Vanessa Wagner e Murcof al Parco della Musica
di Silvia D'Anzelmo - 30 Settembre 2019
desideri interrotti, promesse spezzate
Non è certo semplice parlare del concerto ascoltato domenica all’Auditorium Parco della Musica. La serata organizzata dal RomaEuropa Festival, in realtà, sulla carta prometteva di essere molto interessante: la pianista francese Vanessa Wagner e il messicano del Nortec Collectiv Fernando Corona, aka Murcof, insieme sul palco per mostrare al pubblico la loro personale lettura di alcuni tra i più significativi lavori pianistici dell’ultimo secolo, intrecciando acustica ed elettronica. Da Erik Satie a John Cage passando per Morton Feldman, Aphex Twin e molti altri: nove pagine del novecento a cavallo tra la musica colta, sperimentale, il minimalismo e l’elettronica. Un concerto per eseguire dal vivo il loro album Statea, edito da InFiné nel 2016. Ecco perché non è facile esprimersi liberamente riguardo al risultato di questo incontro tra artisti e concezioni artistiche così differenti. Si può passare semplicemente per intellettuali (nel senso più negativo del termine) attaccati a un’idea di musica pura, capace di vivere solo nel regno delle idee senza possibili contaminazioni con quello reale. In realtà, quello che più mi aveva incuriosito e affascinato è stata proprio la promessa di un’ibridazione. Stiamo parlando, infatti, di brani e artisti legati a una concezione estetica dell’opera abbastanza fluida e malleabile che si presta perfettamente a collage, intrecci e incastri tra elementi anche molto differenti tra di loro: appunto il suono acustico e naturale del pianoforte e quello acido dell’elettronica. Non stiamo certo parlando di Beethoven che infonde un’aura di sacralità eroica a tutto ciò che pensa e scrive tale da rendere blasfema l’idea di uno smembramento dell’unità originaria. Non è stata quindi l’idea in sé a disturbarmi ma il risultato che non ha soddisfatto le mie aspettative. Credevo di trovare molto più in questo intreccio che avrebbe potuto essere davvero mozzafiato.
Eppure era pieno di ascoltatori entusiasti che applaudivano a ogni piè sospinto quando Murcof inondava la sala Petrassi di suoni elettronici. E questo perché, credo, non fossero lì per ascoltare la crasi tra due mondi ma per sentire suonare il loro idolo. La parte pianistica era totalmente in ombra e Vanessa Wagner quasi superflua. L’ascolto non era orientato alla mescolanza di elementi differenti ma a quello che Murcof aveva da dire e, anzi, credo che non conoscere i lavori originali da cui partiva la sperimentazione, aiutasse particolarmente a godere di quell’ascolto. Ma io quei brani li conoscevo eccome e il modo in cui sono stati trattati non mi sembra lusinghiero per nulla. Se si sceglie di dare la propria versione di lavori come Variations for the Healing of Arinushka di Arvo Pärt, Musica Ricercata n° 2 di György Ligeti o Metamorphosis n°2 di Philipp Glass, bisogna porsi sullo stesso livello pur se si guarda da punti di vista differenti. E credo che Murcof non l’abbia fatto anzi penso non si sia posto proprio il problema: e così nelle raffinatissime sonorità e ritmiche di quei lavori sono stati interpolati ritmi dritti e ballabili, suoni acidi che andavano completamente a coprire l’acustica del pianoforte invece di arricchirla.
Ripeto, l’idea di partenza è davvero interessante e accattivante. Un’ora e mezza filata in cui brani molto significativi per la letteratura pianistica del novecento vengono smembrati e intrecciati a una controparte elettronica ha del potenziale immenso. Il problema è che, man mano che si scopre in cosa consiste questa rilettura si rimane delusi. Il tocco delicato e caldo di Vanessa Wagner diventa un mero input iniziale e nulla più. Dell’intreccio promesso non si trovano tracce: la vera protagonista assoluta è l’elettronica ed è questo che ha smorzato il mio entusiasmo. Non è una rilettura ma un concerto di Murcof ben mascherato. I brani, infatti, perdono totalmente la loro identità e non perché ricreati in un nuovo paesaggio mentale elettronico, dato che sono stati totalmente lasciati indietro. Non tutti, a essere sinceri. Per esempio In a Landscape di John Cage viene eseguito dalla Wagner con una lieve sonorizzazione elettronica per poi passare il testimone completamente a Murcof che riprende alcuni pattern melodico ritmici e li fa emergere di tanto in tanto nel suo personale discorso musicale. In altri casi, invece, il brano è solo accennato e poi lasciato completamente indietro. In Pärt, per esempio, dalle atmosfere sospese e dilatate si passa quasi a un ballabile da discoteca con elementi ricorrenti abbastanza spiccioli. Ma il brano che più di tutti perde la sua forza espressiva, nella sua estrema ma densa semplicità, è April 14th di Aphex Twin, tratto dall’album Drukqs già di per sé un intreccio (ben riuscito!) di elettronica e pianoforte. Quella sorta di cantilena cullante viene spezzata: l’elettronica fa ascoltare la parte melodica deformata e rallentata di molto mentre la Wagner esegue l’accompagnamento. Il timbro delicato dell’originale, che sembra quasi la melodia di un carillon, è stato ispessito tanto da risultare pesante nella versione data da Murcoff. E si potrebbe andare avanti. In sostanza, per chi era lì ad ascoltare Murcof senza sapere nulla dell’operazione di ibridazione, la cosa era perfettamente godibile: forse si poteva stare meglio all’aperto con qualcosa da bere in mano e la possibilità di ballare, invece che nella Sala Petrassi dell’Auditorium. Se, invece, come nel mio caso, si andava alla ricerca di sperimentazione e ibridazione, sperando nella possibilità di ascoltare una lettura trasversale di brani già di per sé estremamente interessanti, si è rimasti a bocca asciutta. Di tutto questo, secondo me, non c’era la minima traccia.
L’idea che alla fine mi sono fatta è che si tratti più di un’operazione commerciale che di una vera e sana voglia di sperimentare qualcosa di nuovo. Di leggere davvero in quelle musiche con occhi (e orecchie) attenti al non detto, al potenziale insito al loro interno. Questo sarebbe stato un concerto all’altezza delle aspettative create mentre quello di domenica non lo è stato per niente (almeno per me).
Silvia D’Anzelmo