Piero Rattalino e l’intelligenza emotiva come via di accesso alla catarsi

In occasione dell’uscita del libro “L’interpretazione pianistica nel post-moderno” abbiamo fatto quattro chiacchiere con Piero Rattalino.

Autore: Silvia D'Anzelmo

6 Luglio 2018
Nel suo libro “L’interpretazione pianistica nel post moderno” lei traccia una linea evolutiva di quelle che sono le diverse modalità di esecuzione nei vari secoli. Mi sembra di capire che ci sia stato un doppio scollamento tra il testo e l’interprete e tra performance e pubblico.

Bisogna fare innanzitutto una distinzione tra testo e notazione, le due cose non sono uguali anche se si è progressivamente identificato l’uno nell’altra. Il testo differisce dalla notazione semplice come in qualsiasi cosa scritta: in una poesia di Leopardi, il testo non coincide semplicemente con le parole perché comprende anche i loro rapporti di interdipendenza, il pensiero che esprimono, le tensioni e il sentimento che trasmettono. Il Novecento ha portato progressivamente, attraverso i compositori e in particolare Stravinskij, a non fare più distinzione e a identificare le due cose.

L’approccio di Stravinskij era razionalista mentre quello che lei propone, mi sembra, sia legato all’intelligenza emotiva. Lei intende questo approccio per ogni tipo di repertorio?

A partire dal Barocco sì. Il Barocco è basato sulla teoria degli affetti, l’Affektenlehre, e sull’idea che la musica debba docere, movere, delectare. Ma non vorrei banalizzare la cosa, il Novecento ha perseguito un suo ideale e ha cercato in tutti i modi di realizzarlo, secondo me non c’è riuscito ma è del tutto rispettabile l’impegno che c’è stato nel farlo.

Come pensa che un giovane interprete debba formarsi per riuscire a interessare nuovamente il pubblico?

Non comunicare un’idea ma un’emozione, l’emozione che c’è nella musica. Il giovane interprete deve conoscere la musica, conoscere il suo linguaggio e non semplicemente la notazione. Oltre a conoscerlo teoricamente, l’interprete deve sapere come usarlo praticamente. Per esempio: non si deve semplicemente saper riconoscere un intervallo dissonante ma bisogna trasmettere al pubblico la dissonanza così che possa sentirla.

Quindi il problema della distanza tra la musica eseguita dal vivo e pubblico non è semplicemente una diseducazione nell’ascoltore ma anche una diseducazione dell’interprete.

Il problema dell’interprete è lo stesso problema del compositore. Nel Novecento il compositore ha smesso di occuparsi della ricezione e si è dedicato allo sviluppo di un linguaggio nuovo come la serialità che però non viene recepito dal pubblico se non quando è accompagnato, per esempio, da immagini. Di per sé il problema è molto semplice, è la soluzione che risulta difficile. Bisognerebbe capire come comunicare al pubblico linguisticamente e non acusticamente ossia, bisogna far parlare i suoni. Una cosa è chiara, così com’è la musica colta sta perdendo pubblico dal vivo e quindi bisogna far qualcosa. Per esempio, ci sono giovani pianiste che si esibiscono in modo erotico ma non è una soluzione, è qualcosa dettato dalla disperazione. Io credo che la musica, almeno dalla classicità in poi, abbia lo stesso carattere delle parabole: non si ammira solo la bellezza formale ma c’è qualcosa che smuove la coscienza. Lo ha detto molto bene Franz Liszt nel necrologio a Niccolò Paganini: bisogna educare il pubblico al sentimento della bellezza che è così prossimo al sentimento del bene. In sostanza dobbiamo recuperare il valore etico della musica e dell’arte in generale.

Lei sostiene che dall’Ottocento ma soprattutto dal Novecento, l’interprete diventa una figura sacerdotale e che invece bisognerebbe intenderla come figura mitica. Cosa vuole dire?

Intendo partire dalla bellezza sensibile per colpire la coscienza, elaborare quello che è il messaggio per giungere alla catarsi. Le faccio un esempio pratico nato dalla mia esperienza di insegnamento all’Accademia Praeneste. Ultimamente i neurologi stanno analizzando le capacità sinestetiche che ognuno di noi sembra possedere. Quindi ognuno di noi è capace di accoppiare a un solo stimolo sensoriale due cose differenti come sentire la musica e vedere nella propria mente qualcosa. Prendendo molto sul serio questi studi, sto cercando di formare degli insegnanti che vadano a lavorare con bambini piccoli per sviluppare maggiormente il loro la capacità sinestetica. Bisogna avere fiducia nel valore educativo della musica.

 

Silvia D’Anzelmo

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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