Dudamel e Beethoven a Santa Cecilia
di Michela Marchiana - 22 Giugno 2019
l’incontro-scontro tra titani
Nelle tre giornate del 15, 16 e 17 giugno l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con la sua orchestra, ha ospitato uno dei giganti viventi della direzione, un nome che è nel pensiero di tutti, un personaggio inconfondibile, Gustavo Dudamel.
Il programma prevedeva composizioni di un genio altrettanto acclamato, altrettanto inconfondibile, Ludwig van Beethoven.
Con una full immersion nel periodo eroico beethoveniano, il concerto era diviso in due parti, la prima fatta di Ouverture Egmont e Sinfonia n. 4, e la seconda di Sinfonia n. 7.
Nel 1787 Johann Wolfgang Goethe prese a modello il conte Egmont, servitore di Carlo V, per il personaggio della sua omonima tragedia in 5 atti. Circa 20 anni dopo Beethoven spedì allo scrittore la partitura della sua messa in musica di Egmont, chiedendo approvazione o disapprovazione del proprio operato, in relazione ai tratti del personaggio della tragedia. Fu un successo, Goethe disse al compositore che la sua musica rispettava preziosamente i caratteri del personaggio, eroismo, desiderio di libertà e spirito libero, sereno, che erano così cari al suo creatore. In musica questi tratti sono stati trasformati in mescolanza di suoni gravi e acuti insieme, in linee musicali più ritmiche e incisive ed altre più distese e melodiche, in alternanza di timbriche e caratteri, che oscillano dal pianissimo al fortissimo sforzando, dal modo minore, simbolo di pathos, della gravità che ha un singolo individuo nelle sorti del mondo, al modo maggiore, letteralmente la serenità messa in musica.
La Sinfonia n. 4 op. 60 è una perla di raffinatezza ed eleganza, quasi una rarità in questo periodo compositivo. La κόρη greca in mezzo ai titani, così ne parlava Schumann, perché la quarta sinfonia beethoveniana risultava leggera e delicata rispetto alla politica dell’Eroica e alla gravità della Quinta. Fatta dei tipici quattro movimenti è una sinfonia che all’ascoltatore d’oggi fa ricordare la classica forma haydniana, con un’introduzione lenta per quanto riguarda il primo tempo e senza stravolgimenti architettonici di sorta, mentre, ai tempi, fu tra le più apprezzate dai giovani spiriti romantici di Schubert e Mendelssohn, e Weber ne parlò in toni di una sinfonia “rivoluzionaria”.
Ultima in programma la Sinfonia n. 7 op. 92, è, come si può dire della Quinta Sinfonia -se non di più- la Sinfonia del ritmo. Il “gesto” beethoveniano di cui parla Giovanni Bietti (quel “non-tema” su cui il genio di Bonn costruisce gli imperi) è qui il ritmo in senso lato, non una singola cellula ripetuta o dei frammenti. Beethoven per comporre la Sinfonia ha utilizzato come punto di partenza, di percorrenza e di arrivo il ritmo (siano indicative ai lettori le parole di Richard Wagner su questa composizione, che dice che “Questa sinfonia è l’apoteosi della danza. È la dama nella sua massima essenza, l’azione del corpo tradotta in suoni per così dire ideali”).
L’ultima delle tre giornate nella maestosa sala di Santa Cecilia ha riservato ai suoi ascoltatori un concerto interessante, con spunti da cogliere per rifletterci su, un concerto senza ombra di dubbio molto d’effetto e scenico. Le aspettative in sala erano altissime, l’orchestra si è dimostrata, come al solito, all’altezza del suo pubblico, mentre la direzione di Dudamel ha animato pareri contrastanti.
Partendo dal generale per scendere poi nel particolare, la prima perplessità riguarda la scelta dei tempi, proprio metronomicamente parlando, tutto è risultato qualche tacca di metronomo più su rispetto all’abitudine, ma anche, a gusto personale, rispetto alle necessità musicali scritte in partitura. Il secondo dubbio in generale riguarda il gesto del direttore venezuelano, che l’orchestra ha seguito alla lettera, che è stato tutto il tempo molto morbido, molto rotondo, capace certo di rendere un suono nell’orchestra speciale e sognante, ma in momenti spigolosi è mancata un po’ una bacchetta incisiva, “quadrata”. Il terzo problema è stato il carattere e lo spirito danzante con cui Dudamel ha affrontato (e affronta le sue direzioni in generale) Beethoven. Tutto si può ballare, certamente, e la suggestione della musica in sé fa muovere, trascina gli animi, ma in un repertorio così dovrebbe prevalere l’intensità e la profondità sul saltello di danza divertito.
Scendendo nel dettaglio, il pezzo dei tre meglio riuscito è stato senza dubbio l’ouverture Egmont. L’attacco dell’accordo iniziale all’unisono è stato intenso, profondo, il direttore venezuelano ha tenuto il suono lungo tutto il suo corpo, dalla punta della bacchetta fino ai piedi, l’orchestra è sprofondata in così tanta intensità, con un suono tale da togliere il fiato ai suoi ascoltatori, e così è stato per tutto il resto della composizione. Nei momenti tragici di pathos il tutto era animato da un serrato e incalzante dialogo tra le sezioni. Spiccano i colpi di timpani come colpi di cannone, dritti allo stomaco, a colpire le emozioni, in una dinamica potentissima, leggermente sopra l’orchestra sicuramente per scelta del direttore.
Per quanto riguarda entrambe le sinfonie, la scelta dei tempi, come detto poco fa, è stata azzardata, per un risultato a volte troppo brioso e leggero, ma entrambe erano omogenee, tutti i movimenti si sono coesi tra loro in maniera brillante e di impatto.
Chapeau agli orchestrali per il quarto tempo della Quarta Sinfonia, per aver mantenuto il controllo pure in un ritmo così veloce, incalzante e frenetico.
Più che nel resto, la mancanza di cambio di suono a livello interpretativo si è sentita nella Settima Sinfonia, dove, in punti elegiaci e sofferti, il suono morbido e raffinato stonava leggermente.
Due pecche non troppo piccole in questa sinfonia. Il secondo movimento era veramente troppo veloce per ascoltare bene ogni singola nota e pendere dalle labbra degli orchestrali, impazienti di ascoltare il resto, e il ritmo terzinato (invece di strette e serrate coppie di croma con punto-semicroma) ed eccessivamente danzante del terzo movimento, meno nello Scherzo e più nel Trio, che a tratti sembrava un tempo di valzer viennese, alla Strauss.
Nonostante tutto il concerto meritava in ogni sfumatura di essere ascoltato, l’orchestra di Santa Cecilia si rivela sempre una delle migliori orchestre viventi, e avere un ospite d’eccezione come Gustavo Dudamel, che non veniva in Italia da molto tempo, ha reso un concerto un evento in tutti i sensi, un’occasione speciale, una condivisione di modi nuovi, giovani, originali di vivere e interpretare la musica.
Michela Marchiana