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A tu per tu con Alessandro Carbonare

di Silvia D'Anzelmo - 28 Giugno 2018

In occasione del Prestissimo Festival, organizzato da Arte2o per l’Accademia Filarmonica, abbiamo incontrato Alessandro Carbonare scelto come padrino per questa festa della musica classica dedicata ai giovani.Primo clarinetto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia dal 2003, Alessandro Carbonare vanta un curriculum internazionale sterminato. Oltre all’orchestra romana ha suonato con i Berliner Philarmoniker, la Chicago Philarmonic e la New York Philarmonic. Da solista si è imposto in numerosi concorsi fin dalla gioventù, diventando esecutore affermato ed arrivando ad incidere, sotto la bacchetta di Claudio Abbado, il celebre capolavoro mozartiano del concerto K622 in La Maggiore. Accanto all’attività più strettamente classica, Carbonare coltiva anche un repertorio “contaminato” fatto di musica klezmer, jazz o proveniente da tradizioni extraeuropee. Oltre all’attività concertistica, è anche un affermato didatta e docente dell’Accademia Chigiana di Siena.

Il virtuoso del Clarinetto ha scelto di partecipare alla manifestazione infatti non solo in veste di esecutore ma si è anche interrogato, assieme a Gian Marco Ciampa, sul rapporto tra musica e nuove tecnologie.

Il Prestissimo Festival ha scelto lei come padrino dell’evento. Come ha preso questa decisione?

Per me è una cosa molto interessante perché io non sono più giovane. Forse mi hanno scelto perché nei miei concerti cerco di eseguire dei programmi che siano fruibili da parte di un pubblico eterogeneo.  Non suono solo classica ma jazz, musica brasiliana, klezmer. Diciamo che mi distacco molto volentieri dal ruolo tipico del musicista classico in giacca e cravatti anzi in frac che esegue solo Beethoven, Brahms e Mozart.

 La scelta è caduta su di lei per il suo eclettismo, vuol dire che i giovani hanno un’attenzione nei confronti di quello che lei fa e che suona. Possiamo affermare che il loro ‘problema’ con la musica classica non è poi così serio come si vorrebbe pensare?

Forse è eccessivo dire che non c’è un problema però basterebbe capire come rivolgersi ai ragazzi che, in effetti, parlano una lingua differente dai non-giovani. Bisogna cercare di imparare questa lingua per riaprire i canali della comunicazione. Fortunatamente vedo tantissimi giovani ai miei concerti quindi per me il problema non si pone ma ci sono situazioni nelle quali c’è una chiusura al dialogo con quel tipo di pubblico. In quel caso i ragazzi vanno altrove.

Lei crede che questa chiusura sia data dall’impossibilità di comprendere qual è il linguaggio da utilizzare oppure da una mancata volontà di comunicare  con un pubblico ‘diverso’ che ha le sue esigenze e le sue particolarità?

Le faccio un esempio: tre settimane fa sono stato negli Stati Uniti e ho suonato per l’università del Michigan. Il pubblico era composto solo di under 25 ma, la cosa strana, è che ho notato molta freddezza da parte loro. Il giorno dopo, durante la lezione che ho tenuto per l’università, ho chiesto cosa non andava nella mia performance e la risposta è stata davvero sconvolgente per me. Questi giovani americani erano spiazzati dal fatto che stavo suonando dal vivo lì davanti ai loro occhi. Oramai loro si sono abituati ad ascoltare e vedere esecuzioni solo da youtube. Mai mi sarei aspettato una risposta simile, siamo davanti a una mentalità completamente nuova di persone che fruiscono la musica dallo schermo di un telefonino e non più in una sala da concerto.

Eliminare l’esecuzione dal vivo trasforma radicalmente la musica rendendola quasi artificiale, creata in provetta. C’è modo di fermare questa tendenza?

Se si arrivasse a questo sarebbe molto grave ma non posso sapere se in effetti succederà, dovrei avere la sfera di cristallo. Sicuramente bisogna cercare di andare a suonare in quei posti dove c’è pubblico giovane e non aspettarsi che siano i ragazzi a venire in teatro. Per esempio: il concerto si ieri sera non si è tenuto in una sala ma all’aperto, nei giardini dell’Accademia Filarmonica, nulla di particolarmente innovativo però è un segnale che va in questa direzione. Bisogna cercare di avere un occhio alla tradizione e l’altro al futuro ma soprattutto non perdere il contatto con ciò che ci succede intorno.

Lei insegna all’Accademia Chigiana di Siena. Qual è il rapporto che instaura con i suoi allievi?

La Chigiana, negli ultimi quattro anni, si è evoluta tantissimo. Nicola Sani, il nuovo direttore artistico, è una persona non giovane fuori ma giovanissima dentro. Ha aperto molte possibilità ai ragazzi, è una fucina di idee ed è quasi difficile stargli dietro. Tutto è predisposto in maniera tale che i ragazzi si sentano accolti in un ambiente sereno e poco formale. Anche la scelta dei programmi è molto significativa perché dà tanta attenzione alla musica contemporanea, al jazz, all’avanguardia o all’elettronica. Sani l’esempio di chi ha un occhio alla tradizione e due occhi al futuro.

Per quanto riguarda le istituzioni romane, nota la stessa attenzione? Questa stessa tendenza a coinvolgere i giovani non solo come pubblico ma anche e soprattutto come esecutori?

Sì, tutte le istituzioni romane sono sempre molto attente a questo aspetto. Certo non mai abbastanza però è chiaro che la direzione è questa se vogliamo dare un futuro alla buona musica e non lasciare tutto in mano alla musica d’uso. L’Accademia Filarmonica è sicuramente in prima linea.

Lei fa musica con esecutori giovani? Mi parli del rapporto che si viene a creare.

Io cerco sempre suonare con musicisti più giovane di me. Per quanto riguarda il rapporto che instauro con loro, spesso è di guida perché in questo ambiente l’esperienza è importante ma arriva anche il momento in cui si capisco che posso lasciarli fare. Per esempio, ultimamente ho suonato con Beatrice Rana e in quel caso non c’è stato assolutamente nulla da dire. Qualche mese prima, invece, ho suonato con un trio di giovanissime e con loro ho sentito il bisogno di discutere alcuni passaggi. Alla fin fine però ci si trova a suonare tutti insieme. La musica è energia: quella che trasmetto io è fatta di esperienza quella che mi danno i ragazzi è fatta di voglia di scoprire.

Silvia D’Anzelmo

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