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Musica e architettura: The Brutalist

di Margherita Succio - 11 Marzo 2025

Vincitore dell’Oscar per la migliore colonna sonora, migliore attore protagonista e migliore fotografia, The Brutalist è un monumento cinematografico, sorprendente e angosciante: accolto tra onorificenze e non poche discussioni, è un film per il cinema, un omaggio al medium e destinato a chi non cerca intrattenimento, ma una storia che smuova. Elemento collante di tutta la pellicola è la colonna sonora, firmata da Daniel Blumberg.

The Brutalist racconta la resilienza senza mezzi termini dell’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947 dopo esser sfuggito dal campo di concentramento di Dachau. Il titolo è un richiamo allo stile architettonico coprotagonista e scenografia del film, alla personalità di László ma soprattutto alla brutalità umana raccontata senza filtri che s’insinua, solo pallidamente nascosta dal benessere, nel sogno americano e nell’illusione del boom economico occidentale. Racconta l’antisemitismo nella sua violenza più estrema e attuale, e la conseguente resilienza machiavelliana che costringe László e la sua famiglia a perseguire e resistere, come il cemento dei suoi edifici, al tempo e ai soprusi in nome della destinazione.

Brady Corbet firma un film che capovolge la simbologia e la narrazione classica e rapida, con una struttura rigida e tempi lunghi che costringono il pubblico ad attendere, a non comprendere fino in fondo le motivazioni dei personaggi, il loro iter all’interno della sceneggiatura; il brutalismo trasuda ovunque, nella fotografia, nella sceneggiatura e nella sperimentazione musicale che se all’inizio sembra un contorno, un addobbo, si trasforma presto in parte delle fondamenta del linguaggio del film. Si riconosce un gusto sorprendentemente poco occidentale e ancor meno americano nelle scelte stilistiche ed estetiche: l’uso diffuso della narrazione fuori campo cruda e spietata di Pasolini, la lentezza e la contemplazione dell’isolamento di Tarkovskij, un approccio neorealista, che sembra a tratti sfociare in un tentativo documentaristico che ricorda l’opera di Visconti.

Il suono nella sceneggiatura

Corbet ha però un approccio anche al suono e al suo potenziale molto netto (brutalista), con indicazioni precise e spesso senza transizioni né dissolvenze da o verso il dialogo.

L’inserimento di cues e onomatopee, o qualunque tipo di indicazione musicale è un fenomeno piuttosto normale all’interno di una sceneggiatura. Corbet ha però un approccio anche al suono e al suo potenziale molto netto (brutalista), con indicazioni precise e spesso senza transizioni né dissolvenze da o verso il dialogo. L’elemento sonoro esiste e si isola, non viene evocato da una parola o un’immagine, né s’introduce nel discorso. In due scene fondamentali del film – l’incipit e la scena al jazz bar – Corbet e Blumberg esaltano quest’idea all’estremo inserendo l’elemento musicale direttamente sul set. Per la scena iniziale dell’arrivo di László a New York, Blumberg racconta la volontà del regista di avere sul set Overture, la prima traccia originale, riprodotta a tutto volume durante le riprese, con l’obiettivo di immergere la scena in questa trionfale, angosciante accoglienza sonora caratterizzata da ottoni, pianoforti preparati, sonorità contrastanti che ricordano il suono del mondo operaio, della povertà, le sirene delle navi e la promessa brillante e apparente di una nuova vita.

In un’estesa intervista per Score: The Podcast, Blumberg racconta l’aneddoto nel dettaglio e sottolinea la doppia esigenza di permettere a musica e recitazione, suono e fotografia di inserirsi l’una dentro l’altra, di creare una connessione più profonda e cruda e costringere l’osservatore ad ascoltare e guardare con la stessa intensità. Facendo un confronto banale con il concetto del musical, in cui la musica diventa narrazione attraverso il canto e viceversa – elemento che, per quanto possa essere costruito in modo efficace e fluido, come per esempio in La La Land o Annette, introduce inevitabilmente un elemento di finzione, o almeno di inverosimile – costruire una colonna sonora e tesserla così finemente alla fotografia e alla regia ne sottolinea in questo caso la durezza, l’instabilità e la sperimentazione.

Improv sul set: Ennio Morricone, ma più estremo

Un altro aspetto interessante, per quanto ormai collaudato e non più nuovo, è la scelta di avere musicisti in scena e presentare una sessione di improvvisazione sul set, o comunque affidare parte delle tracce all’improvvisazione di un gruppo di musicisti: per ricordare un esempio tutto italiano, ci aveva già pensato Ennio Morricone con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza nel 1971 per Gli occhi freddi della paura di Castellari e, più recentemente, per il film di Giuseppe Tornatore La Corrispondenza nel 2016.

In una scena asfissiante in cui László Tóth fa esperienza del tipico locale jazz nella New York di quegli anni, i musicisti scelti da Blumberg in scena improvvisano e trasformano in musica quello che László attraversa nella scena, ovvero la confusione della solitudine e dell’angoscia dalla quale il protagonista tenta di sfuggire per tutto il film, insieme al suo interesse (incostante ma vero) per tutto ciò che vede e incontra in questa città. I musicisti scelti rielaborano e portano sul set il tipo di improvvisazione che Blumberg conosce molto bene, per prossimità stilistica e geografica. Il Cafè Oto di Londra è il locale d’avanguardia frequentato dal compositore e l’ispirazione principale di questa scena.

L’avanguardia dell’improvvisazione presentata nella scena si sovrappone al gusto classico e all’accento storico accurato dell’architettura di una jam session, la sua gerarchia e il modo in cui Corbet decide di fotografarla: inevitabile è il confronto con uno dei tanti esempi del jazz nel cinema, Fabulous Dorseys, uscito nel 1947 (anno in cui è ambientata la prima parte del film):

Corbet va però oltre l’idea classica di rappresentazione di una jam session e conduce, incoraggia attori e direttore di fotografia a muoversi, a lasciarsi governare pienamente dall’improvvisazione. Il risultato è una scena quasi asfissiante, nella quale sembra di riuscire a sentire l’odore di fumo e di chiuso, l’adrenalina che vibra nel locale e l’aria viziata.

L’eco del marmo

Pensavamo a una colonna sonora senza nulla di ornamentale. Una che risultasse sia minimalista che massimalista. Che rappresentasse il movimento, in un certo senso.

Brady Corbet per The Hollywood Reporter

I tecnici del suono e i professionisti che hanno vissuto almeno una volta l’esperienza quasi magica della registrazione in studio hanno familiarità con la possibilità di inserire il riverbero della Carnegie Hall in un traccia: ricordo personalmente lo shock (e un vago timore) quando, in fase di registrazione, mi è stato mostrato come si aggiunge il riverbero per la prima volta, necessario in una sala naturalmente molto secca, e la libertà di scegliere diversi tipi di riverbero, tra i quali preset già pronti all’uso che sfruttano la presa di suono del riverbero naturale di sale come il Concertgebouw di Amsterdam o la Wigmore Hall: questione di gusti. L’idea di poter registrare e conservare questa qualità del suono senza la frequenza originale sembra tanto astratta quanto possibile con le tecnologie odierne, ed è questo quello che Blumberg ha profondamente voluto per la colonna sonora di una sezione del film, in cui László si ricongiunge con un vecchio collega e amico italiano a Carrara, per mostrare a un cliente tutto il fascino e l’imponenza delle cave di marmo.

Come racconta lo stesso compositore, per registrare il riverbero delle cave è stato registrato un colpo di pistola, per rimuoverne poi digitalmente le frequenze dello sparo e sostituirle con il sassofono di Evan Parker: il risultato è un’immersione dell’ambiente fisico in quello sonoro, non lontano dall’effetto ottenuto nella scena al jazz club.

Blumberg crea quindi un ambiente musicale caratterizzato dall’elemento ritmico, serrato e ossessivo dei cantieri, del lavoro brutale e incessante, e vi alterna con la stessa insistenza l’aspetto motivico e a tratti quasi melodico; la sua ricerca non è mai mirata né a un certo ordine, né al light jazz che ci si aspetta da un film ambientato negli anni di grande riscoperta. Se la prima metà racconta il sogno americano incipriato e di facciata, e la sua illusione, la seconda metà è una tragedia greca. Blumberg non cede però in nessuno dei contesti a proporre al pubblico qualcosa che accomodi l’orecchio e l’ascolto. Si percepisce la sua funzionalità al linguaggio del film, che è crudo, spesso rapido e violento nei colpi di scena e nella scrittura, ed è forse questo l’elemento più caratterizzante, che attraversa il film per ben 82 minuti nella sua interezza. Una colonna sonora monumentale, rispetto ad altri esempi recenti.

La lotta per i propri progetti

Un tema centrale del film è la resilienza di fronte ai soprusi e le difficoltà che ostacolano la riuscita dei progetti artistici e individuali, famigliari di László. Come racconta lo stesso Corbet, è un’esperienza comune a molti artisti, e tocca da vicino anche l’esperienza di questo film (e della colonna sonora), il cui lavoro è durato ben sette anni:

Si lavora a qualcosa per anni. Non vieni pagato molto o, se lo fai, non è abbastanza per vivere per quattro o sette anni finché non riesci a far decollare il tuo prossimo film. È una cosa che ti toglie molto. Per i musicisti è ancora peggio. I ballerini? I giornalisti? È terribile per qualsiasi artista oggi. Viviamo in un momento molto inquietante in cui ci si aspetta che facciamo di più per molto meno. Dobbiamo lottare per poter fare il nostro lavoro. Io ne ho abbastanza. Sono stanco, sapete? Dovrei poter fare il mio lavoro in pace. (Corbet fa una pausa dopo essersi commosso) Mi dispiace… oggi sono molto emotivo. Questo film è molto personale, nel senso che parla di quanti ostacoli sono stati frapposti sul mio cammino e su quello di mia moglie solo per dare vita ai nostri progetti. Questo film non avrebbe dovuto richiedere sette anni per essere realizzato. Ma è successo, e i miei livelli di cortisolo sono ancora alle stelle.

Brady Corbet per The Hollywood Reporter

Attuale e angosciante, lo spettatore è costretto a sentire il sapore amaro di questa consapevolezza da parte di László e la sua famiglia per tutto il film, ed è proprio la resilienza che trascina tutto verso l’obiettivo finale, la destinazione. Blumberg firma le musiche con questo senso di direzione molto lucido, nonostante la complessità e la difficoltà dello stile che presenta al pubblico: è ancora molto nuovo, nel mondo della musica da film, questo tipo di scelta. A soli trent’anni e alla sua seconda esperienza di compositore per il cinema, Blumberg presenta un lavoro non più solo coraggioso ma davvero resiliente, che vuole proporre, quasi con prepotenza, qualcosa di diverso – ma perfettamente contestualizzato, con una sua logica, e quindi lontano dalla sperimentazione fine a se stessa. Un lavoro collettivo quindi pregno di volontà, di ambizione: un esempio per tutti gli artisti delle difficoltà del nostro mondo e di come queste possano piegare e distruggere a volte i protagonisti, ma non i loro sogni.

Margherita Succio

Autrice

Proud Gen Z che prende più aerei che autobus, legge tanti libri perché ha l'ansia di non averne letti abbastanza.

Musicista curiosa e grande amante della musica da camera, è titolare della Borsa di Eccellenza della Confederazione Svizzera per ricercatori e artisti stranieri ed è autrice e content creator per Quinte Parallele dal 2021.

Attualmente frequenta il suo secondo Master of Music presso il Conservatorium Maastricht con Gabriel Schwabe.

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