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L’arte di andarsene

di Carlo Emilio Tortarolo - 13 Ottobre 2025

Dimissioni e responsabilità nella cultura italiana

‘Dimissioni’ è una parola che in Italia fa rumore ancora prima di essere pronunciata, evocando quel mondo fatto di responsabilità e vergogna, di lucidità e resa, di etica del ruolo e pettegolezzo.

È un vestito che portiamo con la stessa ambivalenza con cui parliamo di lavoro stabile: due aspetti della stessa medaglia. Se del lavoro celebriamo la solidità, insieme temiamo ogni movimento che possa incrinarla.

È anche per questo che, nel nostro discorso pubblico, chiedere le dimissioni è diventato spesso un riflesso condizionato, mentre rassegnarle rimane un gesto raro, quasi sospetto, anche se nobile.

In un raro incrocio astrale, in appena dieci giorni, tre episodi molto diversi fra loro hanno rimesso questa parola al centro della scena culturale italiana e ci obbligano a particolareggiarne i contorni di colore, di termini e di responsabilità, nella speranza che una pratica poco italiana possa, dalla cultura alla società, diventare prassi.

Tre sfumature di dimissione

Il primo episodio riguarda la nomina della direttrice Beatrice Venezi a La Fenice.

In questo contesto non entrerò nel merito, rimandando al pezzo che abbiamo già pubblicato; quando la notizia diventa di rilevanza nazionale ha già travalicato il momento in cui poterne parlare con neutralità. Rimane utile però fissare il perimetro: la vicenda non parla solo di una persona che, forse, dimettendosi potrebbe risolvere la questione (ma d’altra parte chi la potrebbe mai obbligare?), bensì di un’istituzione a cui viene chiesto di revocare un atto considerato imposto.

È una differenza tutt’altro che semantica.

Chiedere la revoca significa collocare il confronto nel luogo giusto, quello della governance: criteri, istruttoria, opportunità, trasparenza.
Non è un processo alle intenzioni né un voto di fiducia permanente: è l’ordinario vaglio di un atto amministrativo e della sua legittimazione pubblica.

Trasformare tutto in una pressione “personale” a lasciare è una scorciatoia narrativa che confonde piani diversi e che, negli enti culturali, finisce per scaricare sui singoli conflitti che andrebbero risolti con regole, organi e procedure, non con l’ennesima baracconata a mezzo stampa.

Di ben altra natura è il secondo episodio, quello che ha visto il compositore Giorgio Battistelli lasciare la direzione artistica dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento.

Qui la grammatica è stata esemplare: divergenze di visione ritenute non più conciliabili, presa d’atto, dimissioni. Nessun braccio di ferro, nessun contenzioso, nessun “finale di stagione” affidato ai veleni. È un caso di scuola che ricorda a tutti una verità spesso rimossa: una direzione artistica non è un possesso, è un mandato a termine su un progetto condiviso.

Una direzione artistica non è un possesso, è un mandato a termine su un progetto condiviso.

Quando il progetto e la rotta non coincidono più, la scelta più adulta è farsi da parte, garantire la continuità del lavoro già impostato e restituire all’istituzione la libertà di ridefinire la propria linea.

In questa sobrietà c’è una pedagogia civile: la forma è sostanza, il modo in cui si lascia incide sulla salute dell’ente che si lascia.

Dimettersi, in questo caso, non è una colpa né un fallimento; è un atto di cura che impedisce al logoramento di trasformarsi in danno.

Il terzo episodio è il più delicato, perché intreccia cronaca giudiziaria, reputazione e responsabilità verso il pubblico. Il violoncellista Michele Marco Rossi ha rassegnato le dimissioni da co-direttore artistico del Ravenna Festival dopo un rinvio a giudizio per accuse gravi extramusicali.

Qui la prima bussola è quella costituzionale e culturale: la presunzione di innocenza non è un dettaglio formale (anche nel caso specifico), è un presidio di civiltà contro l’istinto di sostituire ai tribunali il tribunale dei media.

Ma l’altra bussola, non meno importante, è la responsabilità istituzionale: un ente culturale deve tutelare la propria immagine e la serenità del lavoro mentre la giustizia fa il suo corso.

In questa cornice, le dimissioni di Rossi, accompagnate dalla dichiarata volontà di non danneggiare il festival, non sono un’ammissione: sono una misura di protezione del bene comune.

Il punto, qui, è tutto nel racconto: riportare i fatti è dovere; travestirsi da giuria, giudice e carnefice è abuso. E non tutti i giornali hanno tenuto ferma questa linea di confine, non distinguendo la netta differenza fra cronaca e giudizio, dimenticando che un titolo sbagliato non è solo un inciampo stilistico: è un danno alla credibilità di tutti.

Una scelta in stop-motion

Se mettiamo in fila i tre fotogrammi, si vede con chiarezza quanto la parola “dimissioni” sia stata appiattita su un significato unico. La domanda, forse più innata nel pubblico abituato al pettegolezzo e al fallimento altrui come metro di paragone con la propria vita, non è “chi perde la faccia?”, ma “come si protegge la fiducia?”

Perché la fiducia è il vero capitale dei teatri e dei festival: senza fiducia del pubblico, dei lavoratori interni, dei partner, nessun cartellone regge, nessun artista brilla, nessuna politica culturale convince.

La fiducia è il vero capitale dei teatri e dei festival: senza fiducia del pubblico, dei lavoratori interni, dei partner, nessun cartellone regge, nessun artista brilla, nessuna politica culturale convince.

Questa distinzione non è un esercizio accademico.

Ha conseguenze molto concrete sul modo in cui programmiamo, contrattualizziamo e comunichiamo. La filiera musicale italiana ha bisogno di poche regole semplici e condivise a partire dalle nomine, più inclini a seguire criteri di legittimazione e di metodo.

Ma anche sulla capacità di gestione delle crisi. Al contrario della melina e dell’improvvisazione, saper sfruttare l’imprevisto, in realtà, fa bene a persone e istituzioni.

In questa rassegna c’è un pezzo culturale che riguarda direttamente noi tutti, da musicisti a operatori, da amministratori a pubblico. Il tenere insieme, lo smussare, il cercare la compatibilità a tutti i costi può essere una virtù, ma può anche diventare il paravento dell’inerzia.

Ci sono momenti in cui la responsabilità si esercita facendo un passo di lato, e altri in cui si esercita rimettendo in discussione l’atto che ha creato la frattura.

La vera maturità sta nel riconoscere quale gesto sia richiesto dal contesto, senza scambiarli.

E sta anche, quando entra in scena la giustizia, nel saper sospendere il giudizio e proteggere l’istituzione senza trasformare la vita privata di qualcuno in un palcoscenico.

Forse la lezione più utile di questa settimana è proprio questa grammatica minima: non un invito alla timidezza, ma alla precisione. Perché meno confondiamo le parole, più diventano efficaci gli strumenti. E meno lasciamo che sia la polemica del giorno a scrivere la direzione artistica del Paese.

Saremo mai disposti a fare lo sforzo di usare gli strumenti giusti per le situazioni giuste, anche quando costano tempo, spiegazioni e responsabilità?










Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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