Io sono realista
di Linda Iobbi - 6 Maggio 2019
musica, poesia e parola in Čajkovskij
La disputa sull’egemonia tra parola e musica che appassionò tutto l’Ottocento romantico non fu limitata esclusivamente all’Europa. Anche in Russia, infatti, i compositori si posero gli stessi quesiti, incentrati sul rapporto –per certi versi affascinante – tra la musica e l’elemento narrativo costituito dal libretto nel caso di opere liriche o dalla poesia nel caso delle romanze da camera. Mentre, in Italia, Verdi alimentava la controversia con i suoi librettisti sostenendo la causa della subordinazione della parola rispetto alla musica, in Russia Čajkovskij scriveva le sue opere e prendeva posizione partendo da una filosofia molto simile. Il compositore russo, infatti, era tra coloro che erano fermamente convinti della supremazia della musica sulla parola. Questo principio, che governa tutte le scelte compositive di Čajkovskij incontrò il favore, ma anche la critica di molti. Nel 1877 Cesar Cui scrive riguardo al trattamento del testo nella musica di Čajkovskij:
“L’ispirazione dei veri compositori di musica vocale è il testo poetico: il suo metro determina il ritmo della musica e del battere; la costruzione delle frasi nel testo determina il fraseggio musicale e la costruzione della melodia; la forma della poesia determina la lunghezza della musica. In parole povere, tutto nella musica vocale deve essere suscitato dal testo. Raramente qualcosa di simile noi troviamo in Čajkovskij. Il testo per lui non ha alcun reale significato, per questo molto spesso sceglie per le sue romanze non solo versi mediocri, ma semplicemente brutti. Per lui la musica va per conto suo, così come il testo. Prosaicamente, di musica ce n’è molta, di testo poco, ed è necessario ripetere non solo versi, ma anche singole parole. Ciò vuol dire travisare sia la forma che il senso della poesia. Per questo la musica di molte romanze di Ciaikovskij è splendida, ma di buone romanze ne ha poche. Lo stesso trattamento con la parola si trova nelle opere di Ciaikovskij… Certamente, Čajkovskij ha acquisito una qualche pratica con il giusto uso degli accenti nel canto, ma il suo fraseggio è debole, e alcune ripetizioni di parole sono semplicemente ridicole.”
Col tempo, Cui diventerà meno aspro nei confronti di Čajkovskij nel suo studio dedicato ai romances russi, concluderà considerando il compositore come innanzitutto un grande sinfonista, seppur debole nella scrittura vocale. Cui non fu l’unico a sferrare crudeli attacchi a Čajkovskij quasi tutta la critica russa del XIX secolo è in disaccordo sull’uso che Čajkovskij fa della parola. Tra i tanti pungenti critici, citiamo il musicologo e compositore V. Karatyghin, che nell’ambito dei rimproveri sull’uso barbaro che fa Čajkovskijdella parola, colpevolizza in particolare il compositore di travisare e deformare la musica del verso. Proprio quella musica del verso di cui Čajkovskij parla nella lettera del 3 luglio 1877 a Nadezhda Filaretovna von Meck a proposito del poeta russo Pushkin, fonte di ispirazione per i soggetti delle sue opere liriche come Evghenij Onegin e Pikovaya Dama:
“Pushkin, il quale con la forza del suo talento molto spesso irrompe dalle strette sfere dell’arte della poesia nell’infinito ambito della musica. […] nello stesso verso, nella sua successione sonora, vi è qualcosa che penetra nella profondità dell’anima. Quel qualcosa è musica.”
Dal canto suo, Čajkovskij faceva non di rado dell’autocritica. In una lettera del 3 agosto 1890 in risposta all’amico Kostantin Romanoff, riguardo ad alcune imperfezioni sulla declamazione musicale nell’opera Pikovaya Dama, Ciaikovskij si mostra particolarmente autoanalitico e chiarisce inequivocabilmente la sua posizione:
“In questo aspetto io sono incorreggibile. Non credo che nel recitativo, nel dialogo, io abbia fatto molti errori di questo tipo, ma nei momenti lirici, lì dove la veridicità nel comunicare lo stato d’animo generale mi attira, io semplicemente non mi accorgo degli errori […] e serve che qualcuno me li indichi chiaramente affinché li possa correggere… Per poi, tuttavia, continuare la propria analisi: …Del resto, bisogna dire la verità, che da noi per questi dettagli ci si rapporta troppo scrupolosamente. I nostri critici musicali, spesso omettendo che la cosa più importante nella musica vocale è la veridicità della riproduzione dei sentimenti e degli stati d’animo, innanzitutto cercano gli accenti sbagliati, che non corrispondono alla lingua parlata […] e con una certa gioia maligna li raccolgono per rimproverare l’autore con tale impegno degno di miglior causa. In questo si è soprattutto distinto, e ancora adesso sicuramente si distingue, il Sig. Cui. Ma siate d’accordo con me, che certa impeccabilità nella relazione con la declamazione musicale è una qualità negativa e che non bisogna sopravvalutarne l’importanza. Per quanto riguarda la ripetizione delle parole o di frasi intere […] ci sono situazioni in cui tali ripetizioni sono completamente naturali e in sintonia con la realtà. L’uomo sotto l’influenza dell’affetto, piuttosto spesso ripete la stessa esclamazione, la stessa frase.”
Per Čajkovskij quindi, il ruolo della musica nell’incontro con la poesia è essenzialmente quello di trasmettere lo stato d’animo, l’affetto che la poesia suscita, anche a discapito di una accademica e corretta disposizione degli accenti o del fraseggio. A mediare tra le prese di posizione di Cui e le forti convinzioni di Čajkovskij sopraggiunge il critico letterario e musicale, nonché compositore German Larosh, che in un saggio incentrato sulla produzione di musica vocale di Cesar Cui cerca di trovare un compromesso, avvalendosi di esempi storici. Il problema posto al centro dello studio è se sia necessariamente ineludibile impostare la convivenza tra le due arti (musica e poesia) in termini di armonia o di subordinazione: non è forse meglio stabilire un modus vivendi che freni lo scontro tra le due e che ne garantisca l’indipendenza reciproca, come ad esempio avviene magnificamente nella musica popolare o in compositori come Bach, Beethoven e Glinka? Nella stessa produzione di Cui, compositore ormai diventato il più importante propagandista della nuova scuola di declamazione, Larosh ravvisa degli esempi di scostamento dai puri principi di declamazione nelle opere Angelo e soprattutto in Ratcliff, dove fortemente si percepisce l’elemento del cantabile (G. Larosh, 1885). Nonostante il contesto nel quale lavorava Čajkovskij lo portasse al centro di severe critiche, il compositore russo non tradì le sue convinzioni. Anche quando a San Pietroburgo nel 1869 il Convitato di Pietra del compositore Aleksandr Dargomyzkij, su testo di Pushkin, dettava i principi di un nuovo stile vocale nell’opera russa, il giovane Čajkovskij seguiva la sua strada, convinto dei suoi principi, ritrovando in Glinka più che in altri il modello perfetto, dove l’elemento della melodia e della cantabilità regnava incontrastato e dove ogni personaggio non veniva definito da un singolo leitmotiv, ma da un complesso di emozioni in perenne sviluppo. La vocazione per la melodia e la ricerca di affetti poetici dettati da un impulso quasi istintivo, non permettevano al giovane Čajkovskij di considerare la musica come un’aggiunta al testo. Convinto del ruolo della musica, si approcciò fin dagli inizi della sua produzione musicale in modo particolare soprattutto a poeti come Pushkin, padre della poesia russa.
La generazione post-rivoluzionaria continuò le critiche nei confronti di Čajkovskij. Non era solo il trattamento della parola che non soddisfaceva gli intellettuali dell’epoca, ma la musica stessa fu considerata invecchiata e troppo sentimentale, non rispecchiante il nuovo uomo sovietico. Čajkovskij rischiava di essere completamente dimenticato, se non fosse stato per il musicologo Asaf’ev, che grazie a numerose pubblicazioni dedicate al compositore, dimostrò la grande attualità e forza della sua musica. Il nome di Čajkovskij tornò sui cartelloni dei teatri e nel 1940 fu grandemente festeggiato il centesimo anniversario dalla nascita, con l’intitolazione del conservatorio di Mosca in suo onore. Asaf’ev pubblicò diversi studi dedicati all’analisi della forma e del linguaggio nelle opere più importanti di Čajkovskij. Potendosi annoverare tra i campi di ricerca del musicologo lo studio e la teorizzazione di quello che lo stesso musicologo chiama intonazione (termine inteso come nel campo della linguistica), Asaf’ev ebbe la sensibilità e la capacità di notare il rapporto che Čajkovskij instaura con il testo poetico e gli affetti che da esso scaturiscono. Nello studio dedicato a Čajkovskij come compositore e drammaturgo, Asaf’ev sostiene che in realtà, non è per niente una formulazione paradossale dire che nella lirica di Čajkovskij si hanno in abbondanza dei tratti, o meglio, caratteristiche dell’animo, le quali nel reciproco dialogo con le persone compongono una specie di “vocabolario” sonoro; vocabolario dell’intonazione della carezza, della compassione, della partecipazione, del saluto materno o amato, della pietà e del sostegno dell’amicizia. Questo è un vastissimo e fine vocabolario d’intonazione, per di più in particolare attentamente elaborato e sintetizzato nella melodia degli esseri umani. Pushkin con genio ha aforisticamente identificato il suo rapporto con questo aspetto del dialogo umano, attraverso l’intonazione del verso nel Convitato di Pietra: “[…]anche l’amore è una melodia. Non a caso, a Čajkovskij riesce felicemente in musica l’intonazione della sfera delle ‘ninnananne’, del ‘ninnare’ […] In questo aspetto lui è un uomo particolarmente impressionabile, e risulta essere uno dei principali e più sensibili psico-realisti, tanto da poter competere con gli eminenti scrittori e poeti, per i quali la lirica non è solo un mezzo di soggettiva e importuna espressione dei propri stati d’animo, fino a diventare una specie di divinizzazione del proprio io“.
“Eminenti scrittori” come Dostojevskij, al quale di buon grado viene comparato. Come il celebre scrittore russo ha spalancato le porte a un nuovo Pushkin, ampliando il tragico e fatale mondo de Il cavaliere di Bronzo e Pikovaya Dama, così Čajkovskij negli anni ‘80 realizza un’estensione di questo universo che è sorprendentemente vicino a quello di Dostojevskij, a quel sconvolgimento della coscienza, sviluppatosi sotto l’influenza dell’indebolito mondo, che tuttavia resiste sui precedenti capisaldi ancora non abbattuti. Čajkovskij nella lettera alla sopra citata a von Meck del 22 dicembre del 1881, rivela una profonda inquietudine verso la sua buia epoca, che rispecchia molto i tratti caratteristici della letteratura del coevo Dostoevskij. Asaf’ev ha ben intuito questi tratti avanguardistici di Čajkovskij definendolo come un psicorealista, termine che dobbiamo intendere non del tutto estraneo ai movimenti delle nuove scuole artistiche sovietiche, tra cui possiamo inquadrare senz’altro il metodo psicotecnico di Stanislavskij sul lavoro di preparazione dell’attore. Ed è proprio in questo che sta l’attualità della musica di Čajkovskij, che a differenza di molti suoi contemporanei, di fronte al testo poetico non resta in superficie ad analizzarne semplicemente la forma, ma ambisce a scovare i sentimenti più profondi e intimi che il testo lascia scaturire. Quasi come un precursore del teatro sovietico, laddove l’analisi profonda dello stato d’animo del personaggio attraverso il testo è il primo passo per comprendere ed attuare la propria arte, Čajkovskij dà vita agli affetti della poesia attraverso la propria musica, seppur il compositore russo come uomo del suo tempo distingue bene il proprio io da quello del personaggio a cui sta dando vita. Il Čajkovskij che conosciamo attraverso le lettere è un uomo fortemente consapevole dei propri principi e del proprio lavoro. Fino alla fine dei suoi giorni continuò a dedicarsi alla sua arte con una approfondita e costante analisi e critica sul proprio operato. La lettera del 16 gennaio del 1891, scritta a pochi anni dalla morte del compositore, è da prendere come una sintesi di una profonda e sincera ricerca del rapporto con la poesia, durato tutta la vita:
“A me sembra che io sia davvero dotato delle caratteristiche della veridicità, della sincerità e della semplicità nell’esprimere quei sentimenti, stati d’animo e immagini, ai quali conduce il testo. In questo senso, io sono realista”