La prima Sonata di Jean Huré per violoncello e pianoforte
di Margherita Succio - 14 Ottobre 2024

La vita di Jean Huré si mostra indipendente, lontana dai salotti letterari e artistici parigini, eppure molto allineato con l’estetica musicale del tempo: è fondatore della rivista mensile L’Orgue et les organistes, studia antropologia, musica medievale e improvvisazione, si dedica attivamente all’insegnamento. In un contesto di studio e apprezzamento per la musica sacra, Huré scrive molto repertorio cameristico, dedicando al violoncello ben tre sonate, tutte intorno alla tonalità di fa, che Huré esplora in tute le sue varianti seguendo l’impronta stilistica di Debussy e Fauré.
Nato a Gien, Jean Huré studia composizione e musica medievale all’École Saint-Maurille di Angers. Fondamentale nella sua formazione è il suo trasferimento a Parigi nel 1985, dove incontra e segue Charles-Marie Widor e Charles Koechlin. Il legame con l’organo e il repertorio sacro diventa elemento principale di ricerca e lavoro: oltre alla carriera di organista, Huré si dedica anche all’insegnamento presso l’École normale supérieure, è un prolifico scrittore di saggi teorici e pedagogici sulla musica e dedica alla musica sacra una larga parte della sua composizione. Tra le numerose opere si ricorda la Messa solenne all’onore di Santa Giovanna d’Arco, scritta nel 1896. Nonostante la specializzazione e la fascinazione per questo genere,
Huré compone anche un’opera comica, un balletto, tre sinfonie e numerose opere da camera.
Musica da camera
In riferimento alle sue composizioni da camera, si propone il Quintetto con pianoforte composto nel 1908:
I. Assez lent
Composta nel 1903, la prima sonata per violoncello e pianoforte in Fa diesis minore è una breve opera dal carattere tardo romantico, ricca di echi del gusto francese: progettata in unico movimento, è divisa in tre sezioni, le cui breve introduzione ed epilogo incorniciano il centro del lavoro con equilibrio, risultando in un lavoro completo, puntuale e ordinato nella sua espressione slanciata e tecnicamente impegnativa, in particolare per quanto riguarda la parte del pianoforte.
La prima sezione, di appena due minuti, è un piccolo carillon infantile, dal carattere sereno, pregno della fanciullezza nostalgica di Debussy: fin dall’inizio si coglie il tratto melodico che Huré esplora all’interno dell’interno lavoro. Il motivo iniziale torna periodicamente in entrambi gli strumenti spesso invariato nella sua purezza, non condizionato dagli elementi secondari e quindi presentato in modo semplice e pulito.
II. Assez vif
Il secondo movimento, o meglio il centro dell’opera, si spalanca su una brevissima esitazione del pianoforte alla fine dell’introduzione con quattro rintocchi di ottave, scuri, misteriosi. Un lungo passaggio dedicato al pianoforte presenta, ancora riconoscibile, il contorno motivico iniziale, ora abbandonato a grande espressione e un gesto quasi imponente, eppure tormentato. Fin dall’inizio è evidente la conoscenza approfondita della tecnica pianistica, messa in gioco da subito con l’intervento del primo tema sempre in ottava, e un lungo incipit tecnicamente complesso e denso.
Il violoncello in questa Sonata sembra muoversi sempre per imitazione strumentale, oltre che musicale, del pianoforte: i numerosi ribattuti del pianoforte vengono ripresi dal violoncello con carattere incalzante, agitato. Anche il secondo tema, che è solo un velato ritorno all’ambiente sonoro iniziale, si muove attraversando il violoncello e seguendo il profilo fitto e ricco della parte pianistica, che sembra plasmare il materiale musicale con grande intenzione, fino a condizionare quella violoncellistica. Huré non sfrutta la cantabilità del violoncello per isolarla, adornarla né metterla in evidenza: è evidente invece la volontà di usare la melodia come risultante solo in primo piano del processo armonico ed espressivo del pianoforte.
Il violoncello si sfina nella sua voce e al contrario s’indurisce sempre come risultante del movimento del piano; un breve assottigliamento nello sviluppo è solo un breve respiro dal vortice incalzante, denso, della seconda parte del movimento. In questo momento sembra di sentire l’eco dell’uso del pizzicato giocoso e quasi grottesco di Ravel, che aggiunge una nota adulta nella giovialità di questa sezione centrale. Huré fa danzare i due strumenti con leggerezza matura, di chi si concede e quindi sceglie consapevolmente di lasciare spazio al gioco, senza risultare mai totalmente spensierata.

Questa sezione centrale è la più coinvolgente e interessante del movimento, e definisce con lucida intenzione l’appartenenza all’estetica francese contemporanea: la fascinazione per il gioco di cui accennato, l’elemento della danza così affascinante nel suo ondeggiare, il colore. Huré collega il cuore del movimento con un momento molto espressivo, più drammatico del violoncello, introdotto dal gioco grottesco tra armonie maggiori e minori del pianoforte, che ricorda ora i lirismi estesi, lunghissimi del cantabile di Franck. La concitazione cresce con l’infittirsi della parte pianistica, il canto sempre più agitato, acuto e con un’accezione quasi operistica del violoncello in un’ultima ripresa che prepara la lunga coda del movimento. Molto interessante è ancora una volta la transizione tra le diverse sezioni, e l’uso della prima cellula motivica del secondo movimento come chiave per ritornare all’agitazione, il tormento tardoromantico iniziale.
Ad aprire il terzo movimento, con la stessa intenzione della coda del primo movimento, c’è l’ultima citazione del tema al pianoforte, grave, densa e carica di tensione, definitiva, che torna proprio sui ribattuti, i rintocchi che avevano chiuso il primo movimento.
III. Lent
Il momento della redenzione e del ricongiungimento dopo la lunga inquietudine centrale arriva con il Lent finale nel quale il violoncello viene finalmente liberato al suo lungo canto sostenuto dal pianoforte e dal suo accompagnamento ricco di colori, disteso, che sostiene il violoncello verso un’espressione di quel carillon iniziale così puro e semplice, ora più nostalgico, influenzato all’ascolto e nella sua natura dalla tribolazione dell’Assez vif.
Huré riesce quindi a distillare dal movimento centrale quasi torbido un finale eloquente, intenso, finalmente rincuorante. I due strumenti si muovono quasi sospesi ora sulla tonalità, così lontana e chiara, di fa diesis maggiore, in una dimensione parallela, uguale e contraria, dell’ambiente sonoro esplorato precedentemente; è forse proprio la dualità che rende questo finale così luminoso.