Il Direttore Gentiluomo

Intervista a Michele Spotti

Autore: Alessandro Tommasi

19 Agosto 2020

È Michele Spotti il nostro Direttore Gentiluomo, un musicista ventisettenne che si è già guadagnato una posizione di tutto rispetto nel panorama della direzione d’orchestra di oggi. Lo incontro a Martina Franca, giusto il mattino dopo la seconda recita de Il Borghese Gentiluomo, che dirige per il Festival della Valle d’Itria in una nuova versione costruita su quella del 1917. Si sa che il direttore d’orchestra è un mestiere che richiede decenni per affinarsi, ma la sicurezza con cui Spotti conduce la compagine mi porta ad approfondire con lui due aspetti: il primo è riguarda il Borghese Gentiluomo stesso, come partitura e nel lavoro di costruzione dello spettacolo e della concertazione; il secondo riguarda la costruzione di una carriera come direttore oggi, in questo mondo.

 

Partirei indagando con te il Borghese Gentiluomo. Si tratta di una partitura infida, ricca di ambiguità nel suo neoclassicismo essenziale, affiancato a una gestualità prorompente. Quali sono le difficoltà quando si affronta la partitura?

Innanzitutto il Borghese ha proprio nell’organicità la sua più alta complessità. Facendo il paragone con l’Ariadne non abbiamo qui un brano unitario e infatti la Suite è stata una naturale conseguenza. Questa forma a numeri separati, dunque, è stata una delle difficoltà maggiori. Lo stile tra movimento e movimento è molto differente, inoltre nella versione del ’17 troviamo tutta una seconda parte che non viene mai eseguita, la cerimonia turca, e che secondo me è geniale. Oltre a questa difficoltà insita nella musica, c’è stata quella legata all’inserimento dei tre monologhi, che rischiavano di spezzare la tenuta musicale.

Su cui infatti torneremo dopo. Rimanendo sulla partitura, come si costruisce la concertazione di quest’orchestra così nitida, scarna, persino atipica per Strauss?

Sì, quest’opera ricorda tanti aspetti sia della musica tedesca che di quella russa e francese. Ha stilemi così particolari e unici che secondo me non è paragonabile a nient’altro, se non appunto a qualche vago ricordo del neoclassicismo stravinskiano, ma anche con quello ci sono tantissime differenze. Stravinskij infatti utilizza delle cornici di suono e orchestrazioni in cui inserisce brani più antichi rileggendoli sotto la lente della modernità. Strauss invece agisce dall’interno: la difficoltà, e qui torno alla domanda sulla concertazione, è quella di avere un brano in cui la musica antica sia ancora riconoscibile, mentre si evidenziano i processi interni, armonici, di Strauss. Ho tentato dunque di far emergere con chiarezza tutte le voci interne, così che si possa sentire dove Strauss ha lavorato di fino per rendere questo brano così particolare. Medesime tecniche di orchestrazione del Borghese le ho trovate, ad esempio, in Brahms e devo ammettere che queste armonie guidate dai vari strumenti (viole, clarinetti, fagotti, che ho sollecitato molto durante le prove) me lo ricordano molto. Un altro dato molto importante è la realizzazione dei forte.

In che senso? Anche considerando che all’aperto i forte…

Certo, all’aperto ogni forte è smorzato, ma è stata anche una scelta, quella di non aggredirli in una maniera straussiana, alla Till Eulenspiegel per intenderci. Su tutti i forte ho insistito invece perché fossero dei forte intimi. Anche il fortissimo più estremo, che viene ben poche volte raggiunto nel Borghese, ha poi alla fine sempre un senso tematico. Non a caso nei grandi passaggi emerge sempre il trombone con questo Leitmotiv del Borghese.

L’intimità d’altronde è una delle caratteristiche principali di quest’opera, in cui anche i momenti gestuali più ampi vengono ricondotti in una sfera domestica. Approfondendo la costruzione del suono, ho notato la disposizione atipica degli orchestrali, con violoncelli, contrabbassi e viole esterni e i violini al centro. Perché?

Abbiamo fatto di necessità virtù! Io personalmente non dirigo quasi mai con i violoncelli esterni se non in opera, perché ci sono certe buche che per pure ragioni acustiche prediligono questa disposizione. In quest’occasione abbiamo avuto la necessità, soprattutto per le prove al Petruzzelli, di variare la disposizione per far fronte al distanziamento sociale e questa era l’unica opzione in cui violoncelli e contrabbassi potevano rimanere uniti. Devo dire però che con un piccolo rialzo per il primo violoncello e qualche altro escamotage, questa disposizione ha funzionato molto bene. Nel sinfonico penso la adotterei sempre, è molto comoda! Nell’opera invece preferisco avere i violoncelli in corrispondenza della bacchetta, così da essere più comodo nella gestione ritmica dell’orchestra. Essendo però il Borghese un brano fondamentalmente sinfonico, in cui le voci sono importanti ma non così presenti, la soluzione ha funzionato.

Spotti

Michele Spotti. Foto di Marco Borrelli.

Già che ci siamo, parliamo di voci, tra parti cantate e monologhi! Come si è costruita l’idea di questo spettacolo?

La costruzione è stata veramente un parto! Se non ci fosse stato il lockdown dubito avremmo trovato il tempo per poterla realizzare, perché con Davide (Gasparro, che ha curato la messa in scena, nda) abbiamo avuto bisogno dello spazio necessario per concederci un momento di ricerca. L’idea era di fare la versione del 1912, come per l’Ariadne, solo che diventava difficile reggere un’intera serata solo con quella versione, che dura sì e no 45 minuti! Abbiamo dovuto cercare qualcosa di alternativo e così abbiamo guardato la versione del ’17. Che però presenta diversi problemi: a volte quando qualcosa non viene più eseguito, se non è una mancanza di festival e teatri, è perché non funziona. Dunque abbiamo iniziato a spulciare cosa non andasse in questa versione e secondo me alcuni numeri musicali andavano alleggeriti perché densi di ripetizioni. Inoltre questa formula di Hofmannsthal con i testi adagiati sulla musica è parecchio complessa e psante. Inoltre abbiamo invertito l’ordine di alcuni numeri, accorpando le musiche derivate da Lully come nella Suite, creando poi dei momenti a parte per i monologhi, evitando il parlato sulla musica. In ogni caso ciò che volevamo era creare un prodotto artistico moderno, in cui unire musica, danza e recitazione.

Insomma, più che del ’17, è una versione 2020 del Borghese!

Esatto!

Ma cambiamo argomento e spostiamoci sulla seconda parte di questa nostra intervista: da cosa si parte per costruirsi un percorso, una carriera, come direttori d’orchestra oggi?

Io sono della politica del “piano piano”, perché lo studio paga sempre. Non credo ci siano trucchi, né inganni, tutto si ottiene con fatica, dedizione e sacrificio. Poi chiaro, c’è una componente di talento su cui non si può far nulla. Parlando del mio specifico percorso, io vengo da una famiglia di musicista, mia nonna è stata un po’ la mia mentore agli inizi e mi ha fatto avvicinare soprattutto al repertorio sinfonico. È stato poi l’incontro con il Maestro Daniele Agiman che mi ha spostato un po’ sul repertorio operistico. Come giovane che si approcciava alla direzione, il mio percorso di studi ha portato avanti insieme pianoforte, uno strumento d’orchestra (nel mio caso il violino, che è lo strumento su cui mi sono diplomato, e la viola) e poi composizione, che è determinante per imparare a scardinare una partitura e a leggerla nei suoi dettagli. Inoltre a Ginevra, dove ho seguito il master in direzione d’orchestra, ho avuto modo di lavorare molto anche sulla direzione di coro, che è molto importante quando ti trovi a dirigere le masse corali. In tutto ciò è stato determinante anche il mio percorso come orchestrale.

Quindi ti sei trovato anche tu dall’altro lato della barricata, in orchestra!

E in quartetto! Ho suonato per molti anni in quartetto e quintetto e devo dire che un percorso cameristico è molto importante durante la concertazione.

Perché?

Perché il quartetto è un’orchestra ridotta a bomboniera e l’attenzione, la perizia con cui si mettono arcate, diteggiature, colori, frasi, dinamiche è di fatto ciò che accade in orchestra. L’attenzione al dettaglio si percepisce solo quando si lavora su piccoli aspetti e questa mentalità va traslata ad ambiti più grandi. Infatti quando dirigo organici molto imponenti penso sempre di avere di fronte un piccolo gruppo di musicisti e li tratto da piccolo ensemble. Magicamente le indicazioni che do si diffondono a macchia d’olio e raggiungono ogni parte dell’orchestra, grande che sia.

 

E la tua esperienza da orchestrale come ha influenzato il tuo percorso come direttore?

È stata fondamentale, anche dal punto di vista psicologico, perché l’approccio all’orchestra è diverso, avendo vissuto la vita orchestrale sia come spalla che come violino di fila. E lì capisci che un’orchestra deve sentirsi sicura, in mani solide, coccolata, ma al contempo spronata, devi dare e ottenere rispetto. Questa è una cosa che avviene nei primi dieci secondi. È un aspetto che mi ha sempre stupito: quando ero spalla, con un direttore davanti, nei primi cinque, dieci secondi in cui agitava le mani, già capisco se potevo trovarmici bene oppure no. Il primo approccio è determinante. I grandi direttori con cui ho lavorato, tra cui Luisi, trattano spesso l’orchestra con estrema semplicità, senza filtri. L’orchestra è fatta da artisti, persone sensibili che devono avere la possibilità di guardarti nell’animo. Più sei trasparente più è facile essere apprezzati.

Cosa complessa, mi vien da pensare, quando un rapporto così delicato si decide in pochissimi secondi. Come si regge questa pressione? Dici che l’approccio dovrebbe essere spontaneo e senza filtri, ma come fai a non irrigidirti e a non mettere distanza quando sai quanto è fondamentale quel primo impatto?

Mah, guarda, ci sono dei momenti in cui soffro durante la produzione e uno di quei momenti è proprio la prima lettura, perché è il momento in cui devi appunto dimostrare di essere all’altezza della posizione in cui ti trovi, in particolar modo se sei un giovane direttore e non hai ancora quel credito alle spalle. Infatti venire qui a Martina Franca per il secondo anno è stato molto più facile. Dopo la buona prova con il Matrimonio Segreto, sempre con l’Orchestra del Petruzzelli, quando mi hanno rivisto non c’è stato quel velo di sospetto che giustamente l’orchestra crea la prima volta. E i risultati artistici, a mio avviso, sono stati superiori rispetto alla prima volta. Ma quando ti trovi faccia a faccia con l’orchestra, nei primi secondi, devi essere sicuro di te e per me questo significa avere la consapevolezza di aver studiato abbastanza. È l’unica cosa che mi dà tranquillità, a prescindere da che orchestra e che tu sia in Italia o all’estero, secondo me devi avere una preparazione tale da poter stare tranquillo con te stesso. E quando sei tranquillo con te stesso sei tranquillo con il mondo. Quindi nei giorni prima della prima prova preferisco veramente esagerare con lo studio, così da arrivare lì tranquillo e poter semplicemente far musica.

Spotti

Michele Spotti a Martina Franca. Foto di Clarissa Lapolla

Tu hai vinto il secondo premio ex-aequo (con primo non assegnato) al primo concorso di Liege per direttori d’opera. Che ruolo hanno i concorsi nel costruirsi una carriera come direttore?

I concorso sono importanti, in primo luogo perché confrontarsi con i colleghi (eravamo più di 150 a Liege!) è sempre affascinante e ti permette di capire il livello in cui ti trovi. Poi perché un concorso può aprirti moltissime possibilità. Ma se è per quello anche da strumentista feci moltissimi concorsi.

Certamente ti dà una carta abitudine allo stress e all’essere sottoposti al giudizio.

Esatto. Alla fine saremo giudicati tutta la vita, nel bene e nel male. Certo, l’arte direttoriale è una cosa assai soggettiva, perché eccetto alcuni dati oggettivi come il rapporto buca-palco tutte le altre scelte sono personali. Ma d’altronde i percorsi artistici sono tutti diversi e ad una certa età puoi avere idee e cambiarle completamente ad un’altra, quindi bisogna trovare anche il giusto spazio per il giudizio altrui. A me personalmente il giudizio che interessa di più è sempre quello dell’orchestra, perché è la spada di Damocle che pende su ogni direttore.

Com’è cambiato il mestiere del direttore, anche in termini di cura dell’immagine, rispetto alle precedenti generazioni?

Ahimè son ambiate parecchie cose, la prima è che c’è molta più concorrenza. Basta vedere i corsi in Chigiana, quando andavo da Gelmetti c’erano 50-60 direttori, tutti pronti e preparati. La seconda cosa è che oggi le orchestre raggiungono livelli di preparazione sempre più alti e, soprattutto nelle orchestre in cui non c’è stato un ricambio generazionale, devi davvero sempre dimostrare di essere degno di stare in quella posizione. La cura dell’immagine e i contorno sono anche diversi rispetto al passato, basti pensare ai social e all’importanza della visibilità. Non sempre questo è un bene, l’idea di un direttore che viene riconosciuto unicamente per la sua immagine pubblica per me è una tristezza estrema, perché non gli si riconosce il lavoro sul podio, ma ci si concentra su come si veste, come si presenta sui social. Chiaro, l’aura del direttore c’è sempre stata, se pensiamo ai grandi della storia non ne ricordo che fossero sciatti, però Ozawa andava in prova con le trainers, e per me è uno degli dei dell’Olimpo! Alla fine dipende dalla personalità, penso non si debba ostentare né fingere alcunché, nonostante le pressioni dei social.

Non pensi che questa maggiore presenza dei mezzi di comunicazione possa rendere più accessibile la figura del direttore d’orchestra?

Assolutamente, certo, la parte divulgativa dei social e dei media è quella più positiva. Si può vedere l’umanità di alcune persone, che viste solo durante lo spettacolo possono sembrare dei marziani e invece sono normalissime, con una propria vita, una propria famiglia. La rata della macchina la pagano anche loro! Il rischio però è anche di invadere troppo la sfera personale, che il pubblico cerca sempre più di scoprire. Ed è fastidioso, secondo me, perché io preferirei essere conosciuto per la mia arte non per ciò che mi circonda. Però so che è un giudizio estremamente personale!

Certo, ma è ciò che ci interessa! Dunque come si svilupperanno i prossimi mesi per il Maestro Spotti?

In questo momento sono abbastanza positivo, sia nella vita che nel lavoro. Dopo aver finito il Borghese a Martina ci sarà Pesaro con il ROF, poi di nuovo Bari con il Petruzzelli per l’Elisir d’Amore e altri appuntamenti ancora. Fino al 2024 in teoria ho impegni, quindi sono abbastanza tranquillo. E sono anche convinto che dopo questa emergenza gli artisti saranno più salvaguardati da un punto di vista contrattuale, perché bisogna imparare che gli artisti vanno rispettati come lavoratori. Poi non sto dicendo che la ripresa sarà facile, anzi, però non la vedo così tragica. Spero che ci possa essere una pronta risposta da parte delle istituzioni e noi tutti saremo pronti a sfruttare tutto ciò che ci verrà messo a disposizione! Poi per me, egoisticamente, ciò vuol dire anche qualcosa di positivo: la riprogrammazione sta portando a fare molte più opere di repertorio e il repertorio è qualcosa di molto congeniale per un giovane direttore! Io sogno ancora di debuttare Traviata, di cui conosco a memoria ogni singola nota, ma non ho ancora avuto modo di dirigerla. Insomma, si rimane positivi e si cerca di prendere tutto ciò che ci arriva e volgerlo al meglio!

 

Michele Spotti. Foto di Marco Borrelli.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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