Classica e Jazz con il Greenland Trio

Il secondo appuntamento con i Concerti dell’Accademia degli Sfaccendati a Palazzo Farnese

Autore: Enrico Truffi

27 Luglio 2020

L’antica rivalità fra musicisti di formazione classica e quelli di musica jazz è stata per decenni fonte di controversie, discussioni basate sulla sostanziale differenza di queste due – pur approssimative – categorie nel loro modo di intendere il ritmo, l’armonia e la struttura narrativa di un brano musicale. Per fortuna, ad oggi, questi scontri hanno già avuto luogo in mille contesti diversi e la contesa sembra oggi come non mai fuori luogo e fuori tempo massimo, (anche se occorre notare come tutt’ora nell’educazione musicale i due percorsi tendano a seguire vie più o meno separate e non comunicanti). Eppure, come si è potuto assistere Domenica nello splendido cortile del Palazzo Farnese di Caprarola, i punti d’incontro fra le due concezioni possono portare a nuove intese stimolanti per il progredire di un dialogo più aperto all’interno di quella che consideriamo genericamente come “musica d’arte”.

 

 

Il concerto, offertoci dall’Accademia degli Sfaccendati, si inserisce nella generale ripresa degli spettacoli dal vivo post-lockdown, e si è svolto, grazie alla promozione generale della Direzione Regionale dei Musei del Lazio e e alla organizzazione della COOP ART, nella splendida cornice del Palazzo Farnese, in una serie di appuntamenti che si affiancano alla consueta collaborazione con il Palazzo Chigi di Ariccia.

L’esibizione parte da un’idea ben precisa e in linea con la serie di concerti offerti da queste istituzioni, che promuovono la riscoperta di un repertorio più o meno classico alla luce delle possibilità offerte da ogni sorta di organico non tradizionale. In questo caso, il trio di protagonisti della serata era composto da voce (Federica Raja), sax tenore e clarinetto (Mario Raja) e chitarra (Enrico Bracco), ed hanno portato alla luce un repertorio diversificato e coraggioso, che attraversa con disinvoltura numerosi paesaggi musicali, tutti caratterizzati da una spiccata affinità con le strutture delle canzoni popolari degli anni 20/30, fra jazz, musica napoletana e sudamericana. In questo senso l’apertura con Liebeslied, un brano estratto dall’Opera da tre soldi di Brecht e Kurt Weill e riarrangiato da Mario Raja per l’occasione, funge quasi da dichiarazione d’intenti ed è perfetto per impostare il tono della serata con un brano che già all’epoca strizzava l’occhio alla musica popolare e cabarettistica che circolava negli anni ’20 in Europa. Mantenendo il parlato dell’opera di Brecht, Raja evita il rischio di fraintendere il brano per le stesse canzonette che Weill in parte parodizzava e in parte omaggiava, e l’intreccio di clarinetto e voce risulta affiatato e timbricamente azzeccato; si intravede poi la struttura che verrà poi seguita fedelmente dagli interpreti per tutto il concerto, mutuata appunto dal jazz, di introduzione strumentale del tema, ripresa della voce, assolo e conclusione.

 

 

Il concerto prosegue fra musiche di Raffaele Viviani, Heitor VIllalobos, Stravinskij, Debussy e Richard Strauss, e senza elencare tutte le esecuzioni (poiché in questo genere di concerti ogni commento riferito alla fedeltà del brano originale è totalmente privo di senso) l’esibizione si è mantenuta a livelli di eccellenza per quasi tutta la sua durata. L’unico problema si presenta solamente in un certo schematismo che si rileva in alcuni brani, nei quali l’incontro fra queste due anime non avviene sempre nella maniera fluida e priva di sforzi che un tale connubio richiederebbe. Fortunatamente, l’eccellenza e il trasporto degli interpreti riescono a comunicare una passione per la materia che salvano l’esecuzione da ogni possibile traccia di accademismo. Gli arrangiamenti  in particolare si rivelano molto azzeccati nell’adattare da una lingua all’altra brani come Morgen di Richard Strauss o Romance  di Claude Debussy, e anche se ogni tanto il raddoppio della voce risulta ridondante, la resa armonica dei brani rimane in perfetto equilibrio fra una fedeltà minima e l’espansione che il linguaggio armonico jazzistico richiede. La voce di Federica Raja, di impostazione lirica risuona in tutto il cortile con una purezza cristallina e stentorea, aiutata dall’ottima acustica dell’auditorio; la chitarra di Enrico Bracco, che ha il compito difficile di stendere la base armonica e ritmica per tutti i brani se la cava per di più egregiamente, con qualche lieve mancanza ogni tanto proprio nella sottolineatura dell’identità ritmica di ogni brano, specie quando rimane sola a dover creare una base per i suoi assoli.

Nonostante queste occasionali defiances, un’altra volta musica classica e musica jazz si sono incontrate senza feriti, e nonostante il timore di Mario Raja di aver “maltrattato” questi autori, siamo convinti che la strada della musica, sia essa jazz, classica, popolare, d’arte o come la si voglia chiamare, possa avere un futuro soprattutto grazie alla rivisitazione e all’indagine, condotte come in questo caso con la genuina eccitazione e curiosità che questi brani richiedono.

 

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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