Uno sguardo al XXIII Festival Verdi

Il Festival Verdi 2023 ha costituito una sorta di spartiacque: conclusa lo scorso anno la gestione di Anna Maria Meo, che si avvaleva della direzione musicale di Roberto Abbado, è cominciata la sovrintendenza di Luciano Messi, affiancato dal consulente artistico Alessio Vlad. Continuità e discontinuità accompagnano sempre tali passaggi di consegne. Prosegue ad esempio – ed anzi si consolida – l’idea di un festival spalmato sul territorio, sia in ambito cittadino, con il potenziamento del cartellone parallelo di Verdi off e dei vari progetti speciali coordinati da Barbara Minghetti, sia con il coinvolgimento del Teatro di Busseto e, dallo scorso anno, anche quello di Fidenza per dislocarvi intere produzioni operistiche. L’idea di un coinvolgimento della regione a più ampio raggio si realizza poi con la collaborazione sempre più stretta e cospicua con il Teatro Comunale di Bologna, che offre orchestra e coro per molte serate del Festival e ne importa un allestimento nella propria stagione dell’anno successivo. Confermata anche la vocazione musicologica della manifestazione, con i referenti scientifici Francesco Izzo (responsabile dell’edizione The Works of Giuseppe Verdi) e Alessandro Roccatagliati (direttore dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani).

Sono stati quattro i titoli operistici in cartellone durante il mese di programmazione del festival 2023, dal 16 settembre (inaugurato con una Verdi street parade) al 16 ottobre (conclusione con il concerto delle giovani promesse addestrate nella Accademia verdiana): I Lombardi alla Prima Crociata e Il trovatore ospitati al Teatro Regio di Parma, Falstaff in versione orchestralmente ridotta nel minuscolo Teatro Giuseppe Verdi di Busseto e Nabucco in forma di concerto nel delizioso Teatro Girolamo Magnani di Fidenza. In tutti i casi, venivano messe in scena le versioni comunemente attestate delle varie opere, senza ricorrere cioè a varianti e riscritture d’autore come in molte proposte degli anni passati, così che il piatto più atipico risultava essere la partitura giovanile dei Lombardi, proposta nella sua assoluta integrità (circostanza assai desueta nelle rare esecuzioni recenti di tale opera nel mondo).

Assai interessante sulla carta, il cast vocale è stato funestato da una serie di incidenti nella recita a cui abbiamo assistito (7 ottobre). Il soprano Lidia Fridman, nella parte quasi impossibile di Giselda (forse il ruolo più difficile scritto da Verdi per qualunque registro vocale) è parsa in seria difficoltà nei primi due atti, tanto da far paventare una sostituzione ‘in corsa’: ha invece tenuto duro, venendo ricambiata da una notevole ripresa delle forze nel terzo e quattro atto, recuperando quella sicurezza che l’impervia scrittura richiede. Il basso Michele Pertusi (da sempre beniamino del festival, giocando in casa) ha affrontato la grande aria del primo atto con voce un po’ sfocata nell’intonazione, raramente netta nelle singole note; poi inciampando nel suo stesso costume è incappato in una storta al piede che ha costretto all’interruzione momentanea dello spettacolo: scampata anche per lui l’eventualità di una sostituzione immediata, Pertusi ha proseguito la recita seduto; ed è qui che si è palesata la statura drammatica dell’interprete, capace di farti dimenticare i limiti attoriali imposti dall’immobilità con una recitazione tutta fatta di gesti vocali e mimici tali da rendere appieno la statura tragica dell’ambiguo personaggio di Pagano. L’apprezzamento per il tenore Antonio Poli, che eccelleva ai suoi non lontani esordi con il garbo e la levigatezza di una bella voce lirica, è andato scemando negli ultimi anni per la scelta d’indirizzare il canto verso tinte sempre vigorose, un’emissione sempre tesa, anche in una parte quasi donizettiana come quella di Oronte: la scelta del canto di forza paga, evidentemente, attirandosi quelle ovazioni che non mancano mai di fronte a una voce di tenore stentorea, ma potrebbe non ripagarlo più alla lunga distanza temporale. Molto più corretta, di fatto, la prestazione dell’altro tenore, Antonio Corianò, che come interprete di Arvino capitanava il gruppo delle seconde parti vocali, affiancato dal soprano Giulia Mazzola quale Viclinda e dal basso Luca Dall’Amico come Pirro.

L’interesse maggiore veniva in definitiva dalla concertazione inappuntabile di Francesco Lanzillotta alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini, ancora visibilmente provato dal brutto incidente stradale che, a metà agosto, lo costrinse ad abbandonare le recite di Adelaide di Borgogna al Rossini Opera Festival di Pesaro. E soprattutto dall’allestimendo di Pier Luigi Pizzi, che ne firmava tutte le componenti, dalla regia alle scene, dai costumi ai video. La vitalità di questo inossidabile artista, oggi novantatreenne, e la sua capacità di rinnovarsi continuamente, pur rimanendo fedele alla sua personalità fatta di eleganza e rigore, non cessano di stupire, anno dopo anno, con una sorta di terza giovinezza conquistata nell’ultimo decennio. Lo spettacolo, sostanzialmente in bianco e nero, vinceva su ogni velleitaria drammaturgia contemporanea per un semplice, quasi banale, aspetto: il rispetto della drammaturgia originale proposta dal testo verbale e musicale. In un’epoca in cui la scena fissa è ormai d’obbligo, nel teatro parlato come in quello musicale, poter vedere la collocazione di ogni porzione di spettacolo nel luogo – aperto o chiuso, diurno o notturno, europeo od orientale – indicato dal libretto rendeva finalmente intelligibile un dramma per solito astruso: l’opera consiste di fatto in una scelta di episodi estrapolati dal lungo poema omonimo di Pasquale Grossi, distribuiti fra Milano e Antiochia, fra palazzi regali e accampamenti bellici, ora in un harem musulmano, ora in una caverna d’eremita, con rapidi e ripetuti passaggi da una location all’altra, come in una pellicola cinematografica. Ciò risultava scenicamente possibile grazie alla tecnologia del ledwall, una grande parete a LED sulla quale si concretizzavano all’istante la Basilica di Sant’Ambrogio o il deserto con Gerusalemme sullo sfondo, disegnati con tale vivezza ed eleganza da lasciare ammirati ad ogni sguardo. E quando poi, sullo sfondo bicromatico, venivano a stagliarsi gli splendidi abiti multi color delle odalische, l’effetto era rapinoso. Forse che non è regia, questa, come qualcuno vorrebbe? Non è forse anche questa una lettura personale del regista, personalissima, che parte però dal testo (e non dall’autoreferenzialità egocentrica di chi lo mette in scena), per renderlo chiaro ed efficace in ogni suo elemento, così come fa il direttore d’orchestra, così come fanno i singoli cantanti chiamati a interpretarlo? Tutto era nondimeno smaccatamente finto, antirealistico, non ultimo nella scelta di portare in scena i tanti assoli strumentali che costellano la partitura, proposti da esecutori in abiti moderni che sottolineavano al massimo grado il doppio livello temporale e stilistico; e un particolare plauso va allora alla violinista Mihaela Costea, impegnata nell’immenso assolo del terzo atto (un vero tempo di concerto virtuosistico per violino e orchestra), reso ancor più straniante dalla collocazione dell’esecutrice in palcoscenico.

Mihaela Costea

Come d’uso, ancor prima di concludersi l’edizione 2023 è già annunciato il Festival 2024, dal 21 settembre al 20 ottobre: solo i titoli, per ora, con Macbeth in versione francese che riapre il discorso sulle versioni alternative riportate in scena e La battaglia di Legnano quale titolo verdiano desueto, mentre a Busseto risuonerà Un ballo in maschera e a Fidenza un Attila in forma di concerto. La tradizione consolidata della programmazione continua.

© Fotografie di Roberto Ricci

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