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“In colorati riflessi noi possediamo la vita”, Schumann ri-crea Goethe nelle Faustszenen

di Valerio Sebastiani - 29 Ottobre 2017

Le Scene dal Faust riportate in musica da Robert Schumann costituiscono un esempio di incredibile vitalità del complesso rapporto che si sviluppò e approfondì nella seconda metà dell’ottocento tra musica, e letteratura.


Schumann fu un compositore attentissimo a questi rapporti sempre mantenendo con orgoglio il punto di vista del compositore. Ogni opera alla quale approcciò, da Genoveva al Das Paradies und die Peri, da Manfred alle Fastszenen, mantenne il testo originale, andando un po’ fuori norma rispetto a quanto avveniva tra i compositori e i librettisti della sua generazione. È evidente come la sua idea di musica dovesse realizzare un “senso moderno” di costruire un’opera, un dramma musicale. L’idea principe: rendere capace la musica di risvegliare elementi drammaturgici ed espressivi. La sintassi quadrata della forma chiusa non era più necessaria quindi, e alle arie e ai duetti, Schumann preferì la frammentarietà dei monologhi e dei dialoghi. La teatralità tuttavia era tutta racchiusa nella musica, per questo non si può parlare di opera tout-court bensì di dramma musicale (o musicato). Il Faust è in questo senso l’apice raggiunto da Schumann in queste sperimentazioni, e tramite questo articolo proveremo a spiegarne le ragione interne, tanto quanto quelle esterne e dunque filosofiche.

Per una forzata economia di esposizione non potremo chiosare ogni aspetto e ogni momento di questa opera multiforme, tuttavia si affronteranno i momenti salienti, quelli veramente indimenticabili e costitutivi, che riflettono maggiormente la poetica schumanniana del momento.

Lavori in corso

Robert Schumann mise le mani sul Faust goethiano nel 1844, durante il viaggio in Russia durante il quale accompagnò la moglie Clara Wieck in tournée, sappiamo tuttavia che l’idea di un’opera sul Faust già gli era balenata in mente nel 1840. Fu nel periodo della sua degenza e indisposizione dovuta, a quanto pare, ai primi sintomi della sifilide nervosa che lo portò alla pazzia, che lesse (probabilmente ri-lesse) i versi conclusivi della Faust Verklärung. La chiusura fu il punto di partenza. Anche noi inizieremo dalla fine, concentrandoci in seguito su dei punti cardine del complesso sistema delle Scene, forse tralasciando qualcosa, ma riconsegnando un minimo la volontà (manifesta e non) compositiva di Robert Schumann.

Come era consuetudine nel processo compositivo di Schumann, nelle prime battute dell’elaborazione della musica non troviamo alcuna sistematicità. Strati e strati di abbozzi iniziarono ad essere stesi, idee germinative, scheletri tra le cui ossa si iniziano comunque a formare organismi funzionanti, che pulsano vita. Pertanto dopo aver registrato il testo nei suoi quaderni di appunti, la sezione finale del Faust (in particolare il Coro Mistico) rimane ferma fino al 1847, anno in cui, tra aprile e luglio, viene non solo completata ma anche ripensata e riscritta più e più volte. Schumann stesso in una lettera all’amico Whistling parla con apprensione delle impressioni del pubblico sulle versioni del Coro Mistico:

L’ultimo coro «Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan», sul quale il compositore è caduto alcune volte in profonda depressione e che ha scritto più volte ritenendo non fosse ancora quello giusto, ha quasi suscitato l’impressione maggiore nella sua prima veste – in modo del tutto insperato.

Frammentarietà e discontinuità nel lavoro degli abbozzi: le trascrizioni degli schizzi di Schumann lasciano ben intendere il processo creativo che Schumann attivava per le sue opere. Questo modo di comporre non è chiaramente una cometa: questo percorso di scrittura frammentario, episodico, stratificato è perfettamente coerente con il momento storico medio ottocentesco che vede l’Opera non più nella sua unicità e perfezione compiuta, ma anche nel suo processo, nella sua manifestazione di aporie e provvisorietà. Schumann ha lasciato tantissime tracce della sua creatività: tanto erano importanti i momenti propedeutici alla “confezione” dell’opera, quanto era importante il pensiero che sottostava a questi momenti. Chiaramente non possiamo intendere questi schizzi come un’opera, stricto sensu, ma presi nella loro complessità forniscono quel sostrato di intenzioni, pensieri, idee che vanno a completare l’opera finale. Questa, nel caso del Faust in maniera particolare, non appare comunque un prodotto che può essere definito unitario.

L’eterno femmineo ci conduce verso l’alto.

Da una parte Adorno che lo definì un “pezzo in pezzi”; dall’altra la natura stessa della ricerca  spasmodica di conoscenza di Faust, che non può che accettare l’idea finale di un caleidoscopio dell’essere stesso, conoscibile in miriadi di sfaccettature: “Am farb’gen Abglanz haben wir das Leben”, in colorati riflessi noi possediamo la vita, come dichiara Faust nel punto centrale delle Scene (precisamente la n°4). Curiose congiunzioni di forma e contenuto che trovano familiarità nel frammentario, nell’episodico. Oltretutto solo grazie alla spinta propulsiva data dall’aver chiaro e compiuto il cosmo armonico e la sua sinergia con il testo poetico dell’ultima scena, che Schumann potrà comporre il resto del dramma in musica. Le singole scene tratte dal Faust troveranno appunto sintesi proprio in questa finale – che non a caso nella sua struttura a sette quadri può contenere idealmente l’intero Faust I – coagulando tutto il ginepraio filosofico e musicale dell’intera opera. Come è già noto Schumann compone la più efficace descrizione musicale degli impenetrabili versi conclusivi del Faust.

Alles Vergängliche
                                   Ogni cosa che passa                  

Ist nur Gleichnis;
                                              È solo una figura;                   

Das Unzulängliche,
                                          Quello che è inattingibile

Hier wird’s Ereignis;
                                         Qui diviene evidenza

Das Unbeschreibliche,
                                     Quello che è indicibile,

Hier ist’s getan;
                                                qui si è adempiuto

Das Ewig-Weibliche
                                         L’Eterno Elemento Femminile

Zieht uns hinan
                                                 ci trae [muove] verso l’alto.

(si fa riferimento alla traduzione di Franco Fortini in J.W.GOETHE, Faust, Meridiani Mondadori, Milano, 1982)

Sotto il peso del dilemma fichtiano dell’autoaffermazione di sé e della caducità del simbolo, della sembianza, del riflesso (Gleichnis), si consuma l’elemento “tragico” della visione filosofica dello Schumann del Manfred e del Faust: l’impossibilità di una redenzione terrena (che in Manfred ricordiamo è esemplificata dall’agghiacciante affermazione dell’eroe byroniano “Non è difficile morire”), raggiungibile solo in quella celeste. Nell’interpretazione di Franco Fortini del Faust goethiano ciò che è Vergängliche, ovvero transeunte (e quindi terreno) che diviene simbolo, immagine allegorica, non ha alcuna radice di concezione cristiana. Sembrerebbe invece un ritorno all’eguale, nella circolarità dell’esistente (Kreis, come lo intende Mefistofele).

Difatti, ciò che Schumann compone per il Coro Mistico, è un prodotto del “contrasto tra arcaismo e modernità sotto forma di dialettica tra il sacro e il profano” (John Daverio, Robert Schumann. Araldo di una nuova era poetica cit. p. 421), è il punto di scontro tra la ricerca di conoscenza di Faust che l’ha condotto all’annullamento non solo di sé ma anche della donna amata – questo un fatto eminentemente terreno – e la luce della redenzione che non è riuscito ad ottenere sulla terra. Dal punto di vista formale questo vuol dire dialettica tra gli artifici creativi dell’ars combinatoria (sacro) e una musica drammatica riconducibile all’opera (profano). Più che un acquietarsi su una concezione ciclica, Schumann armonizza le due sfere, quella terrena incapace di redimere l’uomo e quella celeste. Tuttavia è solo grazie all’opera terrena che Faust viene trasfigurato e può incontrare nuovamente Gretchen…

Questo è chiarissimo nel momento culminante dello Schlusschor, in cui il soprano si stacca dal fugato dell’intero coro e da un Do acuto a battuta 180 (si fa riferimento all’edizione Robert Schumann, Scenen aus Goethe’s Faust / für Solostimmen, Chor und Orchester / von Robert Schumann. In RS’s WERKE hrsg. Clara Wieck, Breitkopf & Härtel, Leipzig) intraprende una scala discendente che giunge fino al Do dell’ottava inferiore. Come nota Daverio, questo gesto musicale non è solo operistico ma rivela anche un contesto contrappuntistico dal momento che la linea del soprano è un inversione dei controsoggetti in “stile antico” del Coro che iniziano a battuta 95. Da questo momento in poi tuto l’organico strumentale e vocale si sfibrerà in un diminuendo progressivo, fino al “pianissimo” dell’ultima sillaba dell’ormai celeberrimo verso “Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan”. Questo verso meritò un’attenzione molto particolare da parte di Schumann, il quale lo adoperò per il fugato centrale del Coro, prima dell’intenso cromatismo sul “das Unberschreibliche, hier ist’s gethan”. È da sottolineare come Schumann crei un’impalcatura in Fa maggiore – relativa del sinistro Re minore con cui concluse la tragica scena della pazzia di Gretchen – a un discorso musicale che inizia in Do, indugiando anche sul Re minore. Un’ambivalenza, che nuovamente, bisogna ascrivere alla grande potenza drammatica di questo Chorus Mysticus, ma anche alla ricezione e alla elaborazione del Faust goethiano, che sembra essere più legato a una concezione dell’immanenza, più che della trascendenza. Curioso notare come tutti i compositori che si sono voluti cimentare con questo macigno della cultura europea, Mahler in primis, abbiano dovuto superare a un certo punto l’abnorme scoglio della secolarizzazione del Faust, della sua appartenenza più che alla rosa dei beati, alla ruota dei dannati della terra. Le stesse ultime battute del Coro Mistico non lasciano ben sperare  nemmeno in una redenzione celestiale: come detto sopra il doppio coro e i quattro solisti si sfibrano, voce dopo voce, facendo sparire l’estatica visione in un organico strumentale annichilito, seppure in tonalità maggiore.

Un fatto estremamente moderno.

In questo particolare momento a cavallo della metà dell’800, particolare tanto per il nostro compositore, quanto per la società europea, abbiamo dunque compreso come Schumann approfondisca in maniera molto intensa tutti gli elementi drammatici che stavano emergendo con la composizione del Das Paradise und Die Peri e che verranno ri-approfonditi attraverso il Manfred. Comune denominatore: l’idea della redenzione attraverso l’opera dell’essere umano in terra. Chiaramente le connessioni tra queste opere si estendono ad altre caratteristiche difficili da affrontare in questa sede, basti sapere però la macro-questione riguarda strettamente l’evoluzione del dramma moderno, che iniziava a perdere quel senso di unità dialettica nei dialoghi e di grande narrazione, per far posto alla crisi totale del dialogo e all’incombente follia portata nei personaggi dal passato: Schumann si inserisce in questi cambiamenti che stavano solo per prepararsi e che avrebbero portato nel teatro di parola a Ibsen, Strindberg, con una grande frammentarietà del discorso musicale, e nei suoi drammi in musica con la gestione di personaggi il cui passato riemerge in forma di trauma psichico. Centrale in questo senso la terza scena dell’Erste Abtheilung estrapolata dal Faust I goethiano, in cui Gretchen (Margherita nella traduzione italiana) assiste in un duomo al un coro che intona un Requiem per la morte della madre, avvelenata dalla stessa ragazza plagiata da Faust. La musica che ci consegna Schumann è estremamente drammatica, sicuramente con influssi dalla Schaueroper e dalle sue tinte fosche, spettrali e grottesche. Ma è anche espressivista ante-litteram. Il rezitativischer Gesang del Boser Geist (spirito maligno) che appare nelle allucinazioni di Gretchen si sovrappone e completa i lamenti ansiosi della ragazza, sconvolta dai sensi di colpa e dal dolore, e ne mina costantemente la stabilità fino all’apice di una climax, in cui esplode un Dies Irae in Re minore, una parodia psicotica del Requiem mozartiano, con una predominanza perturbante di ottoni e turbinii sincopati degli archi. La scelta di inserire questo elemento “parodistico” cambia radicalmente le carte in tavola nel sistema di questo oratorio, che nell’idea di Schumann inizia a prendere le forme di un “dramma in musica”. L’espediente, come spiega John Daverio, è dei più classici, ma al tempo stesso dei più funzionali: l’introduzione orchestrale della scena, così come il dialogo allucinato tra Gretchen e il Boser Geist sono sostenuti da un tetracordo minore discendente, “un gesto tipicamente barocco”. L’arcaico diventa novità per trovare una mediazione tra un conflitto quasi insuperabile tra musica da chiesa e musica operistica.

Al di là dello specchio.

Nell’Abtheilung II vi è l’altra parte dello specchio. Tutta concentrata sulla parabola di vita di Faust, ne spiega i momenti chiave: il raggiungimento della consapevolezza superiore, l’accecamento, che simboleggia un fallimento tutto etico, come un Edipo moderno e la morte (o meglio, la trasfigurazione). La scena n.4 (la prima che apre il sistema II) è identificabile come la parte centrale del dramma e sicuramente è la più interessante. Si coagulano in questa infatti tutti i temi più profondi dell’universo goethiano: le relazioni tra Arte, Vita, Natura e Divinità. È la parte dialettica dell’Abtheilung I, contenitore del dramma psicologico di Gretchen, ed è il veicolo filosofico che conduce in maniera estremamente naturale alla risoluzione della Schlusscene e del Coro Mistico. Spiega cioè l’ottica tramite la quale dovremmo intendere la redenzione faustiana: solo tramite l’arte è possibile raggiungere la risoluzione di sé, la sintesi della propria vita, la trasfigurazione, anche se questo passa per terribili sofferenze, anche effettuate sull’altrui persona (la follia di Grecthen causata dalle manipolazioni di Faust). Il monologo di Faust, risvegliatosi da un sonno profondo su una collina, è quadripartito ed è un Lied estremamente elegiaco sull’incertezza dell’uomo di fronte la sublimità della natura e sull’accettazione della sua complessità e multiformità.

Il sistema armonico del suo rezitativischer Gesang si muove da si bemolle fino a re, tramite una progressione per quinte dall’effetto molto chiaro, quasi accecante. La risoluzione di questo Re maggiore non ci conduce alla tonica, il Sol, come sarebbe naturale, ma crolla in un Do, sottodominante, per spiegare l’indomita presenza della natura, la sua ineffabilità. Soltanto quando Faust si abbandona completamente all’idea che per raggiungere l’arte ci si deve abbandonare completamente al misterioso significato della natura, l’armonia diventa cangiante e si crea un’atmosfera stabile con un Mi maggiore. Il rapporto di Faust con il sublime è risolto, la sua potenza creativa acquista significato: la vita non è afferrabile se non attraverso la mediazione della sua esperienza sensibile, in altre parole come canta Faust “Am farbigen Abglanz haben wir das Leben”. In colorati riflessi noi possediamo la vita.

Frammento e sistema, allegoria e gesti parodistici, magniloquenza ed eterogeneità. Schumann rivela che finanche la musica può ambire ad una trasformazione in letteratura, usando gli stessi espedienti del romanzo. La linea stessa di sviluppo della tensione musicale del Faust lo rivela: l’arco che la musica disegna è continuamente ascendente e discendente, raggiunge un apice di tensione drammatica per poi sciogliersi in momenti elegiaci, si invola nella speculazione sulla vita e sull’arte e crolla di nuovo nell’ironico e nel parodistico.

L’arte è espressione della complessità del mondo, sembra volerci dire Schumann, e la maturità compositiva di Schumann si rivela proprio nella fusione di molteplici strumenti espressivi, non con risultati unitari e stabili, ma con un caleidoscopio di forme. La strada per la Literaturoper era ormai segnata e anche se Schumann si rivolgerà a forme più contenute, più Biedermeier e di “formato” più ridotto, come i Lieder dal Wilhelm Meister, la lezione appresa dalla composizione del Faust non potrà essere dimenticata.

Valerio Sebastiani

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Classe 1992. Laureato in Musicologia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato Pianoforte presso il Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. Ha frequentato i corsi del MaDAMM (Master in Direzione Artistica e Management Musicale) tenuti dall’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca. Attualmente è assistente alla direzione artistica dell'Accademia Filarmonica Romana e consulente scientifico della Treccani. Ha svolto attività di ricerca presso l’Akademie der Künste di Berlino e per conto dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Milita in Quinte Parallele dal 2016.

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