Ultimo aggiornamento17 novembre 2025, alle 00:11

La cultura è (sempre) un atto politico

di Carlo Emilio Tortarolo - 8 Luglio 2025

Obbligati a scegliere e spiegare ciò che tramandiamo, siamo obbligati a prendere una posizione

Che ci piaccia o no, fare cultura è un atto politico.
Non necessariamente di partito, ma politico nel senso più vero e alto: riguarda la comunità stesse, le idee che vogliamo trasmettere e le visioni che vogliamo lasciare in eredità.

Non servono proclami militanti o bandiere al vento, che, per carità, esistono e caratterizzano una frangia culturale ma, in realtà, basta raccontare una storia, scrivere musica, mettere in scena uno spettacolo, allestire una mostra.
Ogni gesto culturale trasmette un’idea del mondo e ogni volta che la cultura si presenta come “neutrale”, finisce solo per nascondere meglio le proprie scelte.

Prendiamo la musica, che spesso consideriamo linguaggio universale.
È vero: può commuovere chiunque, ovunque, ma è anche radicata nel suo tempo, coi suoi conflitti e i suoi valori.

Richard Wagner non è solo il gigante dell’opera tedesca: come sanno anche i sassi, ormai, è l’autore di un saggio ferocemente antisemita e di un pensiero che ha lasciato un’ombra nera sul suo mito.
La sua musica non ci trasmette antisemitismo in modo didascalico, ma la sua figura e la sua eredità ne sono intrise. Che facciamo, allora? Vietiamo Wagner? Lo cancelliamo dai teatri? No. Lo ascoltiamo, lo suoniamo, ma raccontiamo anche il contesto.
D’altra parte custodire il patrimonio non significa necessariamente addolcirlo.
Meglio di chiunque, è stato proprio il direttore e pianista di origini ebraiche, Daniel Barenboim, che ha più volte difeso l’esecuzione di Wagner pur condannandone senza appello le idee, parlando di un antisemitismo dell’uomo ma non del suo lavoro.
Quando nel 2001 propose di suonare Wagner in Israele, rompendo un tabù radicato, non cercava di assolvere il compositore, ma di separare l’uomo dalla sua opera, rivendicando la possibilità e la responsabilità di raccontare tutto, senza cancellazioni ma anche senza indulgenze.

Passando alla lettura, pensiamo, invece, a Rudyard Kipling.
Il creatore del Libro della Giungla e Premio Nobel per la letteratura, fu anche autore del The White Man’s Burden, bandiera dell’ideologia coloniale britannica su cui non mi addentrerò per evitare problemi con la stupidità dell’algoritmo social.
All’epoca i suoi versi erano considerati un inno morale al dovere dell’Occidente, oggi sono il paradigma del razzismo strutturale del colonialismo.
Dobbiamo bruciare i suoi libri sulla pubblica piazza per un definitivo rito di purificazione?
No, anche se la proposta di bandirlo dalle biblioteche americane dei distretti scolastici è all’ordine del giorno. Ecco, forse, prendendo proprio spunto dalla mai risolta questione colonialista americana, dovremmo leggerlo meglio, con più consapevolezza e spiegare cosa significavano allora, e cosa significano oggi.

O se arriviamo alla pittura, come non citare Paul Gauguin.
Il pittore post-impressionista che lasciò la moglie con cinque (5!) figli in cerca di ‘autenticità’, stabilendosi a Tahiti, dove dipinse ragazze adolescenti nude, spesso sue compagne. All’epoca passava per esotismo e primitivismo affascinante.
Oggi si tratterebbe di pornografia coloniale e sfruttamento sessuale ma questo non sminuisce il valore delle sue tele o la sua tavolozza inarrivabile. Il contesto è parte dell’opera e non possiamo rimuoverlo solo perché ci imbarazza o ci mette in imbarazzo.

Questi e infiniti altri esempi ci raccontano chi siamo stati, con il nostro giusto e il nostro sbagliato.

E il giusto e lo sbagliato non sono valori assoluti: si ridefiniscono ogni volta che li guardiamo con occhi nuovi, a seconda dell’evoluzione che stiamo perseguendo.

Per questo non possiamo cancellare né correggere la storia della cultura.
Non dobbiamo vergognarcene, ma dobbiamo raccontarla tutta, senza omissioni, sconti e indulgenza.

Per questo non possiamo cancellare né correggere la storia della cultura.
Non dobbiamo vergognarcene, ma dobbiamo raccontarla tutta, senza omissioni, sconti e indulgenza.

Qui però torniamo all’inizio.
Se siamo i custodi del passato e i testimoni del presente, non possiamo esimerci dall’avere idee, nessuno (ministro o troll d’internet che si voglia) può pretendere che la cultura sia neutra. Perché la richiesta di ‘lasciate fuori la politica’ è già una posizione politica di per sé. È l’illusione di uno spazio puro, incontaminato, che non è mai esistito.

Il vero problema non è se la cultura debba fare politica, è che non è più possibile sostenere un confronto con la cultura.
Viviamo in un’epoca dove ogni dialogo sembra un duello. O vinci o perdi.
Ogni polemica diventa una caccia al nemico e in questo clima, la cultura, che dovrebbe essere il luogo del dubbio, del confronto, del pensiero complesso rischia di ridursi a un talk show.

Fare cultura significa portare la propria esperienza, la propria idea del mondo, la propria lettura della realtà a un tavolo condiviso. Non si crea cultura nella purezza, ma nel mescolarsi delle differenze.
Non dobbiamo temere che chi fa cultura dica la sua. Dobbiamo imparare a discuterne. E accettare che la cultura, se vuole avere senso, deve tornare nel dibattito pubblico. Non per fare propaganda, non per imporre una verità, ma per dare direzione, per proporre visioni, per costruire e non abbattere.

Perché, alla fine, è solo parlando di quello che siamo stati e di quello che vogliamo diventare che possiamo immaginare un futuro diverso. E se questo non è un atto politico, allora cos’è?

Carlo Emilio Tortarolo

Autore

Direttore d'orchestra, pianista e manager culturale veneziano, Carlo Emilio è presidente di Juvenice - Giovani Amici della Fenice, associazione dai giovani per i giovani per la condivisione e la promozione degli spettacoli musicali, ed è segretario del Festival Pianistico ‘B. Cristofori’ di Padova.

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