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Guardare l’opera: “Don Pasquale” di Donizetti

di Roberto Imparato - 27 Febbraio 2017

Spesso i grandi maestri del passato si ricordano, tra le altre cose, per il nuovo approccio a forme compositive già esistenti, che in alcuni casi ha “fatto scuola”.

È dunque la flaubertiana impassibilté della musica

a procurare l’ilarità sospesa, volatile, d’una commedia

ormai destituita da un pezzo di intenti critico – sociali:

un’ilarità con un retrogusto di rassegnazione

[Carl Dalhaus]

Nella musica strumentale un caso emblematico è quello di Claude Debussy, che sotto titoli di antica e nobile tradizione scrisse musica del tutto nuova ed anticonvenzionale. Si pensi ad esempio alla Suite Bergamasque.

Il termine ‘suite’, lo sappiamo, rimanda al XVI secolo e alla pratica delle danze di corte.  Ma per quanto riguarda ‘bergamasque’, è lecito chiedersi a cosa si deve un aggettivo così specifico, e al contempo imprecisato. La leggenda vuole che si tratti di una citazione presa a prestito nientemeno che da Shakespeare, che in Sogno di una notte di mezza estate aveva inserito questa presunta danza popolare bergamasca; più prosaicamente, la parola è la stessa usata da Verlaine nella stanza d’apertura di Clair de lune, che dà il titolo al terzo, celeberrimo brano della suite: «Votre âme est un paysage choisi / Que vont charmant masques et bergamasques». Ma a veder meglio, sono le altre tre parti quelle che meglio raccontano l’origine del titolo. Prélude, Menuet e Passpied, che oltre a costituire un fine omaggio ai grandi clavicembalisti francesi del passato, sono un gioco teatrale, un trastullo vezzoso ed infantile che porta, tra giravolte e capriole, ora una lacrima e ora un sorriso sul volto degli spettatori; richiamo elegante e malinconico alla tradizione bergamasca della Commedia dell’Arte.

Gaetano Donizetti nacque a Bergamo, il 29 Novembre 1797.

Ma il destino, si sa, a volte è curioso; e proprio a Bergamo e al gusto locale per le maschere si lega il nome di uno dei grandi maestri dell’opera italiana, che con il dramma buffo in tre atti Don Pasquale (libretto di Michele Accursi, premierato il 3 Gennaio 1843 al Théâtre-Italien di Parigi) avrebbe rivoluzionato lo schema tradizionale dei canovacci di scena. Autore di più di settanta opere, e non estraneo ad incursioni nella musica sinfonica e strumentale in genere, Gaetano Donizetti è stato per lungo tempo considerato alla stregua di un onesto gregario post – settecentesco di levatura inferiore a quella di Bellini (che non gli risparmiò critiche feroci; antagonismo questo unilaterale, visto e considerato che il bergamasco ammirava e rispettava a tal punto il catanese da scrivere per lui una Messa di Requiem in occasione della sua morte), poco più di un anello di congiunzione tra l’opera seria rossiniana e il melodramma a tinte fosche di Verdi. È alla musicologia anglosassone che si deve, in buona parte, la riscoperta negli ultimi quarant’anni di questo compositore a lungo trascurato dagli addetti ai lavori. D’altronde, in un epoca che non conosceva i diritti d’autore, la prolificità di Donizetti è stata vista con sospetto e perfino derisa da parte della critica francese (Berlioz), in quanto ritenuta figlia della necessità di rispettare scadenze più che di autentica ispirazione. Lo cosa sorprende non poco, considerate le numerose innovazioni apportate dal compositore bergamasco: l’utilizzo di un Preludio formalmente libero collegato all’introduzione del primo atto, al posto della tradizionale Sinfonia a sipario chiuso; l’invenzione del baritono “romantico” come contraltare del tenore (trovata che spianò la strada a Verdi); l’introduzione di un nuovo modello di finale d’atto, che si discosta ora dai classici concertati lenti rossiniani; la dissociazione tra piano scenico e piano musicale, quest’ultimo diventando un qualcosa di indipendente e non più una semplice estensione sonora hic et nunc del primo; la disposizione degli archi a semicerchio davanti al podio (utilizzata per la prima volta durante Lucrezia Borgia), cui si ricorre ancora ai giorni nostri.  Chi è allora davvero Gaetano Donizetti? Figlio di un padre guardiano al Monte dei Pegni e di una madre tessitrice, a nove anni fu ammesso alle “lezioni caritatevoli di musica” dirette da Simon Mayr, che ne curò personalmente la formazione fino al 1815, anno in cui fu inviato a Bologna e affidato alle cure di Stanislao Mattei. Tramite Mayr, l’istruzione del giovane Gaetano è improntata ai modelli classici viennesi, come testimonia la presenza, accanto ai primi tentativi teatrali, di sinfonie, cantate e quartetti su cui aleggiano gli spiriti sacri di Haydn e Mozart. A partire da Il Pigmalione, rappresentata postuma, la carriera del compositore continua tra alti e bassi: prima Venezia, poi Roma, quindi Napoli, la città dove sarebbero state presentate al San Carlo ben diciassette opere in prima esecuzione. Qui si era trasferito in pianta stabile nel 1827 in seguito ad un contratto per quattro opere firmato con l’impresario Domenico Barbaya, e una volta nominato direttore dei Teatri Reali, aveva accettato la cattedra di Composizione al locale Conservatorio. Dopo le fortunate collaborazioni con Romani e Cammarano (quest’ultimo scrisse i versi dell’acclamatissima Lucia di Lammermoor, messa in musica dal compositore in soli trentasei giorni), la vita di Donizetti è funestata da una serie interminabile di disgrazie: alla morte dei genitori e della seconda figlia fecero seguito, due anni più tardi, quelle della terza figlia e della moglie Virginia, colpita dal colera. Contrariato per il veto censorio al Poliuto e amareggiato per la mancata nomina a direttore del Conservatorio, Donizetti decide di intraprendere un nuovo percorso. Grazie alla benevolenza di Rossini si aprono per lui le porte dei teatri francesi, e con esse, una nuova, fortunata stagione. Rientrato temporaneamente in Italia ha modo di assistere alle prove del Nabucco, che lo lascia favorevolmente colpito, al punto da prodigarsi nella diffusione delle opere verdiane a Vienna, dove nel frattempo ricopriva l’incarico di direttore musicale della stagione italiana. Colpito come il coevo Schumann da pazzia conseguente al terzo ed ultimo stadio della sifilide, Donizetti viene internato forzosamente nel manicomio di Ivry. Morirà a Bergamo nella primavera del 1848, senza mai recuperare la ragione.

Una scena dal Don Pasquale (Teatro Donizetti, Bergamo).

Donizetti poté godere in vita di grande fortuna presso il pubblico, soprattutto grazie alle straordinarie doti compositive e ad una vena romantica difficilmente eguagliabile. Dall’ottocento al secondo dopoguerra, però, il repertorio delle sue opere rappresentate è andato progressivamente assottigliandosi, resistendo oggi solamente i capolavori assoluti: Lucia di Lammermoor, Elisir d’amore e, naturalmente, Don Pasquale. Quest’ultima è opera della maturità dell’autore, e una di quelle che, a quel tempo, furono accolte con maggior calore di pubblico. La trama è molto semplice. L’anziano protagonista, un uomo all’antica, ma ingenuo e di buon cuore, decide di sposarsi per diseredare il nipote Ernesto, che, innamorato di Norina, non accetta di prendere in moglie altra donna all’infuori di lei. Il Dottor Malatesta, amico di famiglia, predispone un piano per permettere ai due giovani di sposarsi senza incorrere nelle ire del ricco zio. Gli equivoci fanno il loro gioco, e alla fine Don Pasquale decide di benedire le nozze tra i due giovani, dopo che Norina, che egli ha sposato credendola la sorella di Malatesta, si rivela donna dai comportamenti incoercibili. In quale clima si inserisce allora Don Pasquale? Come ha notato Giovanni Ruffin, la prima cosa che balza all’occhio ad una ricognizione del panorama operistico italiano nell’ottocento, è il netto ridimensionamento delle fortune del genere “puramente” comico. Tra La Cenerentola di Rossini (1817) e Falstaff di Verdi (1893) i titoli buffi entrati stabilmente in repertorio si contano sulla punta delle dita, pur dopo grandi successi risalenti già al secolo precedente (uno su tutti, il matrimonio segreto di Cimarosa, 1792). La tipologia che maggiormente beneficia del vuoto lasciato dall’opera comica è l’opera semiseria, uno scatolone intermedio in cui si ripongono talvolta anche lavori di ardua classificazione come il mozartiano Don Giovanni. Se abbiamo detto che l’ottocento è secolo di drammatica contrazione del genere comico, Don Pasquale più che rappresentare un’eccezione a questa regola, sembra confermarla. Non è un’opera buffa, ma una riflessione disincantata e teneramente malinconica sulla vecchiaia, e sulla giovinezza. Ed è un’opera in cui, non a caso, trova spazio un episodio tutt’altro che comico. All’inizio del terzo atto, per aver cercato di impedire ad una scatenata Norina di andare a teatro, il povero Don Pasquale riceve per tutta risposta un sonoro schiaffone. Sul proscenio, nella buca e tra il pubblico, cala il silenzio. Il personaggio Don Pasquale, presentato all’inizio come un vecchio impomatato che gioca a fare il cascamorto (si veda la descrizione: “sul suo capo troneggia una parrucca rosso mogano arricciata sino all’inverosimile, una marsina verde dai bottoni d’oro cesellati, le cui falde non riescono a unirsi a causa dell’enorme rotondità del ventre, gli conferisce l’aspetto di un mostruoso scarabeo […]), è certamente un personaggio comico; l’uomo Don Pasquale, che viene malmenato dalla finta sposina, è un personaggio sentimentalmente umoristico. Come è stato scritto altrove, non è difficile trovare affinità con la vecchia signora imbellettata dai capelli tinti di Pirandello, lì dove la comicità coincide con l’avvertimento del contrario, mentre l’umorismo con il sentimento del contrario, se è vera la frase di Bergson secondo cui “l’emozione è il peggior nemico del riso”. E non è difficile trovarne nemmeno con la stessa vicenda biografica dell’autore. Quando compone Don Pasquale Donizetti non è più giovanissimo: ha quarantacinque anni, e la casa deserta per un’interminabile serie di lutti familiari. Dopo le esperienze francesizzanti di Parigi, torna all’opera napoletana, ma stavolta la modella sulla profonda umanità di un personaggio, Don Pasquale, che preannuncia la futura solitudine di Falstaff. In lui Donizetti deve aver rivisto sé stesso, quando, nell’estate napoletana del ’42, sorride nel pensarsi a fianco di una delle giovani figlie del marchese Sterlich, lusingate dalle sue musiche e dai suoi omaggi floreali. “È finita, Don Pasquale” balbetta il protagonista subito dopo aver ricevuto lo schiaffo di Norina, e sembra di sentire l’autore proferire le stesse, dolorose parole. È il momento, questo, in cui si rovesciano per sempre le prospettive: Don Pasquale non è più il ridicolo telamone d’inizio opera, che suscita nient’altro che ilarità nello spettatore; al contrario, diventa ora un eroe umano, e quasi tragico, che raccoglie tutte le simpatie del pubblico.

Il vecchio Don Pasquale e la giovane Norina, in una scena dell’opera.

Come si esprime in musica tutto ciò? Don Pasquale è un buffo, come Leporello in Don Giovanni e Don Bartolo ne Il barbiere di Siviglia. Un personaggio dalla voce estesa e scattante, che però, per tutta la durata del lavoro donizettiano, non canterà mai. Anche questa è un’espressione della incomunicabilità di fondo che caratterizza il conflitto generazionale di Don Pasquale. Scrive Giorgio Pagannone: “quest’opera è intrisa di lirismo, di cantabilità. Che sia impostura (Malatesta, «Bella siccome un angelo» atto I), finzione (Norina, «Quel guardo il cavaliere», atto I), sfogo emotivo (Ernesto, «Cercherò lontana terra», atto II), tutti cantano, tranne Don Pasquale, che anzi a volte è costretto a fare da spettatore”. Nell’incantevole quartetto finale del secondo atto («È rimasto là impietrato», brano che all’epoca fu giudicato il migliore dell’opera), si trova un esempio lampante della condizione del protagonista: egli è subissato dalle voci dei comprimari, e i suoi balbettii si scontrano contro il canto largo dei tre. Nella ripetizione della melodia egli prova ad unirsi alle voci della allegra compagnia; invano, perché la musica, infastidita da questa intrusione, vira, si modula e si avvia velocemente alla conclusione. Don Pasquale capisce così di aver perso del tutto il polso della situazione. Malatesta, che egli credeva amico fedele, lo ha gabbato; Enrico, che pensava di aver buggerato a sua volta, lo deride; e Norina, che pensava moglie docile e sottomessa, si rivela invece un’indomabile bisbetica. La reazione del vecchio, poi, non fa che marcare ulteriormente la sua condizione di compassionevole impotenza. Egli si lancia infatti, nella stretta successiva «Son tradito», in uno scioglilingua velocissimo e di rara difficoltà, che declama a fatica mentre scaglia i pugni in aria per la rabbia. È una canzonatura ridicola e deformante, che acquista tanto più valore se si pensa ad essa come al prologo della scena cruciale dello schiaffo, che avrà luogo subito dopo. In questa concatenazione di eventi scenici e musicali, ciascuno dei quali fornito del proprio peso specifico, si intravede tutta la sapienza drammaturgica di Donizetti; egli rimaneggiò di proprio pugno il libretto (ricalcato sul dramma giocoso di Anelli Ser Marcantonio, già musicato da Pavesi nel 1810), al punto che Michele Accursi, amico dell’autore e spia pontificia, si rifiutò di apporvi la propria firma. Del fatto che Don Pasquale non canti, del resto, non c’è da meravigliarsene. L’atto stesso del cantare, a pensarci, implica l’imposizione di un proprio tempo, soggetto a regole diverse da quello puramente cronometrico della biologia. Si tratta pertanto di un atto di libertà che non è concesso al basso leggero, avviluppato come è nello scorrere inesorabile degli eventi, senza facoltà alcuna di deviarne il corso.

Altra caratteristica anomala per un’opera comica, in Don Pasquale si ritrova una caratterizzazione delle maschere non più nitida e sentimentalistica, ma velata al contrario da ombre sottili. Il duo Don Pasquale – Ernesto, se non altro per ragioni di sangue, è accomunato dalla rigidità: il primo risulta inadatto ad adeguarsi al mutare degli eventi, e da tale incapacità di adattamento deriva la sua comicità; il secondo ha una profilatura melodica fin troppo accentuata, ed è un sognatore, arrendevole e un po’ vacuo, un “tanghero ostinato”, come lo definisce in sostanza lo zio. Norina e Malatesta sono invece la coppia della flessibilità: il Dottore compare ora nelle vesti di sodale del vecchio, e un attimo dopo ordisce la beffa ai suoi danni; Norina, da par suo, è più che disinvolta nell’interpretare il ruolo della sposa libertina e (forse) fedifraga. Sul suo personaggio è bene spendere due parole. Ella è, se vogliamo, il vero protagonista dell’opera, e lo dimostra il fatto che si tratta dell’unico personaggio a cui è concesso di presentarsi in scena con una cavatina, mentre gli altri si spartiscono fra loro numerosi duetti; mentre rivolge con frequenza insulti a vario titolo al povero Don Pasquale (“gran babbione”, “uomo decrepito e grasso”, “bel nonno”), non spende una sola parola d’affetto verso Ernesto, che pure se ne dimostra perdutamente innamorato. In un tempo in cui l’opera lirica è dominata da grandi amori, in Don Pasquale non c’è traccia di tutto ciò. Se dieci anni prima del dramma buffo donizettiano Bellini aveva musicato l’amore tra Arturo ed Elvira (I puritani, 1835), e dieci anni dopo Verdi aveva fatto lo stesso con Alfredo e Violetta (La traviata, 1853), Norina si prende gioco, nell’adagio «Quel guardo il cavaliere» nel primo atto, del sentimento amoroso e dell’uomo tout court, narrando di un cavaliere che resta fulminato dagli occhi di una donna (mentre la Rosina del Barbiere dichiarava, in «Una voce poco fa», di essere stata ferita al cuore da Lindoro). Nella celeberrima cavatina «So anch’io la virtù magica» Norina declama il suo blueprint: quello di una attricetta civettuola e mistificatrice, che sa come “si bruciano i cori a lento foco”; non a caso la melodia del brano costituisce la seconda parte dell’ouverture, e si contrappone alla prima, che invece è costituita dalla linea melodica del violoncello tratta dalla serenata di Enrico in giardino («Com’è gentil la notte a mezzo april!», atto III).

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Oltre le narrazioni più o meno consolidate (e più o meno sospette) delle relazioni tra giovani, esiste la cronaca negletta degli amori senili. A chi interessano, del resto, le senescenti vicende affettive dei vecchi? Non lo sappiamo; sebbene stravolgendo volutamente Conrad potremmo aggiungere che “non solo i giovani hanno di questi momenti”. Anzi, è una poetica, quella dei sentimenti inadeguati all’età, ben più variegata e complessa, e aperta a multiple suggestioni. Come sa Nabokov, che in Lolita racconta dell’ossessione di un professore di mezza età per una ragazzina. Come in Iris, opera simbolista di Mascagni, o nella Donna silenziosa di Strauss (su libretto di Stefan Zweig, tratto da una commedia di Ben Jonson), il cui soggetto è praticamente identico a quello trattato oggi. Il tema della differenza d’età nelle relazioni affettive doveva essere particolarmente caro al musicista bavarese, visto e considerato che ne fece oggetto di un’altra delle sue opere più celebrate, il mozartiano Rosenkavalier. Se Don Pasquale è, in conclusione del terzo atto, ben lieto di liberarsi della terribile moglie e benedice le nozze tra Ernesto e Norina, anche la Marescialla sceglie, una volta compreso che l’affetto che prova verso il diciassettenne Octavian non le sarà sufficiente a legarlo a sé, la via sapiente e dolorosa dell’accettazione della realtà: troppi anni la separano dalla di lui coetanea Sophie. “Una mascherata viennese e nient’altro”, dice ben sapendo di mentire, prima di lasciare campo libero alla gioventù. Tanto più che le note di sala che Sergio Sablich scrisse per il lavoro di Strauss si adatterebbero perfettamente a Don Pasquale, se solo non si conoscesse quale delle due opere sta per essere rappresentata: “[…] è insieme opera della giovinezza e dell’età adulta, del tramonto e dell’aurora. Non descrive una parodia della vita (da questo punto di vista non è un’opera buffa), ma non costituisce neppure un’allegoria: è una commedia umana ritratta con assoluta imparzialità, con un misto impalpabile di ironia e di serietà”. Don Pasquale è insomma opera che più che ridere fa riflettere, e quando anche causa il riso, non si tratta affatto di quello sguaiato e canzonatorio delle commedie. Esso è, invece, la lacrima che solca le guance di Arlecchino e Brighella, immortali maschere bergamasche, fino a scomparire dentro il loro malinconico sorriso.

Roberto Imparato

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