Una cantata politica e libertina di Barbara Strozzi: il lamento «Sul Rodano severo»
di Mauro Masiero - 22 Gennaio 2025
Il lamento ‘Sul Rodano severo’ di Barbara Strozzi, pubblicato nel 1651, racconta una storia torbida di intrighi di corte, di un amore libertino e omosessuale. A parlare in prima persona è il fantasma di Henri de Cinq-Mars, decapitato ventiduenne nel 1642, che si lamenta con il suo sovrano, Luigi XIII, di cui era stato il favorito. Vale la pena ricostruire la vicenda, prima di concentrarci sul brano.
La cospirazione di Cinq-Mars
Henri Coiffier de Ruzé d’Effiat marchese di Cinq-Mars (1620-1642) viene preso, orfano di padre, sotto la protezione del cardinale e primo ministro Richelieu e introdotto nei ranghi più alti della corte di Francia. Ben presto Cinq-Mars si fa notare da Luigi XIII, che ne fa il suo favorito e lo nomina dapprima Gran Maestro del Guardaroba, quindi Primo Scudiero e infine Grande Scudiero di Francia. Richelieu probabilmente aveva incoraggiato la sua ascesa per posizionare una sua pedina contro la componente filospagnola della corte francese, ma il ragazzo sfugge al suo controllo: Cinq-Mars ha infatti in animo di sposare la duchessa di Mantova Maria Gonzaga, malvista da Richelieu in quanto molto più anziana, di rango inferiore e pericolosamente filospagnola. L’opposizione del cardinale suscita un forte risentimento nel giovane favorito del re, che inizia a ordire un complotto con l’intento di mettere fine allo strapotere dell’anziano prelato.


Cinq-Mars convoca amici e sodali contrari alla politica di Richelieu e arriva a coinvolgere la regina di Francia Anna d’Asburgo-Austria, nata infanta reale di Spagna. L’accordo con il re di Spagna, Filippo IV, prevede uno scambio di territori e l’invio a Sedan di un contingente di diciassettimila uomini per supportare la congiura. Succede però che una spia di Richelieu intercetta un inviato di Cinq-Mars che portava con sé una bozza dell’accordo segreto con la corona spagnola. La congiura è sventata e Cinq-Mars viene arrestato a Narbonne, condannato per lesa maestà e decapitato il 12 settembre 1642 a Lione. La madre e il fratello vengono esiliati e il loro castello di famiglia raso al suolo. Ironia della sorte, Richelieu morirà di tubercolosi neanche tre mesi più tardi; Luigi nel maggio successivo.
Recezione veneziana della vicenda e risvolti politici
Caduto l’ancien régime, l’Ottocento francese rievoca la vicenda, che sarà narrata nel 1826 da Alfred de Vigny nel romanzo Cinq-Mars, da cui verrà tratto un libretto per l’omonima opera di Charles Gounod del 1877. Negli stessi anni della congiura, però, la storia già circolava negli ambienti libertini veneziani, tanto da venire raccontata in versi da una figura anonima, per poi ricevere la felicissima intonazione di Barbara Strozzi, che inserisce il brano nella sua op. 2, Cantate, ariette e duetti del 1651 e anche nell’op. 3, tre anni dopo.
Purtroppo non si sa nulla su chi abbia redatto il testo, ma sappiamo che Strozzi era ben nota e inserita nei circoli libertini delle accademie degli Incogniti e degli Unisoni, quest’ultima fondata da suo padre Giulio; ma di questo trattiamo in un altro articolo.
I libertini veneziani – importantissimi per la storia della musica perché in prima linea nella fondazione di un teatro musicale pubblico – oltre a porsi apertamente contro la morale comune erano fortemente impegnati per la salvaguardia dello status repubblicano della Serenissima e ferventi patrioti.
La simpatia dimostrata verso Cinq-Mars nel Lamento, oltre alla celebrazione del martirio di un noto libertino, si potrebbe leggere come una polemica antifrancese, che si colloca nel più generale quadro dell’anti-assolutismo veneziano che pervadeva, per esempio, anche l’Incoronazione di Poppea (1643). Venezia rimaneva pur sempre un’antica repubblica schiacciata tra monarchie sempre più grandi nell’epoca dell’assolutismo. Non possiamo quindi sospettare i libertini di eccessivo di filoispanismo, benché la drammaturgia dell’opera veneziana del medio Seicento si rifaccia largamente a quella spagnola, e il teatro è sempre politica. Anzi: le loro antenne nei confronti degli spagnoli dovevano essere ben ritte, memori della congiura attraverso cui la stessa Repubblica di Venezia era passata tra 1617 e ’18 e che avrebbe potuto comprometterne addirittura l’esistenza; è la cosiddetta congiura di Bedmar, ordita dall’ambasciatore spagnolo e anche questa raccontata, tra gli altri nel Novecento, da Hoffmansthal e nell’incompiuta Venezia salva di Simone Weil.
Il lamento di Barbara Strozzi
Il testo consta di dieci strofe per un totale di ottantasei versi endecasillabi e settenari liberamente alternati e legati da rime prive di uno schema prevedibile. Dal punto di vista musicale il brano è scritto per soprano, due violini e basso continuo, in forma libera (durchkomponiert, per i più temerari), cioè non strofica e priva di ritornelli. Si tratta di un lungo e articolato lamento, un topos nella drammaturgia operistica del medio Seicento, tanto che spesso i lamenti circolano come brani autonomi carichi di pathos e struggimento. Il brano di Strozzi spicca tra i molti lamenti di maniera per qualità compositiva: non si tratta di un’intonazione convenzionale e la compositrice sfodera una tale varietà di gesti e trovate musicali da creare un pezzo continuamente nuovo e sorprendente, nonché particolarmente sofferto e ispirato.

Sulle rive del Rodano, che bagna appunto Lione, giace il corpo senza testa di quello che fu Gran Scudiero di Francia e il suo fantasma perseguita il re, Luigi XIII le Juste. I versi descrivono senza risparmiare particolari macabri le sembianze del giovane e bell’Enrico, quel Cinq-Mars illividito dalla morte. La musica introduce la vicenda in piano stile recitativo, animando priva di prevedibilità ritmica il susseguirsi di settenari ed endecasillabi. Nella terza strofa il fantasma finalmente prende la parola e interroga il re sul perché l’abbia tradito; un primo picco melodico e una successiva fase di distensione viene raggiunta sul culmine dello sdegno dello spettro, quando lamenta una punizione eccessiva da parte del sovrano.
Enrico ammette però i suoi torti, e anche la musica pare farsi più accomodante, abbandonando il tono solenne e risoluto e ammorbidendosi su una linea melodica più ampia. La musica si rianima e si increspa di comatismi quando Enrico accusa Luigi di essere stato lui stesso la causa delle invidie degli altri cortigiani, concedendogli eccessivi e troppo scoperti favori. Prima della strofa centrale Strozzi inserisce un languido e sospiroso ritornello strumentale, un adagio teso di silenzi inquietanti.

Il lamento di Barbara Strozzi brilla per inventiva e potenza, per ricchezza di immagini evocate da una musica imprevedibile, che mescola con un’originalità solo sua stilemi e convenzioni della drammaturgia cameristica in quell’epoca di passaggio di consegne tra madrigale e cantata.
Giunge finalmente, nella sesta strofa, il ricordo delle benevolenze del re e dei piaceri cui volentieri si abbandonavano insieme: abbracci, tenerezze, giochi, battute di caccia.
Poesia e musica giocano su opposizioni e identificazioni: il re, abbracciando Enrico, gli anticipa implicitamente le torture; il morituro gli ricorda confidenzialmente quando meco godevi /di trastullarti in sollazzevol gioco scatenando così le invidie dei cortigiani che gli saranno fatali. Il gioco della palla e la caccia al cervo, illustrati musicalmente secondo la vetusta tradizione del madrigale, diventano simboli rispettivamente di un’oscillante condizione di favorito e del suo essere una vittima sacrificale.
Ma non sono questi rinfacci né recriminazioni, perché l’unico errore che Cinq-Mars imputa a Luigi XIII, anche nel momento estremo, è di averlo amato troppo e troppo apertamente. Tale soverchio amore viene reso musicalmente costruendo un nuovo climax melodico, con ripetizioni del testo che conferiscono il senso di urgenza e risoluzione, e infine con un delicato e sensuale ornamento sulla parola amore.
Le ultime tre strofe del lamento di Henri de Cinq-Mars si concentrano sull’invidia che gli è costata la testa e sulla transitorietà delle cose umane, tema tanto caro all’arte del Seicento: come dal tutto al niente è un breve passo sono le sue ultime parole chiuse da una secca cadenza e, nella partitura, da una doppia stanghetta.
Segue la strofa conclusiva, che ritrae il re turbato e intimorito dalla visione del volto dell’ex favorito. Il monarca piange, mostra pentimento e Parigi viene funestata da una sorta di piaga, colpita da un terremoto e dall’intorbidamento della Senna, rappresentata da un rumoristico tremolo del basso.
Il lamento di Barbara Strozzi brilla per inventiva e potenza, per ricchezza di immagini evocate da una musica imprevedibile, che mescola con un’originalità solo sua stilemi e convenzioni della drammaturgia cameristica in quell’epoca di passaggio di consegne tra madrigale e cantata.
A Venezia alle donne non era consentito occuparsi di politica, ma era loro facoltà influenzare chi l’avrebbe poi fatta attivamente.
In un’epoca in cui non sarebbe sembrato fuori luogo discutere, per esempio, sul fatto che le donne possedessero o meno un’anima, Barbara Strozzi – musicista, compositrice, probabilmente cortigiana – si collocava fuori dalla società, era un’outcast, e in quanto tale tacitamente autorizzata a farsi portatrice di una posizione politica. Posizione che lei stessa sposava? Mero megafono dei libertini e della fazione che appoggiavano?
Le fonti finora a nostra disposizione non ci permettono di saperne di più, ma ci autorizzano a constatare quanto lo studio di Barbara Strozzi e di altre figure a lei paragonabili illumini gli studi storici, oltre che quelli storico-musicali: il lamento Sul Rodano severo è uno straordinario esempio di come la musica sia un prodotto culturale, non un oggetto isolato nella teca di un ideale museo.
Il testo completo
Sul Rodano severo
giace, tronco infelice,
di Francia il gran scudiero,
e s’al corpo non lice
tornar di ossequio pieno
all’amato Parigi,
con la fredd’ombra almeno
il dolente garzon segue Luigi.
Enrico il bel, quasi annebbiato sole,
delle guance vezzose
cangiò le rose in pallide viole
e di funeste brine
macchiò l’oro del crine.
Lividi gl’occhi son, la bocca langue,
e sul latte del sen diluvia il sangue.
«Oh Dio, per qual cagione»
par che l’ombra gli dica
«sei frettoloso andato
a dichiarar un perfido, un fellone,
quel servo a te sì grato,
mentre, franzese Augusto,
di meritar procuri
il titolo di giusto?
Tu, se ‘l mio fallo di gastigo è degno,
ohimè, ch’insieme insieme
dell’ invidia che freme
vittima mi sacrifichi allo sdegno.
Non mi chiamo innocente:
purtroppo errai, purtroppo
ho me stesso tradito
a creder all’invito
di fortuna ridente.
Non mi chiamo innocente:
grand’aura di favori
rea la memoria fece
di così stolti errori,
un nembo dell’obblio
fu la cagion del precipizio mio.
Ma che dic’io? Tu, Sire – ah, chi nol vede?
tu sol, credendo troppo alla mia fede,
m’hai fatto in regia corte
bersaglio dell’invidia e reo di morte.
Mentre al devoto collo
tu mi stendevi quel cortese braccio,
allor mi davi il crollo,
allor tu m’apprestavi il ferro e ‘l laccio.
Quando meco godevi
di trastullarti in solazzevol gioco,
allor l’esca accendevi
di mine cortigiane al chiuso foco.
Quella palla volante
che percoteva il tuo col braccio mio
dovea pur dirmi, oh Dio,
mia fortuna incostante.
Quando meco gioivi
di seguir cervo fuggitivo, allora
l’animal innocente
dai cani lacerato
figurava il mio stato,
esposto ai morsi di accanita gente.
Non condanno il mio re, no, d’altro errore
che di soverchio amore.
Di cinque marche illustri
notato era il mio nome,
ma degli emoli miei l’insidie industri
hanno di traditrice alla mia testa
data la marca sesta.
Ha l’invidia voluto
che, se colpevol sono,
escluso dal perdono
estinto ancora immantinente io cada,
col mio sangue ha saputo
de’ suoi trionfi imporporar la strada.
Nella grazia del mio re
mentre in su troppo men vo,
di venir dietro al mio pie’
la fortuna si stancò,
Onde ho provato, ahi lasso,
come dal tutto al niente è un breve passo.»
Luigi, a queste note
di voce che perdon supplice chiede,
timoroso si scuote
e del morto garzon la faccia vede.
Mentre il re col suo pianto
delle sue frette il pentimento accenna
tremò Parigi e torbidossi Senna.