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I Cerimoniali Ritmici

di Silvia D'Anzelmo - 28 Settembre 2019

di Blow Up Percussion

Abbiamo incontrato Alessandro Di Giulio, Pietro Pompei, Aurelio Scudetti e Flavio Tanzi o, in una sola espressione, i Blow Up Percussion. Questo collettivo di percussionisti romani ci ha raccontato il Festival Cerimoniali Ritmici, ovvero il manifesto della sua estetica musicale.

Le percussioni sono state le grandi protagoniste della musica del Novecento. Ci sono molti modi e stili a cui ispirarsi. Voi quale avete scelto di seguire e da quale idea è nato l’Ensemble Blow Up Percussion?
Il nostro è stato un percorso che ha preso una sua forma e dimensione nel corso degli anni. È iniziato nelle aule del Conservatorio di Frosinone, nella classe del Maestro Antonio Caggiano e di Gianluca Ruggeri. L’Ars Ludi è stato per noi una guida di grande importanza. In conservatorio, infatti, insegnano come diventare professore d’orchestra, come eseguire brani della tradizione sinfonica o lirica. Nell’ultimo secolo, però, le percussioni hanno avuto un incredibile sviluppo grazie a compositori come John Cage, Karlheinz Stockhausen, Iannis Xenakis o i minimalisti americani. Noi tutti abbiamo avuto la fortuna di fare tantissima esperienza in orchestra con grandi direttori e grandi solisti. Ma presto ci siamo resi conto della grande differenza che c’è tra suonare in orchestra opere meravigliose di autori come Igor Stravinskij, Sergej Prokofiev o Edgar Varèse e fare musica da camera. Questo tipo di repertorio che mette al centro la percussione ha catturato la nostra attenzione permettendoci di sentirci maggiormente a nostro agio. Noi siamo innanzitutto un gruppo di amici, adoriamo suonare insieme e nel corso degli anni abbiamo cominciato a stringere rapporti diretti con i compositori della nostra generazione: questo ci ha permesso di costruire qualcosa di nuovo ed è soprattutto questa la parte interessante del nostro lavoro. Per quanto riguarda il repertorio già affermato, ci sentiamo molto vicini ai minimalisti e ai post-minimalisti americani, siamo partiti da lì. Rimanere nell’ambito orchestrale, per noi, sarebbe stata una costrizione, in questo modo, invece, siamo riusciti a trovare una nostra personale voce.

Che differenza c’è tra affrontare un repertorio contemporaneo già assestato, com’è il caso dei minimalisti americani, ed eseguire brani inediti sotto la diretta supervisione del compositore?
Per i brani considerati oramai parte del repertorio ci sono molte esecuzioni che hanno fatto storia. Quindi, da un lato, è più semplice affrontarli: su youtube si ha la possibilità di ascoltare versioni molto differenti e scegliere da quale farsi ispirare. Insomma, la strada è già traccia, anche se noi tentiamo sempre di mettere del nostro proprio come fanno un solista, un direttore o un’orchestra quando interpretano lavori del passato: la musica è scritta ma l’esecuzione può cambiare di volta in volta in base alla scelta dei timbri, dei battenti, il numero delle ripetizioni o dei tempi. Con il passare del tempo, le scelte fatte cominciano a identificare l’ensemble con un proprio suono e delle proprie caratteristiche anche nell’esecuzione di brani come Drumming di Steve Reich che è stato suonato una miriade di volte in tutto il mondo. Dopo aver studiato le versioni di altri esecutori, tentiamo di fare tabula rasa e cerchiamo di capire come affrontare brani entrati oramai nella tradizione in maniera davvero personale. Le esecuzioni esistenti, infatti, rischiano di intrappolarti in un solco già tracciato che non permette di ricercare una voce propria.

Come si rapporta, invece, il Blow Up a brani inediti?
In questo caso c’è, sicuramente, un lavoro interpretativo e di ricerca del suono maggiore ed è un operazione che viene affrontata insieme al compositore. Ce ne sono alcuni che hanno un’idea chiara di quello che vogliono e sanno precisamente come indirizzarti durante le prove; altri, invece, hanno un’immagine più vaga e si affidano all’ensemble per farla venir fuori compiutamente. La cosa che crediamo sia fondamentale è comprendere quale tipo di repertorio è più adatto al nostro ensemble, alle nostre qualità tecniche e musicali. Fortunatamente abbiamo sempre avuto l’opportunità di scegliere con quali compositori lavorare. Per il Festival Cerimoniali Ritmici, per esempio, siamo noi che abbiamo scelto quali compositori coinvolgere. Lavorare su nuove creazioni, infatti, ci fa sentire liberi ma dobbiamo sentirci anche a nostro agio per poterlo fare al meglio e scegliere compositori con cui si condividono idee estetiche aiuta moltissimo. Costruire da zero qualcosa di nuovo, insieme al compositore, ha qualcosa di magico: è un lavoro che va di pari passo e, anche se i ruoli rimangono ben definiti, si tende a collaborare, a provare, a giocare con le idee così da svilupparle quello che si ha in mente. E questo è molto diverso rispetto all’interpretazione di un brano oramai entrato nel repertorio. In quel caso siamo noi a dare inizio alle esecuzioni di riferimento perché abbiamo lavorato a stretto contatto con il compositore che ha pensato e scritto per noi quella partitura. Altra cosa molto bella dell’eseguire brani inediti è l’ampliamento della tavolozza timbrica. Nel caso del Festival Cerimoniali Ritmici, abbiamo sperimentato diverse sonorità che non vengono fuori necessariamente da strumenti musicali: abbiamo usato lastre metalliche, campane giocattolo, conchiglie.

Vi va di raccontare cos’è Cerimoniali Ritmici?
Il Festival Cerimoniali Ritmici è una tavolozza piena di colori diversi: si passa dal post-minimalismo al teatro musicale della seconda avanguardia attraversando luci, sussurri, campanelle… Questa tavolozza estremamente variegata non vuole, però, essere dispersiva: tutto confluisce in un unico grande flusso. Finalmente abbiamo trovato la nostra voce e quando affrontiamo un lavoro (nuovo o di repertorio, in questo caso non fa differenza) sappiamo già cosa vogliamo esprimere e come farlo. All’inizio siamo partiti, come tutti, per imitazione delle esecuzioni che ci sembravano più interessanti, ora invece sentiamo di poter dare un’impronta senza guardare altrove. E questo Festival è stato per noi un esame di maturità: Blow Up Percussion, infatti, esiste già da qualche anno, abbiamo molti concerti in rassegne importanti nel nostro bagaglio ma organizzare da zero un festival è tutt’altra cosa. Scegliere cosa eseguire ha significato, per noi, ragionare sulla nostra identità di gruppo e identificare quali idee estetiche ci rappresentano. Questo Festival è il nostro manifesto, la nostra dichiarazione di intenti. Ci siamo dovuti mettere in gioco sotto ogni punto di vista, a partire da quello organizzativo: ci siamo sentiti dei matti a proporre tre concerti di musica contemporanea in una sola settimana, per un totale di undici brani dei quali solo due facevano già parte del nostro repertorio. Per il resto, si trattava di prime esecuzioni quindi abbiamo lavorato a stretto contatto con gli autori che noi stessi abbiamo scelto di coinvolgere. E questi brani sono ciò che ci caratterizza e ci identifica maggiormente.

Cosa significa essere un ensemble di percussioni in Italia?
Sostenere un ensemble di percussioni di questi tempi in Italia e a Roma è molto difficile anzi è da folli. Dobbiamo essere organizzatori, fare ricerca, studiare, eseguire. Abbiamo bisogno di spazi, finanziamenti e una miriade di altre cose per cui se non si ha davvero la passione a un certo punto si sente il bisogno di fermarsi. Non si hanno agevolazioni né rassicurazioni di alcun tipo ma noi andiamo avanti lo stesso perché la scuola italiana di percussioni, in questi anni, sta acquisendo un’importanza e una rilevanza a livello internazionale. Basta considerare che uno dei migliori percussionisti al mondo è un italiano, Simone Rubino. Allora noi vogliamo continuare su questa strada ricercando un suono che sia internazionale ma risponda anche al gusto italiano e si identifichi con esso.

Silvia D’Anzelmo

Foto prese dalla pagina ufficiale di Blow Up Percussion

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