: «Eseguire il Concerto in una fase storica come quella che stiamo attraversando, rappresenta per me forte messaggio etico che dovremo (non dovremmo) essere in grado di portare avanti per sottolineare ogni volta l’importanza sociale del nostro mestiere».

 

Un confronto col passato

 

Tre Quadri è un concerto per pianoforte, fatto da rimarcare in quanto ad oggi la tradizionale forma di concerto in tre movimenti non ha precedenti italiani, se non sporadici casi tra il XIX e il XX secolo. Si potrebbe poi citare, per avvicinarci a tempi più recenti, Un’immagine di Arpocrate di Salvatore Sciarrino (compositore con il quale Filidei ha studiato), scritto per commemorare l’improvvisa scomparsa dello straordinario pianista italiano Dino Ciani.

Dunque, la scansione del concerto di Filidei è immediatamente riconducibile, a partire dallo stesso titolo, alla forma tradizionale in tre tempi del concerto classico-romantico, e questo segna un ulteriore passo per il compositore verso l’evocazione della forma come memoria storica, già attuato in particolare con le due opere Giordano Bruno (2015) e lInondation (2019), o il recente Requiem (2020).

In Tre Quadri, strutturato in tre movimenti (November, Berceuse e Quasi una bagatella) il confronto diretto con la tradizione e la storia, ha poi un riscontro nel canonico rapporto solo-tutti, nella dialettica tra pianoforte e orchestra quali organismi indipendenti in dialogo o in contrasto, e al contempo unico magma sonoro. Il pianoforte, come l’orchestra, è trattato come un vero e proprio personaggio con un preciso carattere psicologico che si sviluppa nell’evolversi narrativo del discorso. In fondo, anche i più recenti concerti per solista e orchestra sulla scena contemporanea (si vedano tra gli altri Abrahamsen, Nørgard, Adés, Adams, Lindberg, Saariaho o Sørensen) cercano dichiaratamente di reinterpretare gli aspetti fondanti della forma tradizionale del concerto; in questo Filidei si allinea a una necessità del nostro tempo.

La prima volta che il compositore impiega il termine ‘quadro’, risale al 2001, col quintetto Il quadro è la cornice. Da non fraintendere, nel Concerto, l’epiteto “quadro” come un’idea evocativo-descrittiva: sono quadri scenici, indipendenti ma consequenziali, connessi tra loro da un preciso sviluppo architettonico e drammaturgico. Ogni movimento quindi, è un affresco a se stante, con delle specifiche caratterizzazioni e, al tempo stesso, il conseguente naturale del precedente. 

«L’idea di fondo – dice Filidei – ha una forte influenza operistica, in particolare penso al Trittico pucciniano nel susseguirsi di tre universi tra loro in contrasto ma ben saldati da un unico gesto. Così Tre Quadri, come in Tabarro, ha un primo tempo ricco di stati emotivi alterni; un movimento centrale più intimo, idealmente vicino a Suor Angelica, e un tempo conclusivo burlesco, quasi circense, come alcune delle atmosfere nel Gianni Schicchi».

Dal punto di vista armonico ci sono precise relazioni gravitazionali attorno a delle note cardine che fungono da “toniche-pedalizzanti” (il Si bemolle, polo di attrazione con cui si apre il Concerto che poi diviene, nel corso del primo movimento, “tonica” di Fa, La, Do, Mi bemolle); riferimento questo, per il nostro orecchio di ascoltatori occidentali, che definisce ulteriormente una memoria storica della nostra odierna cultura musicale. 

 

November: ‘melos’ e danse macabre

Fin dalle prime battute di November, il solista è chiamato a mettere in evidenza le proprie abilità virtuosistiche, con figurazioni rapidissime cromatiche discendenti che spaziano tra gli acuti e i gravi della tastiera: «Un sistema binario di contrasto, che potrebbe ricondurci alla Ballata n.3, molto vicina a questo pezzo».
Attorno al pianoforte si dispiega, impalpabile, un tessuto orchestrale di timbri rarefatti e caleidoscopici, di armonici, di soffi, di tocchi palpitanti delle percussioni – concezione molto individuale di suono, ormai ben consacrata da Filidei nel proprio linguaggio compositivo.

È un grado zero, una genesi del “pitch” dal suono non determinato.
Con pesanti strappate accordali si manifesta l’intera compagine; i bruschi interventi verticali, i violenti squarci, nel corso dello sviluppo diventano sempre più predominanti e ravvicinati. Risultato: la dilatazione dello spazio iniziale tende progressivamente a comprimersi. Ciò garantisce a tutto il primo movimento un incedere ineluttabile: da un senso di apparente frammentismo verso un vero e proprio circolo infernale (compaiono a macchie ritmi di una danse macabre, figurazioni saltellanti di legni e archi, punteggiate dal triangolo…).
Per qualche curiosa ragione sembra che il contenuto del quadro sia inafferrabile. E più si cerca di lacerarne la tela, di fissarne le forme, più esso ci sfugge beffardo. 

Poi, inaspettatamente, si staglia sullo sfondo un’avvolgente linea melodica affidata al timbro caldo dei corni, e articolata sugli armonici di Mi. Un’apparizione che Filidei si porta dietro da quasi venticinque anni, e che ritorna più volte nella sua musica.

«Ho usato questo tema per la prima volta nel 1996 in Little Nutcracker per organo, che come in Danza Macabra (sempre dello stesso anno e anch’esso per organo, ndr.) è costruito su un glissando delle tastiere; in Tre quadri ho cercato di tradurre la sonorità con l’impiego di armonici negli archi». Non si può parlare di tema in senso canonico – nonostante la melodia si ripresenti più volte nel corso di November; forse di melos, inteso come canto nell’accezione dallapiccoliana del termine. Confrontandoci col compositore tra l’altro è emerso che la messinscena del Job di Dallapiccola a Firenze negli anni ‘90, ebbe per lui un notevole impatto. 

In conclusione del movimento, l’ingresso persistente della frusta fa pensare al legame di Filidei col suono del legno: «Come non c’è reale separazione tra vita e morte, altrettanto suono e rumore sono morfologicamente uniti. In questo caso il segno della morte è rappresentato da un gesto musicale chiave, spesso ricorrente nella mia musica: il battito della mano sul legno. Un suono che mi è rimasto impresso da piccolo quando mia nonna batteva ripetutamente il pugno sulla bara dove giaceva mio nonno, come cercasse disperatamente, fuori di sé, di ridargli vita attraverso il legno inanimato». (Testimoni del presente, F. Filidei a dialogo con M. Sarti e V. Sebastiani, per approfondire clicca qui)

Se il comporre può intendersi come un laboratorio intimo in cui in ogni lavoro si tenta di maturare (per dirla come Shostakovich) i “difetti” del precedente, o di esplorare un oggetto mediante nuove prospettive, Filidei adopera simboli ben definiti nel suo immaginario, che si ripresentano più o meno evidenti. È il caso della suggestiva campana tubolare che chiude November intonando un Fa naturale, esattamente lo stesso suono e lo stesso timbro con cui si conclude il Giordano Bruno (e con cui, per giunta, inizia Suor Angelica…).

 

Berceuse: figura e paesaggio

Vogliamo insistere, in questo senso, su quegli elementi che Filidei inserisce nella struttura del Concerto per garantire organicità: il Fa della campana che aveva chiuso il primo movimento, ritorna in apertura del secondo (Berceuse), scandito dal pianoforte tra una serie di arpeggi per salto (quasi una reminiscenza della contrapposizione acuto-grave di November). L’impianto armonico suggerisce un’area tonale di Fa maggiore che però viene immediatamente trasformata in un uso quasi seriale della struttura, che si dispiega toccando tutte e dodici le scale maggiori.
Tutto il tempo centrale del Concerto è ricostruito a partire dalla Berceuse del 2018 per pianoforte solo.

L’esplorazione dei contrasti timbrici (tra i gravi del pianoforte e i sovracuti della fisarmonica) contribuisce a creare una fissità, un immobilismo atmosferico, che si contrappone esplicitamente al dinamismo ossessivo del primo movimento. Il cullante 7/8 in realtà non va a scandire, a definire, una precisa pulsazione ritmica, anzi Filidei sembra proprio divertirsi nel cesellare continue rifrazioni timbriche, tra le quali, solo una traccia delle suggestioni chopiniane (le prime 14 battute iniziali sono trattate come fossero variazioni dello stesso materiale, similmente a quanto avviene nella Berceuse di Chopin). 

Sempre vivida per il compositore è la volontà di attingere agli strumenti offerti dalla tradizione, per metterli opportunamente in discussione senza crogiolarsi in una dialettica negativa di stampo avanguardista.

Si percepisce con grande energia la visione d’intenti di Filidei: una combinazione sapiente di memoria, tradizione e sguardo al futuro, in cui a non venir meno è soprattutto la comunicabilità, da non intendersi assolutamente come un compromesso con l’ascoltatore: spinge l’uditore fuori dalla zona di confort, lo provoca volutamente, lo sollecita a mettersi in gioco, ma mai lo allontana arroccandosi in una torre d’avorio. «È una musica che domanda, per questo può anche disturbare. Perché non vuole lasciarti indifferente». Una dichiarazione che ricorda esplicitamente la funzione perturbativa dell’arte auspicata da Braque: un’arte che non deve rispecchiare passivamente la realtà, acquietandosi in un patto sterile con il fruitore. 

Ciò che colpisce, in questo senso, è l’uso del pianoforte: a tratti sembra fondersi come una figura col complesso paesaggio timbrico dell’orchestra; al tempo stesso è immagine in rilievo, con tutte le peculiarità dello strumento nel ruolo di solista. «Nel processo compositivo ho scritto prima di tutto l’intera maquette del pianoforte, poi elaborato il resto. Questo credo derivi da un tentativo di ricostruire un rapporto dialogico fra figura e paesaggio. Rapporto che nella musica contemporanea è stato messo da parte per tanti anni, come  forse anche nell’arte pittorica, penso a certi quadri di Gerhard Richter, con il suo approdo, negli anni Sessanta, a una pittura iperrealistica in cui la figura assume un carattere veramente centrale. Altrettanto cerco di ricreare un’immagine sonora che si stagli per giustapporsi a diversi stati emotivi».

 

Quasi una bagatella: con Beethoven, oltre Beethoven

Il terzo movimento, Quasi una bagatella, pone fine, senza tanti giri di parole, al clima sognante, alle atmosfere rarefatte della Berceuse. Come si evince dal termine ‘bagatella’ il riferimento è immediatamente a Beethoven; il ‘quasi’ lo rafforza (‘Sonata quasi una fantasia’). 

«Lavorando intorno al problema e riducendolo all’osso, non c’è stato molto da scavare. I materiali di Beethoven sono fondamentalmente scale e arpeggi. Da questi materiali sono quindi partito, immaginando di rimetterli in discussione in modo diverso dall’originale, ma cercando un afflato analogo».

Beethoven è infatti il punto di partenza per il finale, pensato da Filidei anche come composizione autonoma (rispetto alla cui versione manca solo la sezione centrale). La prima di Quasi una bagatella si è tenuta il 9 Febbraio di quest’anno con Aimard al pianoforte, la Gürzenich Orchestra e François-Xavier Roth alla direzione.

Nell’accezione beethoveniana, bagatella, che avrebbe il connotato del quotidiano, valenza di un qualcosa di poco conto e di spiritoso – “Oh! questa è bella! Vuole una bagattella!” (La Serva Padrona, di G. B. Pergolesi) – diventa espediente per parlare d’altro: d’un quotidiano che è la vita stessa, d’uno scorrere denso e intenso, ironico e fugace, drammatico e leggero. Con Filidei siamo sempre sul bordo: non c’è una netta divisione tra i piani di lettura chiaramente identificabile, ma ci sono numerosi livelli ben definiti.

L’esordio del movimento è affidato a una triade di Mi bemolle maggiore, distribuita in fortissimo sull’intero organico a disposizione, che ha il compito ingrato di ‘ghigliottinare’ quanto ascoltato in precedenza. L’accordo, perfettamente consonante, ha lo stesso effetto straniante di un cluster in un contesto tonale. L’orchestra prosegue poi con tutta la serie di accordi maggiori costruiti sulla scala di mi bemolle, sempre più sconnessi e slabbrati (meraviglioso il momento in cui interviene il flexatone).

Quel che segue dopo è un caos misurato che non lascia spazio ad ulteriori riflessioni: Filidei ci catapulta direttamente al ritorno dell’accordo iniziale, che ricompare in funzione cadenzale (Si bemolle) in clima tra il festoso e l’assurdo (non sarebbe così fuori luogo citare gli scampanii e i colpi di cannone dell’Ouverture 1812). Si raccolgono qua e là manciate di cadenze perfette – che fanno il verso ai finali di Beethoven come in Podophthalma di Satie (da Embryons desséchés) – e frammenti ben identificabili di quanto poteva già sembrare da quel grande accordo di Mi bemolle maggiore: è l’Imperatore di Beethoven!

La testimonianza di Maurizio Baglini riguardo a Quasi una bagatella è senza dubbio interessante

«Avendo condiviso con Francesco importanti fasi della sua vita creativa, sono consapevole dell’impatto che ha avuto la sua formazione all’IRCAM. Tuttavia in questo terzo movimento, Francesco dimostra di aver metabolizzato le sue esperienze di studio estremamente sfaccettate, senza seguire alcun dogma. Il suo grande merito è anche l’averci fatto capire quanto l’Imperatore sia un concerto spiritoso».

Non sono citazioni stricto sensu quelle di Filidei, ma materiale preso in prestito per divenire altro perché, pur riconoscendosi più o meno chiaramente i frammenti originali, se ne osserva la loro destrutturazione, che nelle abilissime mani del compositore toscano dà luogo a musica totalmente nuova. Musica che potrebbe urtare, certo, ma che non ha alcun intento iconoclasta. Infatti nel corso dell’ultimo, ampio movimento, ci si perde in un coinvolgimento divertito, scanzonato, leggero. Lo dimostra acutamente l’autocitazione ritmica di Dove il Proeta, da Proesie, miniature per voce sola composte durante il primo lockdown.  

È come se fossimo trasportati in una sala da ballo francese nei primi dell’800 ma con uno sguardo contemporaneo: le maschere si susseguono inciampando nei loro vestiti, le pareti sembrano sciolte come gli orologi di Dalì. Personaggi burloni e ribelli (pagliacci con fischietti in bocca e girandole in mano) pullulano la scena: è una giostra, un circo, tra girotondi, fughe sulla tastiera alla Tom e Jerry su residui di danze ungheresi, parodie, litigi infantili.

 

La memoria quale misura del tempo 

Questo confronto continuo col passato storico, culturale, biografico (da Beethoven all’autocitazione, dalla riedificazione secondo nuove prospettive delle forme tradizionali, allo sperimentalismo), scandiscono il percorso della memoria quale strumento di commisurazione del tempo. Tempo, che per Filidei nella ricerca compositiva diventa anche architettura del proprio vivere: «È fondamentale cercare la direzione del tempo, pensare che si possa costruire cristallizzandone il flusso… per questo adopero forme chiuse, mediante le quali è necessario pensare il tempo per poterlo controllare, imprigionare. Inoltre, se si è consapevoli che si può scrivere il tempo, forse possiamo ordinare meglio la nostra stessa vita.»

A tal proposito commenta Tito Ceccherini: «La riscostruzione nel tempo del tempo: questo è il cuore pulsante del far musica. Ed è ciò mi colpisce particolarmente nella musica di Filidei, la cui poetica è scopertamente rivolta a tale dinamica. In fondo, la musica è tra le arti che più ci pone in contatto concreto col tempo in quanto tale. E questo assume un valore ancora più significativo nella società di oggi in cui, forse per esorcizzare con superficialità il pensiero della morte, viviamo a una velocità che tende a farci ignorare la dimensione reale del tempo».

Per concludere, Filidei gioca con l’abilità del grande maestro: profondo, ponderato, stravagante, intimo e nostalgico, senza mai dare adito a sentimentalismi, a provocazioni fini a se stesse. 

E Tre Quadri è un fatto che in Italia si aspettava da anni: un evento coraggioso. Coraggioso è l’averlo voluto, l’aver investito in un progetto di tali proporzioni, l’averlo affrontato e portato a termine mentre i teatri chiudono battenti, mentre si smantella ogni possibilità di investimento sulla cultura. Un fatto dunque che vorremmo vedere ripetersi, e che speriamo non sia il caso isolato, ma un esempio, un punto di riferimento per la fioritura di un nuovo rinascimento artistico della nuova musica italiana.

Michele Sarti & Valerio Sebastiani

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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