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Fra Harlem e Verdun

di Nicola Giaquinto - 10 Marzo 2025

Il concerto per la mano sinistra di Maurice Ravel

L’apice della carriera di Maurice Ravel viene quasi sempre fatto coincidere alla prima esecuzione dell’ormai celeberrimo Boléro (1928), opera di un magnetismo unico che ancora oggi sbandiera fieramente il proprio titolo sui programmi delle più grandi sale da concerto. Sembra quasi un ossimoro, quindi, come l’opinione del compositore francese nei confronti del brano che cementò il suo nome su tutti i manuali di storia della musica fu sempre estremamente critica.

Per Ravel il Boléro non era affatto il capolavoro che all’unisono veniva tanto osannato dalla critica, dal pubblico e dai suoi amici, bensì una grande scommessa andata fortunatamente a buon fine, un brano poco ispirato e privo di qualsivoglia raffinatezza armonica, nonché monito non solo del progredire della sua malattia, ma anche di un certo intorpidimento dell’intelligenza musicale Europea.

Fu l’insieme di tutti questi piccoli/grandi sassolini nella scarpa che il compositore, dopo aver passato un anno in tournée negli Stati Uniti, decise di dedicarsi ad un piccolo progetto che nascondeva nel cassetto da decenni e che, a detta sua, gli avrebbe portato molta più gratificazione a livello personale. Nel 1929 la maison Maurice Ravel di Montfort-l’Amaury si trasformò nel cantiere di quello che noi oggi conosciamo come il Concerto in Sol: un freschissimo divertissement in tre movimenti che prende le dovute distanze dalla ormai antiquata prassi post-romantica del pianoforte e l’orchestra come due titani in lotta per la supremazia.

Ravel stesso dichiarò che era sua intenzione cimentarsi nella scrittura di in un brano brillante ma non artificioso, un sentitissimo omaggio ai concerti ben più snelli di MozartSaint-Saëns che permetta al pianista di sentirsi virtuoso senza troppi fronzoli. A contornare tutto, il sound di quelle jazz band afroamericane che tanto lo affascinarono nel nuovo mondo… e un pizzico di sano iberismo per rendere il giusto omaggio alle sue amate origini basche.

Una ricetta con tutti questi ingredienti avrebbe garantito successo e appagamento ben migliori di quelli ricevuti dopo il Boléro, ma il caso volle che qualche mese dopo la stesura delle prime note, una particolare richiesta arrivò a scuotere le pareti del Belvédère.

Un cliente molto particolare

Paul Wittgenstein non aveva neanche ventisette anni quando, allo scoppiare della Prima guerra mondiale, si vide costretto a mettere il proprio sogno di fare il pianista da parte per difendere la sua patria. Il giovane austriaco proveniva da una famiglia estremamente altolocata e aveva riscosso – un anno prima dell’inizio del conflitto – un discreto successo nel suo primo recital pubblico, cosa che lo aveva spinto ad avvicinarsi sempre di più all’idea del concertismo prima del suo inevitabile reclutamento.

La carriera militare di Paul fu ben più breve di quella di suo fratello e filosofo Ludwig, ma gli costò molto più caro, in quanto a malapena qualche settimana dopo il suo arrivo sul fronte polacco venne ferito gravemente al gomito destro, lesione che venne inevitabilmente curata con l’amputazione totale del braccio.

Nonostante le gravissime circostanze, nemmeno la perdita di un arto fu però abbastanza tragica da spegnere la speranza del giovane pianista, il quale durante la sua lunga convalescenza in patria decise di dedicarsi all’affascinante e non tanto esplorata tecnica del pianismo per la mano sinistra, sottogenere musicale che ancora contava pochissime pagine di repertorio.

Questo impeto indomabile, unito ad una sostanziosa eredità ricevuta dal defunto padre, spinse Wittgenstein a commissionare interi concerti a compositori del calibro di Richard Strauss, Sergei Prokofiev e Benjamin Britten.

Si potrebbe dire che fu proprio lo scherzo del destino subito dal povero pianista ad essere progenitore di capolavori ancora oggi apprezzati come il Quarto Concerto (Op. 53)Diversions e, primo fra tutti, il Concerto pour la main gauche di un Maurice Ravel a fine carriera, e già disperatamente alle prese con il suo Concerto in Sol.

Tutto a portata di mano… o quasi

La richiesta di scrivere un concerto di questa natura non spaventò affatto Ravel. Al contrario, il compositore era ben al corrente dei vantaggi fisiologici della mano sinistra, con le dita più forti rivolte verso il registro della melodia e il mignolo ancorato al basso a sostenere il tutto… come d’altronde già di norma anche nella prassi pianistica “standard”.

Questo, unito al genuino sentimento di simpatia che nutriva nei confronti di Wittgenstein in quanto – come lui – veterano di guerra, lo spinse addirittura ad accettare il lavoro con cauta felicità, chiudendo un occhio sul fatto che il pianista austriaco era notoriamente scorbutico e perennemente insoddisfatto del lavoro di tutti i compositori con i quali aveva lavorato fino a quel momento. 

Il 1930 fu quindi un anno a dir poco arduo per Ravel, ancora tormentato dal fantasma del Boléro e al contempo schiacciato fra i due fuochi del Concerto in Sol e quello per la mano sinsitra. La premiere del primo, che spettava alla pianista Marguerite Long, venne addirittura rinviata ben due volte per permettere al compositore – già meticoloso e lento nella scrittura – di terminare il suo incarico per Wittgenstein, anch’esso con scadenza sempre più prossima.

Il Concerto pour la main gauche M. 82 vide la luce dopo anno e mezzo di notti insonni e digiuni punitivi, ma la prima prova – come del resto anche le seguenti – fu un totale disastro. Wittgenstein, estremamente contrariato dalla modernità e dalla natura a tratti jazzistica del brano, fece un vero e proprio lavoro di bricolage con la partitura tanto sudata da Ravel, eliminando sezioni intere, improvvisandone altre e suonando in maniera molto superficiale, quasi a simboleggiare il poco riguardo che aveva per il lavoro del compositore.

Storia di un trionfo

Per quanto Ravel e Wittgenstein arrivarono, alla fine dei fatti, ad odiarsi aspramente – addirittura quasi prendendosi a cazzotti – il grande trait d’union fra queste due figure a dir poco antipodiche è il fatto che entrambi erano rimasti orfani di qualcosa a seguito del grande conflitto che scosse l’Europa. Ravel non toccò mai un fucile, ma il suo periodo come autista di ambulanza fra le trincee di Verdun lo portò a vedere e a vivere delle cose che lo turbarono a tal punto da paralizzare parzialmente la sua capacità di esprimersi attraverso processi creativi, fattore che divenne poi addirittura di natura clinica aggravata vicino alla sua morte. La commissione di un concerto per pianoforte e orchestra da parte di un pianista che aveva addirittura perso un braccio parve quindi al il compositore come un ottimo pretesto per raccontare una storia di redenzione, di vittoria e di trionfo contro le sfide che la vita ci pone durante il suo decorso.

Il pianoforte irrompe zittendo l’orchestra con una delle cadenze più iconiche del repertorio, confermando il suo primato di protagonista attraverso una serie di veloci accordi dal sapore iberico, bagnati da una sfilza di pedali che creano una sonorità mistica e scivolano sulla tonalità di re maggiore.

L’inizio del concerto ricorda vagamente quello di La Valse – anch’esso, fra l’altro, frutto dell’esperienza raveliana sul fronte – con un inquieto e irrefrenabile accompagnamento da parte della sezione dei contrabbassi che, attraverso il continuo strusciare delle sole corde vuote, fa da tappeto sonoro alla prima melodia: una lenta e lugubre fanfara, affidata in modo per niente casuale al controfagotto. Questo particolare strumento – dal suono gravissimo e raramente melodico – innesca sin da subito un susseguirsi di cellule tematiche dalla solennità fantasma, sussurrate via via a strumenti dal colore sempre più acceso.

Il crescendo dell’orchestra, paragonabile al processo di eruzione di un vulcano, ribolle lentamente fino ad arrivare a stabilizzarsi su un fortissimo accordo quasi urlato dalle trombe, le quali in fare del tutto cerimoniale aprono il sipario al protagonista del concerto. Il pianoforte irrompe zittendo l’orchestra con una delle cadenze più iconiche del repertorio, confermando il suo primato di protagonista attraverso una serie di veloci accordi dal sapore iberico, bagnati da una sfilza di pedali che creano una sonorità mistica e scivolano sulla tonalità di re maggiore.

Approdati su quella che è la tonalità del brano – e dissipato il fuoco dell’introduzione – il tema di lenta fanfara inizialmente affidata al controfagotto risorge sotto nuove spoglie di barcarola, contornato da armonie di settima e di nona ben più dolci e malinconiche. Questo dolce canto viene però più volte interrotto da un energia cinetica disperatamente alla ricerca di un nuovo decollo e che, eventualmente, riesce a prendere il sopravvento con un ultima cascata discendente di note che glissa poi di nuovo verso l’alto, come una miccia che innesca l’orchestra in un nuovo esplosivo excursus puntato.

Su un nuovo pedale di Fa# il pianoforte emerge con il secondo tema, una melodia dolce ma distaccata in cui Ravel – come solito suo – cautamente apre la finestra sul suo lato un po’ più sentimentale.

Alla fine di questa piccola seconda cadenza si instaura un primo piccolo dialogo fra orchestra e solista, il tema di fanfara viene passato dall’oboe, ai clarinetti e poi agli archi mentre il pianoforte comincia a riscaldare la temperatura con delle veloci volate sull’intera tastiera. Il movimento aumenta di velocità ed intensità sino alla sezione che più adirò Wittgenstein: uno scherzo cromatico di sonorità nord-americane, dall’accompagnamento catchy e materiale tematico jazzy, ma allo stesso tempo di fattura quasi militare.

Inizia così un nuovo bellissimo dialogo fra il pianoforte e l’orchestra, i quali non sono più separati dalla barriera invisibile del solista contro l’accompagnatore, ma si corteggiano a vicenda in una ritualistica danza di morte in chiave jazz.

Inizia così un nuovo bellissimo dialogo fra il pianoforte e l’orchestra, i quali non sono più separati dalla barriera invisibile del solista contro l’accompagnatore, ma si corteggiano a vicenda in una ritualistica danza di morte in chiave jazz.

Una piccola parentesi pentatonica collassa su un nuovo gigante crescendo, iniziato dal canto del fagotto accompagnato dai pungenti accordi degli archi. In questa sezione di crescendo – spiritualmente vicina a quello del Boléro – il tessuto armonico-sonoro si fa sempre più denso, con la graduale corruzione della melodia, l’introduzione del ritmo militare del tamburo e le continue irruzioni del pianoforte, il quale, attraverso un’ultima e frenetica serie di accordi, riporta ad una fortissima ripresa del tema puntato di fanfara, quest’ultima in veste ancora più trionfale. 

Nell’ultima grande cadenza del concerto, anch’essa contestata dal dedicatario per la troppa pienezza, la mano sinistra riavvolge il nastro della narrazione tornando al principio, riportando l’ascoltatore all’ectoplasma sonoro dei contrabbassi e la lugubre melodia iniziale del controfagotto.

È incredibile notare come in quest’ultima parentesi pianistica Ravel riesca a creare una sonorità unica, capace addirittura di celare il fatto che una sola mano abbia il potere di intonare la malinconica melodia contornata da un magico polverio di note velocissime. All’addensarsi della texture pianistica, l’orchestra bruscamente si intrufola e declama per un’ultima volta la trionfale tonalità di re maggiore, per poi chiudere il concerto con una beffarda frustata finale sotto forma di glissando.

Nonostante un percorso tumultuoso, il rapporto sempre più gelido che intercorreva fra Ravel e Wittgenstein e un battesimo di fuoco presso l’ambasciata d’Austria a Parigi il 5 gennaio 1932, la ricezione del Concerto pour la main gauche fu ben migliore di quella che il compositore si sarebbe mai aspettato ed esso è tuttora considerato una delle sue più sublimi pagine, nonché l’ultima grande opera scritta prima della sua morte nel 1937.

Nicola Giaquinto

Autore

Sammarinese e pianista per scherzo del destino. Appassionato di musica francese, cucina e neuroscienze… tutte cose che col passare del tempo mi stanno rendendo sempre più radical chic e incapace di intrattenere rapporti umani.

I miei successi più grandi sono aver imparato l’opera omnia di Ravel e aver preparato la piadina senza glutine.

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