L’utile Idiota: la riscoperta di Wajnberg inizia da Salisburgo
di Alessandro Tommasi - 2 Settembre 2024
Preannunciata come una delle produzioni dell’anno al Festival di Salzburg, ha confermato le aspettative L’Idiota di Mojsze Wajnberg, più noto come Mieczysław Weinberg ma anche Moisej Samuilovič Vajnberg – il gentil lettore si diletti con l’incubo diffuso delle traslitterazioni dal russo di compositori sovietici ma non russi, ché Weinberg nacque a Varsavia da famiglia di origini moldave per poi trasferirsi in Bielorussia e più tardi in Russia.
L’Idiota, tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, fu composto già tra il 1986 e il 1987, ma è giunto all’attenzione internazionale per la prima volta solo nel 2013, quando venne data la prima esecuzione integrale al Teatro di Mannheim con la direzione di Thomas Sanderling, una prima che valse alla produzione l’elezione a “Prima dell’anno” dal magazine tedesco opernwelt. Le ragioni del successo sono presto dette: la parte sinfonica è scritta con mano sicura e guizzi di intuizione e, seppur con gli inevitabili tagli, l’opera si appoggia su un solido libretto di Aleksander Medvedev, che riesce a restituire il respiro del romanzo. Compositore e librettista intervengono sul testo di Dostoevskij solo dando maggior peso alla figura di Ljebedjev, da patetico parassita a burattinaio della sventura altrui, e asciugando buona parte del rapporto del principe Myškin con la famiglia Epančin per concentrare il focus dell’azione sul triangolo Myškin-Nastas’ja-Rogožin, con buona pace di chi come me a 16 anni s’è innamorato di Aglaja Epančina – per inciso, non esattamente una role model per una relazione sana ed equilibrata.
Il risultato degli sforzi di Wajnberg e Medvedev è affascinante: una sorta di opera-romanzo in equilibrio tra esigenze del palco e necessità della prosa, che si colloca tra le opere Il giocatore e Guerra e Pace di Prokof’ev, senza avere l’unità e la struttura teatralmente ben direzionata della prima, ma senza optare per una concezione a quadri come la seconda. Sia chiaro, al modello di Prokof’ev e Šostakovič Wajnberg è evidentemente debitore, ma rimane ben centrato e assai personale il modo in cui il compositore polacco intesse l’opera di rimandi per sostenere una narrazione scorrevole, che grazie ad un declamato mai troppo enfatico dà pieno risalto ai meravigliosi dialoghi, il vero fulcro del romanzo di Dostoevskij), senza negarsi parentesi più liriche nei monologhi di Myškin, né momenti di estremo impatto come l’impressionante attacco epilettico del principe o il rarefatto spegnersi nel nulla nel magnifico finale, soffusamente illuminato da una musica che non esiterei a definire genuinamente bella.
Non è un caso che, soprattutto grazie alle sue opere cameristiche e orchestrali, la musica di Wajnberg sia oggetto negli ultimi anni di una decisa riscoperta, anche grazie all’impegno di Mirga Gražinytė-Tyla, celebre direttrice (si può ancora dire in Italia?) lituana che non ci si stupisce dunque di trovare sul podio dei Wiener Philharmoniker di questa produzione salisburghese. Peccato che, nonostante le premesse, proprio la direzione sia stata la parte un po’ meno riuscita. Non che sia stata una cattiva esecuzione: alcuni punti raggiungevano picchi di intensità notevoli e in generale i Wiener Philharmoniker hanno dato pieno sfoggio non solo del loro fenomenale suono, ma anche di una certa convinzione nell’affrontare un autore che non è decisamente nel loro repertorio. Davanti a loro Gražinytė-Tyla sembrava però in difficoltà. Il gesto, elegante e ben condotto, mi è più volte sembrato ricalcare una coreografia un po’ studiata, un po’ improvvisata, spesso sconnessa dalla materia musicale e non di rado irregolare e poco chiara nella scansione metrica. I punti più energici e muscolari riescono in realtà piuttosto bene, la direttrice riesce ad accumulare tensione e a rilasciarla con ottima elasticità, e nelle sfumature più diafane trova bei colori, ma per tutta l’opera non sono riuscito a scrollarmi di dosso una sensazione di genericità: un’ottima performance, eseguita con sicurezza da una grande orchestra, ma senza mai veramente scavare alla ricerca di ciò che distingue la musica di Wajnberg dai suoi modelli.
In generale i Wiener Philharmoniker hanno dato pieno sfoggio non solo del loro fenomenale suono, ma anche di una certa convinzione nell’affrontare un autore che non è decisamente nel loro repertorio
Se l’esecuzione è stata di rango ma poco in profondità, altissimo è stato il livello tenuto da cast e regia. Quest’ultima vedeva il team creativo guidato da Krzysztof Warlikowski, che è riuscito a costruire meravigliosamente un ritmo narrativo polifonico ma senza horror vacui, sfruttando con agio gli inusuali spazi della Felsenreitschule evitando sia affollate e schizofreniche controscene, sia il vasto oceano del nulla minimalista. Particolarmente impressionante è stato il lavoro condotto con i cantanti e in particolare il tenore Bogdan Volkov, che nei panni del principe Myškin ha completamente dominato il palco per tutte le oltre tre ore di spettacolo. La voce dall’emissione chiara passava benissimo sulla densa parte sinfonica, mentre timbro e fraseggio si piegavano a tutti i fantastici voli pindarici alternando il candore a una tensione spasmodica, che è esplosa nella menzionata scena dell’attacco epilettico, in cui la recitazione di Volkov, unita alla musica di Wajnberg, ha raggiunto un apice di quelli che non ci si scorda per la vita.
Molto buono anche il resto del cast, nonostante una indisposta Ausrine Stundyte (annunciata a inizio recita), impegnata nel complesso ruolo di Nastas’ja Filippovna. Ottimo il Rogožin di Vladislav Sulimsky, truce senza mai scadere nell’eccesso grottesco, fino al finale sul limine del delirio. Notevole la vocalità di Xenia Pskarz Thomas, anche se non sempre controllatissima, che ha un po’ sofferto della riduzione di Aglaja ad una semplice figlia di buona famiglia dai mille capricci, svuotata delle sfaccettature che compositore e librettista sono riusciti a mantenere per il trio dei protagonisti. Molto bene Iurii Samoilov, un Lebedjev mefistofelico e oscuro, e solidissimo tutto il resto del cast dei comprimari, tra cui svetta una magnifica Generalessa Epančina interpretata da Margarita Nekrasova e la solida prova di Pavol Breslik (Gavrila). Caldi applausi per tutti, con vere ovazioni per Volkov, hanno coronato una produzione grazie alla quale spero davvero si possa vedere sempre più Wajnberg nelle stagioni europee, che sia con L’idiota, con La passeggera o con la sua intensa produzione orchestrale e cameristica.