I dialoghi romani

di Orazio Sciortino

Autore: Silvia D'Anzelmo

27 Novembre 2019
In occasione del suo recital ad Albano dedicato alle trascrizioni di Franz Liszt, abbiamo incontrato Orazio Sciortino. Con lui abbiamo chiacchierato di semplicità e complessità, divulgazione, politica e molte altre cose.

Pensa che la musica abbia ancora un valore sociale e, se sì, in cosa consiste?
La musica è un rito collettivo. Per compiersi ha bisogno di un interprete che la esegua e di un pubblico che la ascolti. La sala al buio, i silenzi, gli applausi o i colpi di tosse, tutto questo fa parte del rito musicale e coinvolge la nostra parte emotiva, spirituale. E il suo valore sociale sta proprio nel costringerci a prestare ascolto: nel momento in cui si è nella penombra e in silenzio, la nostra concentrazione è rivolta a quello che l’interprete sta eseguendo ma, necessariamente, è rivolta anche a noi stessi. Siamo portati ad ascoltarci e questo ha un valore terapeutico su tutti coloro che entrano a far parte del rito musicale.

Lei è sia pianista che compositore. Come entrano in relazione, a livello intimo, questi due aspetti?
Creare la mia musica o eseguire quella di altri compositori per me sono espressioni di uno stesso pensiero musicale legato alle esperienze personali, emotive… Tutto questo confluisce necessariamente sia nella musica interpretata che composta. In realtà, tecnicamente, non c’è nessuna interazione tra le due cose: sono due cervelli che operano separatamente. E, in effetti, io tendo a tenere separati gli ambiti. È vero però che l’esperienza del palco e il rapporto diretto con lo strumento mi permettono una consapevolezza più profonda e prativa. So gestire i tempi di una prova, le difficoltà tecniche ed emotive e di tutto questo tengo conto quando scrivo. Inoltre, un interprete è più abituato a confrontarsi con il segno musicale (sa perfettamente cos’è un mezzoforte, non è solo un’idea vaga). Dall’altro lato, scrivere musica dà una forma mentis molto razionale e controllata. Per cui, quando interpreto una partitura di Schumann, per esempio, è come se la ricreassi secondo il mio sentire. Pensandoci bene potrei quasi dire che è la mia vita da compositore a influire maggiormente su quella da interprete.

Come compositore cosa le interessa far ascoltare al pubblico?
Sicuramente mi interessa il teatro perché penso che tutto possa diventare teatro e anche il rito del concerto, in effetti, è teatro. Se c’è un elemento preponderante nella mia musica è proprio questo: tutto per me passa attraverso logiche drammaturgiche. E non è un caso se tra i compositori a me più cari ci siano Mozart e Schumann che trasformano in drammaturgia teatrale tutto ciò che toccano.

Ultimamente mi sembra che ci si stia spostando verso una semplicità eccessiva nella musica colta. Lei non crede?
Vedo che c’è questa tendenza e non mi piace. La semplicità eccessiva è molto pericolosa, sarebbe forse più onesto ritornare a una nuova complessità che è un termine che preferisco. Ma è anche un termine che spaventa. Siamo portati a pensare alle avanguardie, in particolare alla seconda, come qualcosa di troppo complesso. Ma siamo sicuri che una Sonata di Mozart sia semplice? La semplicità a tutti i costi mi sembra seguire delle logiche esclusivamente commerciali che, francamente, non mi interessano. Ridurre tutti gli ambiti e le facoltà intellettive dell’essere umano a qualcosa di immediatamente comprensibile mi sembra una finta, un volersi buttare fumo negli occhi. La complessità esiste e non può essere negata né bisogna vergognarsi del pensiero complesso. Del resto tutto il Novecento è fatto di cose complesse ma anche molto importanti e belle con le quali dobbiamo imparare a fare i conti. Non possiamo rottamare (termine che va molto di moda ultimamente) la musica di Stockhausen, Luigi Nono, Donatoni. E non possiamo passare da un dogma all’altro: dalla complessità a tutti i costi alla semplicità a tutti i costi. Dobbiamo anche considerare che questa opposizione alla complessità c’è da un pezzo oramai. C’è stata la generazione dei neo-romantici che si è opposta con forza alle avanguardie. È un movimento che ha avuto una sua importanza ma ora l’interesse della mia generazione deve essere un altro. Basta con i proclami rivoluzionari, le lotte, le opposizioni: cerchiamo la sintesi.

Crede che la divulgazione musicale possa aiutare il pubblico a non temere il pensiero complesso?
Certo ma bisogna capire come. Il novecento ha avuto due grandi comunicatori: Leonard Bernstein e Luciano Berio. Anzi credo che Berio sia stato ancora più incisivo perché sapeva sintetizzare e comunicare un pensiero musicale anche molto complesso utilizzando un linguaggio non semplicistico ma efficace. Alle volte basta solo chiamare le cose con il loro nome. Dobbiamo considerare che oggi non siamo più abituati a leggere, anzi siamo oberati dai testi, l’attenzione che prestiamo alla lettura si è abbassata, non andiamo oltre le tre o quattro righe poi scorriamo avanti. Allora, forse, meglio la comunicazione a voce proprio come facevano Berio e Bernstein (con i dovuti cambiamenti nei supporti tecnologici). Trovo molto efficace, più che delle erudite note di sala, la divulgazione fatta dai musicisti stessi. Poche parole, semplici e chiare che ci permettono di godere del concerto con maggiore consapevolezza. Tanto se voglio sapere che è Debussy posso usare internet. Allora, per citare ancora Berio, meglio ascoltare come il musicista ci parla di sé attraverso i compositore che andrà a eseguire. Inoltre, dato che siamo spaventati dalla complessità e dall’ignoto, penso che bisogna far ascoltare più di una volta brani che consideriamo difficili. Non dobbiamo eliminare il Novecento dai nostri programmi ma trattarlo con le dovute precauzioni: alle volte, nei miei concerti, eseguo due volte il brano contemporaneo così da permettere al pubblico di familiarizzare con quel linguaggio. Altra cosa importante: credo che i concerti non debbano durare un’infinità. Dobbiamo lasciare lo spazio per metabolizzare ciò che si è ascoltato e invogliare il pubblico a tornare. È un po’ come nelle mostre d’arte: stanze piene zeppe di quadri che non permettono al visitatore di goderne a pieno. C’è un sovraccarico di stimoli che finisce per annullarli tutti.

Per quanto riguarda il (mancato) sostegno dei governi alle arti. Cosa ne pensa?
È evidente che il problema non è solamente musicale ma propriamente esistenziale. Il mondo ha smesso di essere una comunità, l’individuo stesso è messo in discussione. Si fa fatica a ritrovarsi dal vivo, tutto è spostato nell’ambito virtuale. Il dibattito, le idee non sono più considerati seriamente ma sono rincorse di visualizzazioni. E i governi, persi dietro questa ricerca spasmodica di consensi non sostengono neanche loro stessi, come potrebbero sostenere la musica?

Silvia D’Anzelmo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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