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A voce sola. Due ‘stazioni’ della solitudine novecentesca: Erwartung di Schönberg e La voix humaine di Poulenc  

di Emanuele Franceschetti - 15 Maggio 2017

Partiamo da qualche indicazione cronologica. Esattamente mezzo secolo separa l’anno della composizione (non della prima rappresentazione) di Erwartung di Schönberg -1909- da quello de La voix humaine di Poulenc -1959. Cinquant’anni, due conflitti mondiali, frenetici avvicendarsi e sovrapporsi di diversi linguaggi artistici, cambiamenti piuttosto evidenti (a dir poco) nello scenario europeo e mondiale sul fronte delle arti, della cultura, e dello scacchiere politico globale: eppure, nulla di tutto ciò impedisce di considerare i due lavori come diverse e (cronologicamente) lontane espressioni di un ‘germe’ comune. O, quantomeno, di una comune evidenza: la solitudine e l’incomunicabilità degli individui. Ciò, strizzando l’occhio ad Hegel ed alla sua idea del ‘rovesciarsi della forma nel contenuto e del contenuto nella forma’, in entrambe le opere prende le vesti (la forma, appunto) del monodramma, di settecentesca memoria: l’azione, il plot, il ‘farsi’ della vicenda sono agìti da un unico personaggio, solo in scena. Che, in entrambi i casi, è una donna. Questo dato basta per rivolgere subito l’attenzione ad un fattore, evidente: non c’è interazione tra personaggi, non c’è comunicazione esperita in praesentia. Viene negato, quindi, l’elemento fondante del meccanismo narrativo del teatro (perlomeno fino a gran parte del secolo diciannovesimo): il conflitto fra diverse ‘forze’ e ‘voci’, capace di innescare il dramma, e di spingerlo fino al suo epilogo, catastrofico o riconciliatorio.

La stesura di Erwartung, iniziata e conclusa di getto in poche settimane, si colloca in un momento in cui Schönberg, seppur lontano ancora da un’elaborazione formalizzata dei precetti dodecafonici, ha già compiuto notevoli passi verso la costruzione del suo personalissimo arsenale compositivo. Nel 1909, il futuro portavoce della nuova grammatica musicale ha infatti già completato –per citare alcune pagine significative – i Tre pezzi per pianoforte op. 11, i Cinque pezzi per orchestra op. 16, e le musiche per Pelleas et Melisande, in quasi-contemporanea all’omonima (e più celebre) opera di Debussy.
Saturate ormai le possibilità espressive del linguaggio tonale, nell’ora caotica e bruciante in cui i languori della decadenza fin de siècle incontrano gli umori sovversivi delle avanguardie, l’urgenza espressiva di produrre arte rispondente solo alle spinte dell’inconscio e degli impulsi profondi, trova nelle partiture di Schönberg, nei quadri di Kandinskij, nei lavori di Kokoschka, nei versi di Gottfried Benn e nei drammi di August Stramm diverse declinazioni della comune sensibilità ‘espressionista’. In Schönberg (non l’unico, ma forse il più eclettico ed acuto interprete del mutato scenario musicale) le nuove tensioni prendono forma nella rottura delle regolarità fraseologiche, nei gesti spesso rapsodici e palesemente dissonanti, nella libera escursione su registri lontani, nell’utilizzo quasi costante di armonie quartali, in un più ardito utilizzo degli agglomerati timbrici in orchestra.
Fatti i dovuti cenni (seppur generali) al contesto, torniamo ad Erwartung: l’opera, scritta in fretta e furia –ma rappresentata solo nel 1924- riceve la sua materia letteraria da Marie Pappenheim, scrittrice e medico, che proprio in virtù del suo non essere librettista stricto sensu riesce a produrre un testo perfettamente conciliante con le ‘irregolari’ esigenze di Schönberg. Ciò cui assistiamo è, in un certo senso, la sintomatologia di una psicosi nevrotica di una donna (che non possiede neppure un nome), espresso in un ininterrotto monologo. L’ attesa (da cui il titolo) cui assistiamo si consuma in uno scenario è notturno, lunare: l’anonima figura si immerge nell’oscurità di un bosco, nel delirante tentativo di ritrovare l’amato. Tra tremori, spaventi e allucinazioni, l’ ‘attesa’ della donna si conclude, drammaticamente, col ritrovamento dell’uomo, ormai cadavere, proprio nei pressi dell’abitazione dell’amante. Le quattro brevi scene confluiscono l’una nell’altra, senza soluzione di continuità. Il dramma, non potendo prodursi in un accadimento ‘intersoggetivo’ (per dirla con Szondi), è tutto riassorbito, senza possibilità di interazione dialettica, nella psiche confusa e sconvolta della donna. Lo scenario e l’ambiente diventano l’unica possibile rispondenza alle sue allucinazioni e ai suoi sussulti. Emblematico e affascinante è il trattamento di Schönberg del materiale musicale: se è ancora impossibile parlare di dodecafonia, è invece lecito notare una capacità di bilanciare ‘sentori’ tonali (una frequente, seppur mascherata, evocazione del Re minore, già tonalità d’impianto della Verklärkte nacht), sporadici cenni di ‘cantabilità’ (si ascolti la scena seconda) con elementi fuori tonalità, fuori simmetria, ormai con più di un piede nel nuovo secolo. Ma è proprio alla voce, e di questa lezione si farà sapiente interprete Berg, che Schönberg affida il timone delle continue modulazioni ‘affettive’. Seguendo le continue, infinite prescrizioni del libretto, la partitura vocale diventa l’effettivo sismografo delle emozioni della donna: dal grido brutale al breve lacerto melodico, dal canto sommesso al sussurro, l’intera tavolozza delle possibilità espressive della voce è esplorata dal compositore. Il dramma, minato alla base dalla scomparsa di una vicenda effettiva, è ormai tutto già compiuto, evidente ed immutabile, all’aprirsi del sipario, e tale resta, senza mutamenti, fino all’epilogo. Tutti gli elementi di ‘modernità’ che Szondi ravviserà e catalogherà nel suo scritto di quasi cinquant’anni dopo, sono già nella partitura schoenberghiana. Insieme alla negazione della comunicabilità dei motivi profondi, sotterranei, dell’inconscio. Un’esatta metà strada, ci si conceda l’epigrafe, tra Strindberg e Freud.

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Pur muovendo da ben altre premesse ed esperienze, nel 1959 Francis Poulenc, compositore francese più giovane di venticinque anni di Schoenberg e membro del gruppo Les Six (insieme a Milhaud, Honegger, Auric, Durey e Tailleferre), compone e porta in scena un atto unico, su testo di Jean Cocteau. Ancora una donna, sola in scena, ancora una (non) narrazione della solitudine.
La voix humaine, atto unico di Cocteau scritto nel 1930 per l’attrice Berthe Bovy, viene suggerito a Poulenc come testo musicabile da Hervé Dugardin, rappresentante di Ricordi a Parigi. Poulenc, compositore dalla nobile vena elegiaca ma non di rado ‘disimpegnata’ (pur non dimenticando affatto lo Stabat Mater, il Gloria o il pachidermico concerto per organo, orchestra e timpani), che per sua stessa ammissione detesta Beethoven e Wagner, dichiarandosi ‘allievo’ solo di Bach, Mozart, Satie e Stravinskij, accetta la proposta.
Il contesto, rispetto ad Erwartung, è ben diverso. Via dagli scenari lunari e conturbanti dalle allucinazioni espressioniste, La voix humaine trova il suo ambiente in uno spazio quotidiano, intimo, borghese, persino rassicurante. Qui, nel lavoro di Cocteau-Poulenc, la donna, pur evidentemente sola, interagisce però con un corpo estraneo, un elemento impensabile nella selva di Schönberg: un telefono. Quello che può sembrare, all’occhio di chi ora legge e scrive, come un oggetto di semplice ed innocuo utilizzo, nell’opera si fa carico di numerose implicazioni, arrivando quasi a farsi ‘personaggio muto’.
Ancora una volta, il plot è quasi inesistente: la donna, dopo un iniziale dialogo telefonico con un’operatrice della rete, riesce a mettersi in contatto col proprio uomo, dal quale si è appena separata. La lunga telefonata altro non è che l’umanissimo (e vano) tentativo della donna di dire all’amato che il suo sentimento è ancora vivo. Non c’è alcuna poesia, facili maniere, lirismo. La donna si esprime in maniera consueta, alternando esitazioni a sussulti, espressioni di calma apparente ad accensioni improvvise e perdite di controllo. Ciò che rende affascinante e controversa l’opera –e ciò che la separa inevitabilmente da Erwartung– è proprio la presenza dell’apparecchio. Il telefono, mezzo di comunicazione e avvicinamento, diventa qui barriera separatrice, strumento inanimato e illusorio, capace di rendere ancora più evidenti le distanze che di superarle. C’è di più: se la donna, a tutti gli effetti, non sta conducendo un monologo, ma dialogando al telefono col suo uomo, ciò che noi ascoltiamo e osserviamo è solo la voce (e il punto di vista) di lei. Quello che dovrebbe essere un lungo duetto diventa un lungo assolo, reso ancora più realisticamente inquietante dal rispetto ‘fedele’ dei tempi telefonici: a parlare, insomma, sono in due, ma noi ascoltiamo una sola voce, in continua alternanza con quella dell’interlocutore, per noi voce muta. Rispetto a Schönberg, Poulenc è ancora linguisticamente legato ad un’espressività più languida, meno lacerante, meno brutale. L’orchestra, ‘sensuale’ (così la prescrive Poulenc stesso) nei timbri e nei colori, viene però con alta perizia guidata ad un compito arduo: farsi interlocutrice della protagonista e testimone delle sue scosse emotive, ora svanendo nel silenzio, e lasciando la voce ad una intonazione senza appoggi, ora intervenendo con gesti bruschi e repentini. Questo, se possibile, rende l’opera ancora più raggelante di Erwartung, proprio per la mancanza di un ‘ambiente d’azione’ concorde all’espressione individuale. Lì, in Schönberg, lo sconforto e il terrore trovavano la loro naturale corrispondenza in un quadro, come già detto, di per sé orrifico ed inquietante: qui, in Poulenc, il dolore di una medesima, inguaribile solitudine, viene intonato in uno spazio moderno, gelidamente confortevole. Il telefono, simbolo (tra i molti) del progresso trionfante e delle conquiste del secolo nuovo, nelle mani della protagonista de La voix humaine diventa feticcio inquietante, oggetto inutile e conturbante (c’è chi, a tal proposito, vi ha ravvisato una funzione erotica) a un tempo. Lungi dal favorire un contatto e riabilitare un dirsi reciproco, finisce per diventare, in un radicale rovesciamento prospettico, simbolo stesso di una solitudine inguaribile. E persino potenziale strumento di morte, col suo filo-corda arrotolato dalla donna al suo stesso collo, mentre minaccia –a sé stessa, più che all’uomo lontano e irrecuperabile – di togliersi la vita.

Emanuele Franceschetti

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