Ultimo aggiornamento17 giugno 2025, alle 12:39

O Britten o morte

di Carlo Emilio Tortarolo - 12 Maggio 2025

C’è qualcosa di inspiegabilmente silenzioso nella ricezione italiana di Benjamin Britten. 

Malgrado sia il compositore inglese più importante del Novecento (e probabilmente non solo di quel secolo), l’autore del War Requiem, del Peter Grimes e di pagine cameristiche e orchestrali eseguite in tutto il mondo, in Italia Britten appare raramente nei nostri palcoscenici. 

Il caso di Britten è emblematico non tanto per la marginalità dell’opera inglese in Italia (una costante storica), quanto per la specificità della sua poetica. La musica di Britten parla una lingua tutta novecentesca, fatta di dolore trattenuto, lirismo esposto, contrappunto psicologico. 

La musica di Britten parla una lingua tutta novecentesca, fatta di dolore trattenuto, lirismo esposto, contrappunto psicologico. 

Il suo lessico tonale non è mai ingenuo, ma non ha neppure il gusto iconoclasta della rottura. 

E soprattutto, a percorrerlo tutto, si avverte una pulsione costante: il confronto ineludibile con la morte. Una morte concreta, storica, carnale. Che non è solo destino individuale, ma trauma collettivo, eredità impossibile da dimenticare, condizione stessa dell’espressione.

Non si tratta solo di una questione di gusto. 

A mancare è anche la consuetudine con una poetica musicale profondamente radicata nella lingua inglese, nel protestantesimo culturale e in una concezione della morte — e del teatro — lontana dalla retorica latina.

Due lavori emblematici in questo senso sono The Rape of Lucretia (1946) e il War Requiem (1962), diversissimi per linguaggio e impianto ma accomunati da una riflessione centrale: 

come dire la morte senza retorica? come articolare un lutto che è insieme individuale e storico?

Caso vuole che proprio in Italia, congiunzione più unica che rara dato che non ci sono anniversari in gioco, nello spazio di meno di un mese entrambe le opere siano state rappresentate e che mi sia stato possibile seguire questa scintilla britteniana inaspettata nel fienile operistico italiano.

La morte come centro della scena: The Rape of Lucretia

Composta all’indomani della Seconda guerra mondiale, come risposta intima e quasi ascetica alla distruzione recente, The Rape of Lucretia è la prima opera da camera di Britten, e anche la prima collaborazione con il poeta Ronald Duncan. La vicenda, ripresa da Tito Livio e da Shakespeare, racconta lo stupro della nobildonna romana Lucrezia da parte di Tarquinio, figlio del re. 

La tragedia culmina nel suicidio della protagonista e nel gesto fondativo della Repubblica romana. 

Ma nella scrittura di Britten tutto si sposta sul piano dell’interiorità. Lo stupro è suggerito, non c’è spettacolarizzazione del dramma. La tensione psicologica prevale sul gesto scenico. E la morte non è solo epilogo, ma chiave interpretativa dell’intera narrazione.

Il ruolo della morte in Lucretia è musicale prima che drammatico. Si manifesta nella scrittura vocale spoglia, nella riduzione estrema dell’organico orchestrale (appena tredici strumenti), nell’uso selettivo dei timbri per delineare stati dell’anima. 

Il gesto suicida di Lucrezia è accompagnato da un tessuto armonico rarefatto, che sospende ogni finalità tonale. Non c’è redenzione: la musica non risolve, ma accompagna verso l’abisso di un interrogativo spalancato. Il dolore, come il senso, resta incompiuto.

A sovrastare tutto, c’è l’ambigua presenza dei due personaggi corali (Male Chorus e Female Chorus) che narrano e commentano l’azione, in una cornice cristiana all’interno di una rappresentazione tragica greca per garantire una universalizzazione della vicenda. 

Il loro tentativo di “redimere” la storia con una lettura salvifica stride con la brutalità degli eventi, turbando il pubblico in questo contrasto.

Il trauma della guerra: War Requiem

Se in Lucretia la morte è tragedia intima, nel War Requiem passa su scala monumentale. Commissionato per la riapertura della cattedrale di Coventry, distrutta dai bombardamenti tedeschi del 1940, è forse una delle opere pacifiste più potenti del XX secolo

Commissionato per la riapertura della cattedrale di Coventry, distrutta dai bombardamenti tedeschi del 1940, è forse una delle opere pacifiste più potenti del XX secolo. 

Britten unisce il testo latino della Messa da Requiem con le poesie di Wilfred Owen, poeta-soldato morto nelle trincee della Prima guerra mondiale. 

La sovrapposizione dei due piani crea un cortocircuito semantico: liturgia e testimonianza, rito e carne, si intersecano senza risolversi, coesistono senza armonizzarsi.

La struttura è tripartita: grande orchestra, soprano solista e coro per il Requiem latino, tenore e baritono solisti con orchestra da camera per le poesie di Owen, e coro di voci bianche con organo in posizione separata. Questa struttura polifonica è essa stessa una dichiarazione ideologica. Il dolore privato dei soldati non è assorbito dal rito pubblico; resta un grumo irrisolto, non pacificato perché il rito ecclesiastico non basta per contenerne l’orrore.

La musicalità di Britten qui raggiunge un’intensità di trasparenza quasi crudele. 

Il celebre Libera me finale, con l’ultima poesia di Owen (Strange Meeting), in cui due soldati — nemici in vita — si riconoscono nella morte, è uno dei momenti più strazianti della letteratura musicale del Novecento. La voce baritonale dice: “I am the enemy you killed, my friend”, e la scrittura orchestrale, invece di esplodere, si ritrae in un silenzio sospeso, con gli archi appena sfiorati e l’organo isolato. È un finale senza catarsi. Non c’è consolazione, ma solo il riconoscimento del dolore.

Il War Requiem fu accolto da un successo straordinario in Inghilterra, ma trova irrimediabilmente poco spazio in Italia (non che The Rape of Lucretia sia da meno). Le esecuzioni, a partire dalla celebre esecuzione del 1970 di Carlo Maria Giulini, si contano su un paio di mani. 

Forse perché entrambe, come molto della produzione di Britten, ci pone una domanda scomoda: come si può rappresentare la tragedia umana (violenza, omicidio, massacro, corruzione dell’anima) senza falsarne il senso? 

Ecco Britten, intellettuale profondamente coinvolto nei drammi del suo tempo, pacifista convinto, omosessuale in un’epoca di criminalizzazione, che scelse un linguaggio musicale che rifuggiva i codici virili del sinfonismo tardo-romantico. Tutto in lui parla di sottrazione, di fragilità, di attenzione per i margini. Se vi aspettate risposte, non le avrete perché rifiuta l’estetizzazione dell’orrore.

Ho trovato incredibilmente significativo e catartico che ad avere il coraggio di portare in scena Britten siano state realtà che ad un certo punto della loro storia più o meno recente abbiano dovuto guardarsi all’interno per superare difficoltà e problemi: il Petruzzelli di Bari e il duo Maggio Musicale Fiorentino – Orchestra Regionale della Toscana.

Le eccezioni che (r)esistono

Nel mese di aprile, la Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari ha proposto una nuova produzione di The Rape of Lucretia, offrendo al proprio pubblico un’occasione che come visto è rara nel panorama operistico italiano: non solo un titolo fuori repertorio, ma un invito esplicito a un’esperienza d’ascolto e visione concentrata, intima, esigente.

La regia di Yannis Kokkos, che firma anche scene e costumi, ha scelto un impianto di rigorosa essenzialità: pochi elementi, un uso calibrato dello spazio e una drammaturgia che si stringe attorno all’interiorità dei personaggi, alle loro tensioni etiche e psichiche. Le luci, disegnate da Vinicio Cheli, hanno contribuito a creare un’atmosfera rarefatta, in equilibrio costante tra esposizione e ritiro, tra parola e silenzio. Una resa visiva in sintonia con la poetica di Britten, che nella sottrazione trova la sua cifra più autentica.

Sul versante musicale, Jordi Bernàcer ha diretto con attenzione alle trasparenze timbriche e alle linee di tensione interne alla partitura. Senza forzare soluzioni moderniste, ha valorizzato l’intelaiatura tonale dell’opera, esaltandone la scrittura vocale e la flessibilità drammatica dell’organico da camera. Una direzione capace di mediare tra rigore analitico e comunicazione diretta.

Il cast vocale ha dato prova di grande coerenza stilistica e spessore interpretativo. Stefanie Irányi ha costruito una Lucretia misurata e vibrante, tragica senza mai declinare nel patetico. Moritz Kallenberg e Caterina Dellaere, nei ruoli del Male e Female Chorus, hanno sostenuto la narrazione con intensità lucida, mentre Christian SennMarco Spotti e Rory Musgrave hanno delineato figure maschili complesse, lontane da ogni semplificazione. Completano il cast Nicole Piccolomini e Francesca Benitez, precise e partecipi nel dare corpo alle ancelle della protagonista.

A sorprendere, al di là della qualità artistica, è la genesi stessa della produzione: realizzata in un momento in cui buona parte delle masse artistiche del teatro era impegnata in tournée all’estero, il progetto avrebbe potuto apparire come un riempitivo, un atto dovuto per non arrestare la macchina teatrale. Invece si è rivelato un gesto coraggioso e riuscito. 

Un piccolo oggetto lirico non identificato, capace di testimoniare, in un teatro spesso legato a meccanismi ripetitivi, che lo spazio per un’alternativa esiste. Basta volerla.

Il 3 maggio 2025, invece, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha ospitato un’esecuzione unica del War Requiem, frutto della collaborazione tra l’Orchestra e il Coro del Maggio, l’Orchestra Regionale della Toscana e il Coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio. Alla direzione, Diego Ceretta, attuale direttore musicale dell’ORT, ha affrontato con lucidità e misura una partitura che resta tra le più complesse e sfaccettate del repertorio sacro novecentesco.

Già la sola scelta di proporre il War Requiem — per organico, impegno e impianto drammaturgico — rappresenta una deviazione significativa rispetto alle abitudini programmatiche del circuito sinfonico italiano. Ma ancor più rilevante è che a farlo sia stato un giovane direttore italiano, smentendo l’idea — ancora diffusa — che il repertorio estero debba restare appannaggio delle bacchette estere. Una scelta che, senza necessità di proclami, ha affermato una forma concreta di competenza e visione artistica.

Ceretta ha guidato con equilibrio le tre forze orchestrali in campo, gestendo le tensioni tra i diversi piani dell’opera — la liturgia in latino, le poesie di Wilfred Owen, il coro di voci bianche — senza appiattirne le differenze ma anzi esaltandone il dialogo drammaturgico. Il suo gesto ha rifiutato ogni ridondanza, optando per una chiarezza espressiva che ha permesso alla complessità della partitura di emergere con naturalezza.

Il cast vocale non è stato da meno. Elizaveta Shuvalova ha sostenuto la linea del soprano con autorevolezza e limpidezza, mentre Ian Bostridge e Dietrich Henschel, tenore e baritono solisti, hanno incarnato con intensità il dualismo poetico di Owen.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, Britten non è un autore inaccessibile. La sua scrittura è diretta, funzionale, costruita per essere detta e ascoltata. Ma richiede rigore, coerenza, un’idea chiara di cosa si vuole raccontare. Ceretta ha dimostrato di possedere tutto questo. E l’esito, accolto da un pubblico partecipe e silenzioso, è stato una delle proposte più rilevanti dell’attuale stagione sinfonica italiana. 

L’assenza di Britten dal panorama musicale italiano allora non è solo un fatto statistico: è il segnale di una difficoltà più ampia della nostra cultura teatrale nel confrontarsi con una forma di modernità non riconducibile alla genealogia centroeuropea. Il suo linguaggio, saldamente ancorato alla tonalità ma privo di ogni funzione consolatoria, narrativo senza indulgere al melodramma, fatica a trovare spazio in un ecosistema operistico ancora dominato da Rossini, Verdi e Puccini. Un repertorio che, per quanto imprescindibile, tende a occupare quasi interamente il campo della progettualità artistica.

Ma è forse nella sua idea di teatro — fatta di simboli più che di azioni, di tensioni interiori più che di sviluppi esteriori — che si consuma la distanza più profonda. Il teatro musicale di Britten si fonda su una grammatica dell’allusione, è un teatro che lavora per sottrazione, e che trova la sua forza nello squilibrio, nell’inadeguatezza dei mezzi espressivi rispetto al trauma che cerca di raccontare

In un’epoca segnata da traumi collettivi, storici, politici, ambientali, e da una crescente incapacità di elaborarli con onestà, Britten rappresenta un caso raro di rigore etico oltre che musicale.

Una forma di essenzialità che può risultare straniante per un pubblico abituato a un impatto visivo e vocale più diretto.

Eppure è forse proprio qui che risiede la sua attualità. In un’epoca segnata da traumi collettivi, storici, politici, ambientali, e da una crescente incapacità di elaborarli con onestà, Britten rappresenta un caso raro di rigore etico oltre che musicale. La sua musica non offre consolazione. Non cerca di pacificare. Ma nel modo in cui accoglie il dolore, senza trasfigurarlo né sublimarlo, diventa uno spazio di ascolto radicale. Ascoltarla, oggi, è un atto di responsabilità.

Nel frattempo, mentre buona parte del dibattito teatrale continua a concentrarsi sulle ennesime riletture di rottura di titoli ottocenteschi, tra proclami registici, pose direttoriali e progetti curatoriali dai contorni sempre più indistinti, esiste un altro orizzonte possibile. 

Un orizzonte che non alza la voce, che non ha bisogno di dichiararsi innovativo, ma che sa ancora scuotere. 

Come la musica di Britten: sommessa, ma capace di urlare nel vuoto.

Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

tutti gli articoli di Carlo Emilio Tortarolo