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L’Angelo di Fuoco di Prokofiev

di Lorenzo Pompeo - 21 Maggio 2019

non solo “Una Carmen con effetti speciali”

Che si tratti di musica, arte o letteratura, nella Russia tra ‘800 e ‘900 non sarà raro di imbattersi in diavoli, demoni e demonietti che si insinuano nella cromatura del reale, agitando gli eventi e, soprattutto, le coscienze. Basterebbe sfogliare Dostoevskij per far affiorare dalle pagine il diavolo che devasta la mente di Ivan Karamazov, ma ancora di più al Diavolo nella leggenda del Grande Inquisitore. Incrociando sensibilità cristiana e antichità pagane ed epiche, il demoniaco si fa strada come topos irrinunciabile dell’arte russa del tempo. Infatti, quanto accennato per la letteratura, può dirsi con altrettanta concretezza per quanto riguarda la musica. Skrjabin e Mussorgskij, soltanto per fare due nomi, hanno regalato alla storia della musica partiture celeberrime intrise di questo spirito, dove il motivo del demoniaco si fa occasione, per il compositore, di forma, armonia e timbrica ardita e oltre l’idea stessa di dissonanza.

Meno immediato sorge il riferimento a questo tema di un altro grande nome della musica russa, ossia Sergej Prokofiev.  In verità, volgendosi al suo catalogo di opere con occhio più attento, esso risulta quanto mai opportuno. La preliminare esclusione dal novero dei musicisti che trovarono ispirazione in questo tema è dovuta, forse, alle “etichette storiografiche” che ne ha connesso il lavoro con tematiche d’altro genere, principalmente volte alla cultura e alla storia nazionali. In questo modo passa spesso inosservata un’opera come L’angelo di fuoco op.37, nella quale si fa strada tutt’altra sensibilità. In essa naturale e soprannaturale si fondono in un’unica matrice policromatica dove i personaggi devono far conto di presenze la cui azione è per essi incontrollabile e che, soprattutto, li mette in gioco sul piano morale ed esistenziale, ponendoli ad un aut-aut irriducibile nella scelta tra perdizione e redenzione salvifica, sancendo così la fondamentale sfumatura dell’opera come di un “dramma etico” ma, allo stesso tempo, profondamente esistenziale: le singole vicende umane dei personaggi sono continuamente sottoposte a tortuosi rivolgimenti dell’Io, costretti ad esplorarsi nell’inattingibile Ombra junghiana.

Una travagliata vicenda compositiva

La composizione e la messa in opera dell’Angelo hanno avuto una vicenda quasi altrettanto travagliata, anche perché opinioni della critica, teatri e rispettivi direttori da convincere alla messa in scena seppero ostacolare il successo dell’opera in maniera quasi diabolica. Prokofiev vi si dedicò scottato dalle critiche americane incorse a L’amore delle tre melarance iniziando a lavorare alla nuova opera a New York nel 1920. L’Angelo trovò parziale conclusione nel 1923 durante un soggiorno ad Ettal, nelle Alpi bavaresi, e definitiva stesura nel 1927, quando fu offerta a Bruno Walter, interessatosi all’opera, in vista di una possibile esecuzione a Berlino. Già nel corso degli anni precedenti, ma ancora di più in vista di questa possibilità, Prokofiev lavorò instancabilmente all’orchestrazione dell’Angelo, ma, almeno dal punto di vista pratico, il lavorò risultò inutile perché la messa in scena non si tenne mai né a Berlino, né altrove se non a Parigi, ma in forma di concerto e limitatamente al secondo atto, nel 1928. Forse a causa di questi tentativi frustranti Prokofiev ritenne opportuno non “sprecare” gli ottimi materiali musicali che riteneva di aver elaborato nella stesura dell’Angelo rielaborandone i temi nella composizione della Terza Sinfonia op.44, sempre del 1928.

https://www.youtube.com/watch?v=L_wqNphvxyg

Fu solo nel 1952 che l’opera venne riscoperta, ma fu troppo tardi, poiché si arrivò a rappresentarla solo nel 1954 ancora in forma di concerto e finalmente al Teatro La Fenice di Venezia nel 1955 con completa messa in scena: troppo tardi perché nel frattempo, nel 1953, Prokofiev morì di emorragia cerebrale lo stesso giorno di un altro demonietto della storia russa, Iosif Stalin. In un certo senso, queste difficoltà fanno dell’Angelo di fuoco un significativo exemplum della costante tensione di Prokofiev verso la novità della ricerca e dell’avvenire. L’Angelo travalicò il confine della vita di Prokofiev, dal momento che fu condotto a definitivo compimento nel futuro oltre la vita del compositore, premiandone tenacia e coraggio e consegnando all’opera il tanto atteso e sperato successo che Prokofiev aveva cercato in vita.

Vita e dramma: un susseguirsi di peripezie

Tra le reazioni dell’epoca colpisce quella di una rivista britannica, The New Statesman, a firma di Jeremy Noble. Il giornalista sintetizza l’opera in un’espressione che merita d’esser riportata in lingua originale:

[blockquote cite=”Jeremy Noble, The New Statesman” type=”left”]”A sort of 16th-century Carmen with super-natural trimmings.”[/blockquote]

In pratica, nient’altro che una Carmen con effetti speciali. Fortunatamente, come a quanto pare non è mai decollato il rapporto tra Prokofiev e gli Stati Uniti, allo stesso modo non si sono affermate riduzioni così semplicistiche dell’Angelo. Dicasi lo stesso per tutte quelle che, nel corso degli anni, si sono concentrate solo sul comprendere quanto la presenza soprannaturale fosse effettivamente reale o quanto frutto della condizione mentale della protagonista, o questioni di trama spicciola quali comprendere se l’angelo Madiel fosse buono o cattivo. Tutte queste semplificazioni non appartengono alla complessità voluta e ricercata da Prokofiev nel mettere in campo la vastità di dimensioni compenetrantisi che investono i rapporti tra reale e sovrannaturale, sacro e profano, bene e male, uomo, Dio e demoniaco.

La vicenda da cui Prokofiev elaborò il libretto è tratta da un romanzo dello scrittore simbolista Valerij Brjusov (1873-1924) che, con un procedimento che ricorda quello manzoniano ne “I promessi sposi”, simula il ritrovamento di un manoscritto della Germania di XVI secolo che racconta la vicenda di Renata, donna tormentata sin da giovane età da apparizioni demoniache che la condurranno alla rovina. Non poteva darsi interesse a un soggetto simile senza tener conto di un certo interesse che Prokofiev nutriva per temi mistici, ma sicuramente questi vanno intrecciandosi a un’accurata elaborazione musicale.

Dal principio dell’opera l’ascoltatore è introdotto alle costanti musicali che contraddistinguono la musica “demoniaca”: la comparsa in scena di Renata in preda a una visione diabolica è già contraddistinta da inquietanti ostinati ritmici, appenna sussurati con la voce tremante e con la ripetizione ossessiva di formule volte a cacciare il demonio. È Ruprecht, cavaliere alloggiato nella stessa locanda di Renata, a soccorrere la donna scacciandolo: a causa di ciò, gli tocca ascoltare tutta la storia raccontata da Renata che occupa quasi per intero il Primo Atto. Passa quasi inosservato che lei già conosca e pronunci il suo nome nonostante sia il loro primo incontro di fronte alle vicende narrate. Parla di una visione angelica, più che demoniaca, di Madiel’, che l’accompagna da tempo immemore fino al punto in cui, desiderando di congiungervisi carnalmente, viene respinta.

https://www.youtube.com/watch?v=abaxUdpHhbM

L’assenza la tormenta, fino al momento in cui si comprende che potrà unirsi all’angelo che ha assunto forma umana attraverso il conte Heinrich, nobile di Colonia. Ruprecht si decide ad accompagnarla allora a Colonia, per congiungersi ad Heinrich, mostrandosi già molto attratto e in balia di lei. Si mostra tale durante gli atti di spiritismo che occupano il secondo atto, che lo condurranno ad addentrarsi nel mondo della magia, ma soprattutto nel Terzo, dove decide di sfidare Heinrich a duello spinto dalla rabbia feroce di Renata. Appena dichiarata aperta la contesa, Ruprecht deve tuttavia constatare che Renata, dopo aver visto Heinrich affacciato ad una finestra, ha riconosciuto in lui l’Angelo e che quindi non dovrà in alcun modo ucciderlo se non vuole incorrere nella sua ira.

Sorprendente, ma non quanto accade durante il duello. Ruprecht viene ferito gravemente e Renata si abbandona ad una enfatica dichiarazione d’amore, uno dei vertici di lirismo più alti dell’opera, promettendogli assoluta fedeltà se fosse sopravvissuto.

Ciononostante, nel Quarto Atto si assiste ad un’ulteriore mutamento interiore di Renata, che rifiuta sprezzante Ruprecht in favore della scelta monastica, definendo il loro rapporto come viatico al Peccato. In un momento di grande scoramento dovuto a quest’ulteriore isteria, Ruprecht fa l’incontro di due nuovi personaggi che approfondiscono il suo personale anti-viaggio eroico, all’interno dell’occultismo e dello spiritismo: Faust e Mefistofele, che permettono anche di inserire momenti di (tetro) umorismo.

La separazione tra Ruprecht e Renata porta al monumentale Quinto Atto, vero apice espressivo dell’opera, che sancisce l’epilogo tragico della vicenda di Renata. Il monastero che la ospita viene rapito dalla stessa follia allucinata che vive Renata, le suore sono tormentate da apparizioni e incubi tali da costringere a rivolgersi ad un inquisitore. Il quadro che ne consegue è la più vivida espressione della follia demoniaca che pervade l’opera con la sua costante presenza. L’inquisitore recita le sue formule tra suore danzanti invasate, Ruprecht osserva la scena dall’alto e vorrebbe intervenire, ma Mefistofele lo dissuade.

Renata, fatalmente, viene condannata al rogo, e il dramma si mostra duplice. Oltre alla morte materiale, Renata si oppone strenuamente alla condanna con forza incredula di chi, sentendosi vittima, deve pagare le conseguenze di azioni altrui. Renata è costretta a soccombere al giudizio di carnefici che dipingono lei come colpevole, invece di soccorrerla e condurla alla salvezza. Come gli antichi eroi, Renata muore sotto l’azione di altri mondi che intervengono nel piano orizzontale dell’umano decidendo le sorti dei personaggi e delle loro vite, immolate sotto i colpi non di un impersonale fato, ma di volontà avverse e infide.

L’uomo ad ogni dimensione

Continua fusione di ricerca modernista ed eredità simbolista, l’Angelo di Fuoco può essere definito un grande poema dell’ambiguo. L’ambiguità, o la compenetrazione dei piani che li rende indistinguibili e inseparabili da occhi e mani dei singoli uomini, privati continuamente dei loro riferimenti. Le dicotomie dinamiche che vengono continuamente riproposte rendono impossibile comprendere dei confini definiti in cui i personaggi possano orientarsi, frammentati di continuo nella loro interiorità dagli avvenimenti che gli si presentano. Emblematica, in tal senso, è una citazione di Renata nel Quinto atto.

   Dove la santità è vicina,
   lì si annida lo spirito del male.

La musica stessa compenetra l’ostinato demoniaco a struggenti sezioni liriche o addirittura, nel Quinto Atto, antico contrappunto medioevale a tecniche moderne. Soprattutto, la musica condensa la fusione di naturale e soprannaturale nel tema che accompagna le visioni di Madiel da parte di Renata. Infatti, esso riecheggia anche nella figura incarnata dell’Angelo, il conte Heinrich. In Renata, protagonista tragica del dramma, l’identificazione è totale, ma l’orchestra stessa e Ruprecht convergono verso questo riconoscimento.

Si è condotti, all’ascolto dell’opera, ad assecondarne interiormente le vertigini ritmiche e timbriche, a patire in sé tutta la sua irritualità, le sue anarchie spirituali. Misticismo, ombra e voragini della psiche, divino e demoniaco, uomo e donna, estremi condotti nelle proprie viscere e nei conseguenti precipitati, esplorati sgretolandone le pareti come solo la coscienza di un fine uomo del Novecento poteva fare, condensati in musica con modernità ricercata e dialogante che Prokofiev ha sempre cercato di mettere in opera. Grandezza tumultuosamente dispiegata anche nell’Angelo di Fuoco, troppo a lungo dimenticato o frettolosamente giudicato.

Lorenzo Pompeo

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